Dopo aver assistito alla presentazione al Festival di Trento del libro Grido di Pietra di Reinhold Messner e soprattutto dopo averlo acquistato e letto pochi giorni dopo, il 5 giugno 2009 mi risolsi a scrivere all’autore, l’amico Reinhold, per esprimergli le mie perplessità al riguardo.
Riporto qui di seguito la lettera inviata e la sua pronta risposta.
Caro Reinhold,
questa che riporto qui sotto è una lettera che praticamente mi sono autoscritto, in modo assolutamente privato. Perché abbia valore nel mio percorso psicologico debbo anche inviartela, perché ti riguarda. Naturalmente sei libero di rispondermi o meno. A presto! Alessandro
Il peccato di Reinhold Messner
Nel cercare di chiarire a me stesso cosa mi ha colpito così in profondità quel pomeriggio a Trento dovrei meditare a lungo, anche dopo essermi preso il tempo di leggere l’intero libro Il Grido di Pietra. Impresa condotta in una quindicina di giorni, nei ritagli di tempo, in tram, in metropolitana, in bagno, ma sempre con la voglia di farlo, per la curiosità di vedere come un altro storico vede la storia.
Quel pomeriggio a Trento sono rimasto impressionato dalla violenza con la quale Reinhold ha esposto la sua tesi. Aggressivo, arrogante quasi. Crudele, forse. Killing Cesare Maestri si sarebbe potuto intitolare la presentazione di quel nuovo suo libro.
Senza possibilità di scampo, con il desiderio di chiudere una vicenda storica durata 50 anni, e chiuderla a chiave. E gettando via la chiave subito dopo.

Non voglio entrare in particolari tecnici, che dovrebbero esser discussi uno per uno. Soprattutto i chiodi che mancano, il tempo atmosferico pessimo, la pendenza media dell’itinerario Egger-Maestri. Mi voglio limitare solo alla critica alle mie emozioni, come ascoltatore e lettore.
Anche se a volte si ha l’impressione che qualche conversazione o intervista non sia del tutto aderente alla logica del personaggio intervistato (colpa della traduzione?), il libro è avvincente. Segue gli avvenimenti in linea cronologica, come deve essere: ma spesso i fatti sono interrotti da considerazioni personali dell’autore che si perde più a scandagliare il perché dei suoi dubbi che non il perché dei dubbi degli altri, come si presume dovrebbe fare uno storico oggettivo.
Perché in fin dei conti, si chiede Messner, dubitare di Maestri quando egli stesso ha di Maestri la massima stima come arrampicatore e come alpinista estremo? La stima per Maestri è ribadita ad ogni piè sospinto (e questo pure a voce, nella presentazione di Trento), quasi a significare la paura interiore nel giudicare una vicenda in modo così volutamente definitivo. Messner condanna Maestri, perché la realtà sul Cerro Torre è stata altra cosa da come il trentino l’ha raccontata: ma, mentre lo condanna, gli dà delle attenuanti, perché continua a stimarlo! Lo giustifica con l’avventura pazzesca da lui vissuta, per aver visto la morte in faccia, per i particolari necessariamente un po’ contradditori della relazione, per il ricordo offuscato dopo 50 anni. Lo giustifica perfino addossando ad altri (a Cesarino Fava) la responsabilità di aver architettato la menzogna. Per Messner fu Cesarino Fava ad avere la vera necessità e urgenza psicologica di un successo ad ogni costo sul Torre.
Ho anche notato che il libro è meno “crudele” della presentazione del libro a Trento. Le cose dette sono le stesse, ma arroganza e pretesa di essere giudice autoritario sono nettamente inferiori. Colpa dell’evento mediatico della presentazione? Siccome Messner sa bene che scripta manent allora è stato più duro a parole che sulla carta?

L’impressione che ho ricevuto a Trento non si è ripetuta durante la lettura. Forse mi sto abituando? Forse all’iniziale ribellione provata a Trento vado gradualmente sovrapponendo la razionalità, il giudizio negativo dei migliori arrampicatori del mondo che si sono avvicendati a cercare di ripetere la pretesa via di Maestri?
Non lo so. Forse, in fin dei conti, spero ancora in un salvataggio in extremis di Cesare Maestri. Sogno il giorno in cui tutto si chiarirà positivamente, meglio continuare a sognare avendo paura della prova contraria definitiva che cedere alla tentazione di non sognare più. Sempre dalla parte della vittima? Anche se questa è stata ed è un po’ fanfaronesca, istrionica, nonché clamorosamente egocentrica? Si può essere generosi (e Maestri è stato ed è un generoso), ma si può al tempo stesso reclamare per se stessi l’attenzione del mondo, in modo quasi disumano, innaturale e provocatorio. Fino alla menzogna?
Messner sta al gioco della leggenda che si è creata attorno a Maestri. Ne sente il fascino, è evidente, lui stesso continua ad affermarlo. Come un cacciatore segue le orme del camoscio, ne annusa il passaggio, ne prevede le mosse. Quando finalmente vede l’animale lo ammira in tutto il suo splendore naturale, lo ama quasi. Ma poi non esita a ucciderlo con una fucilata. Così come non esita a scuoiarlo, mangiarlo, esporne il trofeo.
Perché il colpire a morte l’animale è l’atto supremo dell’uomo per affermare la sua superiorità alla natura che gli appare già così tanto bella. In fin dei conti è un atto romantico, Io contro Natura.
Due mesi fa ho sognato d’essere in vetta ad una montagna abbastanza alta, con neve. In cima era una capanna, ed io vi ero assieme a Messner. Eravamo lì, senza un perché. Non si stava male. Ad un certo punto Messner comincia a scendere di corsa per il pendio di neve, io lo seguo per poco poi lo lascio andare. Eravamo assieme, ora non più. Io sogno ancora, lui no. Io sono ancora in cima tra le nuvole, lui è dabbasso. Non è che io non posso scendere: semplicemente non lo desidero.
È dal 1968 che ammiro Messner, le sue realizzazioni, il suo stile di vita. L’ho invidiato anche, ma l’invidia non mi ha impedito la correttezza nei suoi confronti e di continuare a stimarlo. L’ho difeso mille volte, nelle discussioni con amici, per iscritto, perfino nelle mie conferenze, quando la gente mi chiedeva con un sorrisetto cosa ne pensavo di lui.
E ora, perdio, mi dà un fastidio enorme averlo dovuto abbassare di un gradino dal piedistallo su cui io stesso lo avevo posto. Non è qualcosa che faccio volentieri, perché continuo ad ammirarlo e invidiarlo. Non mi dà sollievo vedere che il mio eroe non è così eroe, anzi è sceso dalla vetta su cui eravamo assieme.
Quinto, non uccidere. La Tavole di Mosè non dicono perché, ma forse bastava aggiungere “perché non ne hai bisogno”. Possiamo sostituirci alla giustizia divina?

Risposta di Reinhold Messner
(19 giugno 2009)
Carissimo Sandro, bene. Sei rimasto lassù. Io sono sceso nelle più profonde vallate, nei boschi oscuri per capire i miei simili. Ho voluto ritornare nella mia vita. Non sono un romantico da quarant’anni e sto tanto bene senza nessun eroe che non devo costruirmelo. Per conoscere gli angoli segreti e nascosti dell’animo bisogna avere la fortuna di capire la differenza tra retorica e realtà. Riscrivere la storia dell’alpinismo è affascinante, ma solo se ti incontri con i pseudo-alpinisti. Ringrazio Cesarino (Fava) e mi dispiace per Cesare (Maestri).
Ma non posso, come storico, negare i fatti. Il “Torre” è quel fatto che rimane, l’unica verità oltre le migliaia di verità umane. E’ la montagna che rispetto come arbitro e non lavoro con i dubbi. Scrivo solo quello che so.
Logicamente, la storia scritta rimane sempre soggettiva, perché scritta da un soggetto. Quanto vale lo diranno i prossimi millenni. Saluti, tuo Reinhold.


************
In questa puntata della nostra storia della via Egger-Maestri al Cerro Torre riportiamo cinque tra i più significativi capitoli del libro Grido di Pietra (Schrei aus Stein, 2009) di Reinhold Messner.
Cerro Torre – 09 – Grido di Pietra
Capitolo 7. Toni Egger. L’uomo mosso dalla passione
“Couzy scrisse a Bonatti che cosa avesse intenzione di fare, ma nessuno si ricordò che anch’io avevo la mia parte di diritti su questa montagna (1959) (Cesare Maestri)”.
“Non mi piacciono le fanfare suonate alla partenza, preferisco quelle suonate all’arrivo (Cesare Maestri)”.
“Ringrazio Dio che per tutta la vita mi ha concesso di essere un uomo che ha sempre sentito la passione (Toni Egger)”.
“Caro Cesare, offrirei volentieri la mia collaborazione per la tua spedizione. Dovrebbe riuscire un gran successo (Toni Egger)”.
“Pur non avendomi interpellato, non mi sarei mosso da Trento se avessi saputo che Couzy fosse partito alla volta del Cerro Torre (Cesare Maestri)”.
“Bonatti e Mauri hanno deciso di non partire; Couzy è morto e i francesi hanno rinunciato a fare la loro spedizione (Cesare Maestri)”.
“Il Torre è una montagna fantastica, una torre di granito gigantesca, le cui pareti sembrano tagliate dalla lama di un coltello. La parte superiore è coperta dal ghiaccio, una torre che con le sue pareti verticali, dai ghiacciai a 1000 metri di quota fino alla vetta a 3128 metri, si protende verso il cielo della Patagonia (Toni Egger)”.
“Egger era bravo sul ghiaccio, con le piccozze della sua epoca però non sarebbe mai riuscito a salire il fungo di ghiaccio (Alexander Huber)”.

“Toni Egger non aveva certo colpa per la passione che sempre lo motivava. La sua genialità e i suoi sogni avevano origine nel suo istinto, nella sua esperienza e in una certa porzione di abilità artigianale (Reinhold Messner)”.
Toni Egger, nato a Bolzano il 12 settembre del 1926, ha 13 anni quando con la sua famiglia si trasferisce a Debant, nei pressi di Lienz, in seguito al processo di emigrazione degli «optanti» sudtirolesi. Il Tirolo Orientale diventa la sua seconda patria. Le due parti del Tirolo hanno mantenuto un elemento in comune: le montagne. E le montagne diventano il mondo di Egger.
A 15 anni già frequenta le Dolomiti di Lienz, da solo e senza scarpe affronta l’Alpenrautenkamin. Arrampica con i calzettoni, le scarpe in mano. La sua carriera di arrampicata vera e propria inizia dopo la guerra, nelle Dolomiti: nel 1950 Toni Egger è per la prima volta alle Tre Cime di Lavaredo, nelle Dolomiti di Sesto. Ha passato il confine percorrendo i sentieri dei contrabbandieri, perché non ha il passaporto. Ed è affascinato: «Per la prima volta nelle Dolomiti, incantato dalla bellezza di queste montagne poderose; desidero solo farvi ritorno per affrontare vie più impegnative», così scrive nel suo quaderno delle scalate. Tre mesi dopo affronta la parete nord della Cima Grande di Lavaredo con Franz Rienzner. Heini Heinricher è un altro arrampicatore entusiasta, spesso compagno di cordata di Toni Egger. Insieme realizzano un’invernale sulla parete nord del Laserzkopf e la prima della parete nord del Roter Turm nelle Dolomiti di Lienz, nelle Alpi Carniche la parete nord del Kellerturm. Nel Tirolo Orientale Toni Egger è ben presto considerato un genio dell’arrampicata. Davanti a sé ha una carriera alpinistica assolutamente eccezionale.
Nel luglio del 1951 Toni incontra Franco Mantelli alla Studlhütte nella zona del Grossglockner. Già il giorno seguente i due salgono il couloir Pallavicini sul Grossglockner. Toni Egger partecipa ai corsi per diventare guida e intanto lavora come boscaiolo. Durante l’estate collabora anche con un geometra. Quasi sempre in montagna. Fra un impegno e l’altro riesce sempre a fare una scappatina nelle Dolomiti. Spesso e volentieri. Porta a termine lo spigolo Giallo alla Cima Piccola di Lavaredo, con Heini Heinricher. In solitaria realizza la traversata delle Torri dello Spitzkofel. Nell’autunno di quell’anno diventa guida; è felice.
Nel 1952 realizza altre prime nelle Dolomiti di Lienz. E sempre attratto da queste montagne: Roter Turm, spigolo sud-ovest e parete orientale. Ellerturm, parete nord. Poi arriva alle Tre Cime di Lavaredo: porta a termine spigolo Giallo, Cassin alla Cima Piccolissima e parete nord della Cima Grande. Con Franco Mantelli – il suo amico Rienzner è morto in un incidente il 1° maggio 1951 – scala il Cervino lungo la cresta del Furggen. Nel 1952 Egger entra a far parte della Alpine Gesellschaft Alpenraute* di Lienz (La Alpine Gesellschaft Alpenraute, fondata nel 1905 a Lienz, era un circolo di amanti della montagna, dell’alpinismo e dello sci, NdT). Insieme a Gottfried Mayr, Toni sale la parete nord della Cima Ovest di Lavaredo e la via Solleder sul Civetta. Al termine va a lavorare in Svizzera come boscaiolo.
Nel 1953, mentre Hermann Buhl, di due anni più anziano, festeggia la prima sul Nanga Parbat, Toni Egger si dà da fare come guida alpina, boscaiolo e geometra. Le montagne, le sue amate montagne, sembrano non volergli concedere alcuna possibilità. Non è l’entusiasmo ad averlo abbandonato, gli manca il tempo libero. È solo nel 1954 che si sente di nuovo al meglio della forma. In poche ore realizza lo spigolo Mazzorana alla Cima Piccola, supera la parete sud del Laserz e infine realizza la famosa doppietta: con Gottfried Mayr parete nord di Cima Ovest e Cima Grande di Lavaredo. E la prima volta che una cordata sale due pareti nord in un solo giorno: sensazionale!
Undici ore di arrampicata, non di più. E poi le solitarie: Campanil Basso, spigolo Giallo alla Cima Piccola, Cassin alla Cima Piccolissima, Nord di Cima Grande, Spigolo Mazzorana, discesa lungo lo spigolo Dibona. A questo punto Egger in solitaria arrampica con la stessa sicurezza e velocità di Cesare Maestri e sul granito affronta salite pari a quelle di Walter Bonatti. Sulla parete nord della Cima Piccolissima realizza la via Eisenstecken, in val Bregaglia la famosa parete nord-est del Pizzo Badile, nella regione del Bianco la parete est del Grand Capucin. Fra gli iniziati cominciano a circolare voci che riguardano Egger, l’“arrampicatore libero puro”. Lo chiamano “donnola” e “campione del mondo Toni Egger”. Ma Toni Egger non è un ambizioso, non gli piace mettersi in mostra, è un tipo silenzioso, riflette, è curioso. E religioso. Nel suo quaderno delle scalate l’introduzione recita: “Che questo anno di arrampicate possa essere uno dei migliori. Che Iddio mi protegga e mi accompagni lungo le vie più difficili. Noi siamo creature del nostro Signore, ammiriamo la Natura, la sua creazione incomparabile”.
Il 1956 si apre con la prima invernale della parete nord dello Hochstadl nelle Dolomiti di Lienz, una delle pareti più alte delle Alpi Orientali. Seguono la parete sud del Roter Turm, la cresta sud dell’Aiguille Noire, pareti sud ed est del Dente del Gigante e poi il pilastro del Dru. Insieme a Herbert Raditschnig porta a termine con un solo bivacco la seconda ripetizione del capolavoro di Bonatti. Due giorni dopo Gaston Rébuffat, è sulla parete sud dell’Aiguille du Midi e ne realizza la prima ripetizione. Casualmente incontra Maestri, dopo aver compiuto – in sole quattro ore – una solitaria sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Nessuno dei due immagina che nel giro di poco tempo partiranno insieme alla volta della montagna più difficile del mondo.
A una serie di salite nella zona del Kacker Dagi, in Turchia, fa seguito nel 1957 una spedizione alle cordigliere sudamericane, guidata dal dottor Heinrich Klier, alpinista molto preparato e allo stesso tempo anche scrittore di successo. La cordata Toni Egger-Siegfried Jungmair affronta innanzi tutto lo Jirishanca, «una delle vette più impegnative delle Ande peruviane». A questo successo segue la prima sul Toro, un altro seimila, durante la quale Egger e Jungmair sfuggono per miracolo a una slavina. Ai successi alpinistici si aggiungono, in patria, quelli professionali: a Innsbruck gli viene affidata la direzione della Hochgebirgsschule Tirol (Scuola di Alta Montagna del Tirolo). Egger accetta l’incarico e a partire da quel momento si dedica anima e corpo alla professione di guida alpina. Non gli resta molto tempo per l’apertura di vie nuove. Il pilastro sud-est del Patteriol nel Verwall e lo spigolo sud-ovest della Cima Bois nelle Dolomiti sono il bottino limitato del 1958. In più ripete le nuove Direttissime al Predigtstuhl e alla Roda di Vael sul Catinaccio. Con Erich Abram, l’eccezionale alpinista di Bolzano, sale invece la parete nord della Cima Grande di Lavaredo per via Hasse-Brandler. Come Cesare Maestri, nel 1958 Toni Egger è ancora un rocciatore “sulla cresta dell’onda”. Non suscita quindi meraviglia il fatto che nella sua fantasia prenda corpo l’immagine di quella guglia di granito del lontano Sudamerica – come oggetto del suo desiderio: una montagna più ripida dello Jirishanca. E Cesare Maestri lo vuole con sé. Toni Egger è felice di poter realizzare il suo sogno.
Ho sempre provato interesse per l’uomo Toni Egger, al di là dell’alpinista. Com’era, cos’è diventato, com’era nel 1958? L’allontanamento dall’Alto Adige, la guerra, la prigionia, il lavoro nei boschi l’avevano profondamente segnato. Aveva una vita dura alle spalle quando nel 1951 diventò guida alpina. Nella zona del Wilder Kaiser aveva arrampicato con Hermann Buhl, era presto diventato una guida alpina molto richiesta e aveva tenuto molte conferenze. Il giovanotto un po’ selvatico era in grado come nessun altro di raccontare le sue esperienze in montagna. Nel 1957 venne poi il viaggio nella cordigliera, durante il quale Toni insieme a Siegfried Jungmair aprì la via sul Toro 6121 m, e sullo Jirishanca 6126 m. È questa montagna che gli riaffiora nella memoria quando vede un’immagine del Cerro Torre: Egger desidera rivivere un’esperienza simile! Come se un solo capolavoro non fosse sufficiente nella vita di un alpinista.

Lo Jirishanca: il 10 luglio 1957, tutti gli alpinisti e i portatori sono pronti per il secondo attacco alla vetta. La sera stessa riescono ad allestire il campo avanzato II sul tratto superiore del ghiacciaio.
Questo secondo e ultimo tentativo al Nevado Jirishanca, la «meta più radiosa fra le montagne del Sudamerica», viene descritto nel minimo dettaglio dal capo spedizione Heinrich Klier, tanto che le capacità e il carattere di Toni Egger ne risultano in modo molto vivo:
«Poiché il periodo buono pareva volgere al termine, fummo obbligati ad agire velocemente. Mancava il tempo per allestire i campi. Solo la grinta individuale poté portare ancora al risultato: bivacchi e niente tende; qualche boccone invece di cibo vero e proprio; per il resto solo arrampicare, progredire verso l’alto; nessuna discesa ai campi preparati, per poter la mattina successiva riprendere nel punto dove la sera ci si è interrotti. E il modo più duro che si possa immaginare di affrontare una montagna così difficile e alta – e dagli uomini impiegati nell’impresa nessuno può pretendere uno sforzo di questo tipo; eppure Egger e Jungmair di loro iniziativa si prestarono. Già alle prime luci dell’alba del giorno successivo lasciarono il campo avanzato II per salire, e nel farlo dovettero trasportare loro stessi la loro attrezzatura e le loro vettovaglie. La progressione lungo la via conosciuta – ghiacciaio, primo pilastro, nevaio I, II, III – va a buon fine nonostante gli zaini, che pesavano circa 25 chili. Il tunnel di ghiaccio sotto al primo nevaio era in parte ostruito, e i due dovettero innanzi tutto liberarlo. Già a mezzogiorno raggiunsero il secondo nevaio, dove lasciarono l’attrezzatura da bivacco. Nel pomeriggio prepararono il terzo nevaio e i pendii nevosi più limitati al di sopra, come anche il difficile secondo pilastro, e si videro costretti a ricorrere alle preziose corde che avevano lasciato durante la prima salita. A sera si calarono al bivacco. Quando si videro immersi nella nebbia e nella neve trasportata dal vento i due alpinisti si infilarono nei loro sacchi da bivacco provando una certa insofferenza per la sensazione che tutte le fatiche dei due giorni appena passati potessero forse essere inutili. Trascorsero una notte gelida sotto lo strapiombo del terzo nevaio dal quale pendono stalattiti di ghiaccio.
«La mattina del 12 luglio si presentò chiara e sferzante. I due alpinisti, sul loro pulpito separato dal resto del mondo, si trovavano al di sopra del mare di nubi che copriva le valli e i campi più bassi. Il vento di nord-est non faceva presagire nulla di buono e convinse Toni e Siegfried a fare in fretta. Prima però dovettero riscaldare le scarpe sopra il fornelletto, infatti alla temperatura di meno quindici si era congelato tutto. Partirono alle sette. Grazie al lavoro preliminare del giorno prima raggiunsero la fine del secondo pilastro (il punto in cui erano tornati indietro al primo tentativo) già alle otto di mattina. Da lì alla vetta non c’erano più di sei tiri da cinquanta metri. Ma la progressione lungo solchi scavati fra fragili cestole di ghiaccio, risalti verticali nel ghiaccio vitreo e fragile e infine il superamento della sommità della cornice appartengono alle imprese più ardite mai compiute sulla cordigliera. Alternandosi nella conduzione traversarono dalla fine del pilastro facendo un primo tiro verso nord, sotto la meringa, grande come una casa, che sporge dalla cresta. Dato che le condizioni sul versante sud erano negative come prima e la cresta stessa non agibile, i due dovettero salire sul versante nord, appena al di sotto delle minacciose meringhe strapiombanti.
Con l’esclusione del breve risalto sotto la cornice della vetta riuscimmo a seguire i due con il binocolo dai campi più bassi. Poi calò la nebbia e il vento cominciò a trasportare la neve. Ma intanto proseguiva la lotta dura sul fianco della montagna, sotto la vetta, su un terreno caratterizzato da canali scavati nel ghiaccio.
Verso le 14.30 Toni Egger e Siegfried Jungmair raggiunsero il punto più alto sotto la cornice della vetta, la vetta dello Jirishanca 6126 m. La cornice stessa sporgeva per circa 30 metri al di sopra della parete occidentale. Per un paio di minuti i guidoncini sventolarono sulla torre nordorientale annunciando che l’uomo aveva messo piede sull’ultimo seimila della Cordillera Huayhuash. Anche la discesa si rivelò assai complessa. Con poche eccezioni (traversi) i due dovettero calarsi dalla vetta fino al campo avanzato IL La montagna è così verticale che è praticamente impossibile scendere arrampicando. A 5800 metri di quota i due dovettero affrontare un altro bivacco. Poiché durante la salita avevano dato il tutto per tutto e in quella notte la montagna fu investita da violente tempeste di neve, fu solo la loro infinita forza di volontà che li aiutò a superare vivi quelle ore all’aperto. Entrambi gli alpinisti riportarono congelamenti non importanti ai piedi, il giorno successivo riuscirono comunque a calarsi con le loro forze fino al campo avanzato II».
Cinquant’anni dopo ho la fortuna di “incontrare” l’uomo che per primo ha scalato lo Jirishanca – o, almeno, il suo spirito. Mentre Lore Stötter racconta è lo spirito di Egger che rivive, poi si delinea chiaro il suo carattere e infine la sua grande passione. Lore Stötter, che ormai ha 82 anni, mi racconta tante cose del giovane Toni. Lo conosceva molto bene, hanno anche arrampicato insieme. No, non le ha mai mandato una cartolina dalla Patagonia, e nemmeno una lettera. Lo ricorda comunque molto bene, Toni, quando è partito per il Cerro Torre. Non ha bisogno di foto, ha ben presente l’aspetto che aveva a 20, 25 o 30 anni. Nei suoi ricordi non è mai invecchiato.

“Come mai niente posta dal Cerro Torre?” voglio sapere.
“A quel tempo era molto complicato. In Argentina la posta funzionava male…”.
“Quindi non hai ricevuto neanche una lettera dalla Patagonia, e nemmeno una cartolina?”.
“La cosa non mi ha dato nessun fastidio. La nostra amicizia era un sentimento molto elevato. Era successo così. Quando mio marito è morto in montagna, nelle Dolomiti di Lienz, avevo già due bambini ed ero incinta. Sono nata nel 1926… Toni il 12 settembre, io il 18. Ero così giovane, e Toni era un compagno di scalate di mio marito. È così che l’ho conosciuto. Per la Alpenraute. Già mio padre aveva partecipato alla costruzione del rifugio della Alpenraute”.
“Tutti e due della Vergine, quindi”.
“E il mio primo marito era nato il 17 settembre. Sì, tutti della Vergine!”.
“Che lavoro faceva?”.
“Toni faceva il boscaiolo, tagliava la legna allora: in Tirolo, Baviera, in Svizzera”.
“E i genitori?”.
“Il papa non l’ho mai conosciuto”.
“È rimasto in Alto Adige?”.
“Dovrei chiederlo alla sorella. È ancora viva. Sta a Debant. La mamma mi piaceva tanto. Viveva a Debant, era molto religiosa. Toni però c’era poco. Si assumeva l’incarico del taglio di intere partite di legname, prima in Baviera, poi nella Gailtal”.
“Con qualche altro ragazzo?”.
“Sì, ma era lui che organizzava”.
“Insomma, un imprenditore. Un imprenditore nel settore forestale”.
“Sì, andava in Svizzera e in Carinzia e quando sono rimasta vedova, nel 1951 – allora lo conoscevo solo superficialmente, come conoscevo tutte le persone che frequentavano la Alpenraute – mi ha contattato per sapere come stavamo, i miei bambini e io”.
“Andavi in montagna anche tu?”.
“Sì, anche da sola. Mio padre mi aveva portato sul Glockner già a 10 anni. A quei tempi non era come oggi, non era possibile spostarsi tanto. Siamo andati alla Stüdlhütte e poi sul Glockner e poi siamo scesi dallo Hofmannsgletscher fino al Glocknerhaus, dove il Club Alpino di Klagenfurt ha il suo rifugio. Mio padre faceva il magazziniere a Lienz”.
“Quindi Toni l’hai conosciuto meglio nel 1951?”.
“Sì, tutti parlavano di lui. Fra i frequentatori della Alpenraute era il migliore. Anche il mio primo marito era un Alpenrautler, era un ottimo arrampicatore anche lui. Toni è stato il primo del circolo che dopo l’incidente mortale di mio marito si è occupato di me. È venuto a trovarmi…”.
“… e ti ha chiesto come andavano le cose?”.
“Sì, voleva sapere come me la cavavo”.
“Avevi già due bambini?”.
“Già tre”.
“Dove e in che modo è avvenuto l’incidente di tuo marito?”.
“E’ precipitato. Perché aveva preso i miei sci… Il 1° maggio sono saliti al rifugio, il 1951 è stato un anno con tantissima neve… ce n’era ancora un sacco giù al lago. Allora ha preso i miei sci, non erano tanto pesanti e andavano bene per camminare. Nel punto dove c’è la via Rudl-Eller c’era una quantità eccezionale di neve. Hanno arrampicato, era tutto gelato e la situazione era sotto controllo. Poi sono tornati indietro. Nella gola occidentale, mentre traversa, guarda indietro, c’è una roccia sotto e siccome la neve cede lui fa un volo verticale di 7 metri nella gola e si rompe l’osso del collo”.

Rimaniamo in silenzio per un momento. Poi Lore prosegue: «A novembre è nato il bambino. Toni si è fatto vivo un anno dopo, più o meno”.
“Nel 1952?”.
“E’ arrivato senza avvisare, voleva sapere come stavo. Ha portato qualcosa anche per i bambini. Poi è tornato, tante volte. In quel periodo siamo anche andati in montagna, per esempio abbiamo realizzato la prima della parete nord del Seekofel…”.
“Il Seekofel nelle Dolomiti?”.
“No, a Valentin”.
“Dimmi, com’era sul piano umano?”.
“Tranquillo, parsimonioso, ma anche divertente. Si dava da fare, non si metteva mai in mostra, faceva tante cose. Era giunto qui come un altoatesino senza tanti grilli per la testa, e tale è sempre rimasto. A volte sono arrivata addirittura al punto di rimproverarlo, perché si mettesse un altro paio di pantaloni o magari si comprasse un abito. Non era mica povero”.
“Era uno che sapeva vivere?”.
“Sì, sapeva come comportarsi con le donne”.
“E alle donne piaceva?”.
“Sì, a Debant a un certo punto ha avuto una storia. Però si preoccupava molto per noi. Ero felice che si occupasse di noi. Non andavo ad arrampicare con chiunque, con lui però andavo sempre”.
“Ti ricordi di quando ha fatto il pilastro Bonatti?”.
“Pilastro Bonatti?”.
“Sì, nel massiccio del Bianco”.
“No, non ne so niente”.
“E la Direttissima della Cima Grande di Lavaredo?”.
“Quella sì”.
“Ne ha parlato?”.
“Non l’ha fatta insieme a Maestri?”.
“Maestri ha fatto la prima ripetizione, Toni la quarta…”.
“Come abbia conosciuto Maestri lo ricordo ancora. A quell’epoca, ero già vedova, lavoravo in un caffè di Lienz. Nella piazza principale. Un bel locale, elegante: venivano i commercianti di legname, le autorità locali, i negozianti. Le persone semplici non osavano nemmeno metterci piede. Un commerciante di legname consigliò Toni come guida a un ufficiale della Scuola di Aosta. Si chiamava Mantelli, o qualcosa del genere. Con lui Toni ha fatto qualcosa sul versante meridionale delle Tre Cime di Lavaredo, alla Cima Piccola. Toni parlava molto bene l’italiano”.
“Una prima?”.
“Forse lo spigolo Giallo”.
“Quindi un ufficiale della Scuola di Aosta è andato con Toni… come guida”.
“E in qualche modo ha conosciuto Maestri, il commerciante di legnami ha fatto da tramite”.
“È stato Egger ad avere l’idea di domandare a Maestri oppure è stato Maestri a invitare Egger?”.
“Maestri l’ha…”.
“Quindi è stato Maestri a chiedere a Toni?”.
“Sì, i due hanno proposto lui e Toni è stato molto felice di poter partecipare. Tutto qui”.
“E poi ha raccontato cose del tipo: vado sul Cerro Torre, la montagna più difficile della terra, con Cesare Maestri?”.
“Sì, però c’è dell’altro. A quel tempo Toni era già a capo della Hochgebirgsschule Tirol. Aveva delle responsabilità, teneva delle conferenze… Ha stipulato due assicurazioni. Me ne sono occupata io a Lienz, su incarico suo. Una volta ha parlato al telefono con Maestri, attraverso un collega della Alpenraute. Maestri è volato prima di lui a Buenos Aires e Toni l’ha puntualmente chiamato in aeroporto, a Roma o non so dove… Quando è tornato indietro era depresso, abbattuto. Allora gli ho domandato: ‘Ma cos’è successo? Non parti più?’ E lui: ‘Se devo dar retta a come parla – se vuoi venire, vieni – farei meglio a starmene a casa’“.
“Il biglietto di Toni, il biglietto per il Sudamerica, chi l’ha poi pagato?”.
“Lui stesso. Ha messo da parte i soldi. Se l’è pagato tutto da solo”.
“E Cesare?”.
“Quella telefonata, per quanto breve, non mi esce dalla testa. Toni si è seccato e ha detto che non sapeva più cosa fare”.
“Però poi è partito lo stesso?”.
“Toni parlava bene l’italiano e ha capito che c’era qualcosa di strano. Cosa vuol dire: se vuoi venire, vieni. ‘Sai Toni’, gli ho detto, ‘gli avranno raccontato quanto sei bravo. Il gestore del rifugio Auronzo gliel’avrà detto e anche tutti gli altri.’ In questo modo si è reso conto di quanto era bravo come arrampicatore, Toni Egger…”.
“No, Maestri ha capito fin dall’inizio, com’è… com’era bravo Toni… sul ghiaccio… sul granito”.
“Io però ho continuato ad avere il dubbio…”.
“Al contrario, io penso che Maestri sia andato a cercare Toni. Maestri era una star solo in Italia, sapeva delle ripetizioni realizzate da Egger, anche dello Jirishanca. Sapeva che Toni forse arrampicava addirittura meglio di lui”.
“Ma qualcuno gli deve aver ben detto che Toni arrampicava solo in stile alpino”.
“A quei tempi non sarebbe stato possibile salire il Cerro Torre in solitaria. Maestri avrebbe comunque avuto bisogno di un partner…”.
“Dopo la tragedia Maestri e l’ufficiale sono venuti da me, prima di andare dalla mamma di Toni. Quindi Toni gli aveva parlato di me, durante il viaggio. Altrimenti Maestri non sarebbe mica venuto. Addirittura sembrava che ritenesse che i miei figli fossero figli di Toni. ‘Siamo arrivati su’, mi ha spiegato. C’era un tempesta tremenda e un sacco di ghiaccio, così ho capito io”.
“Ma l’ufficiale non aveva niente a che fare con il Cerro Torre?”.
“No, avrebbe dovuto fare l’interprete, per questo motivo Maestri se l’era portato dietro a Lienz”.
“Dopo la disgrazia comunque Maestri è venuto da te?”.
“Sì, e ha detto che avevano raggiunto la vetta tutti e due, nel pomeriggio, alle tre. Ma che c’era una tale bufera che erano dovuti ridiscendere subito. Poi giù nella gola Maestri si è rifiutato di proseguire. Sarebbero dovuti scendere ancora un centinaio di metri, su terreno già attrezzato. Forse era troppo buio oppure Maestri ha avuto paura… non ricordo più con esattezza. A ogni modo Toni voleva scendere…”.
“Poi è successa la disgrazia…”.
“Maestri è rimasto su, in un primo momento non si è nemmeno reso conto che Toni avesse avuto l’incidente…”.
“Maestri dice che se ne è sì reso conto…”.
“Probabilmente dall’alto ha guardato giù”.
“In qualche modo ha cercato di fare sicurezza”.
“Allora l’ha fatta, sicurezza?”.
“Toni ha tentato di arrivare più in basso”.
“Mancavano solo 100 metri”.
“Ed è precipitato. Tutto concorda, è plausibile. È stata una disgrazia”, cerco di consolare la signora Stötter.

Lore mi fissa con sguardo interrogativo. Prima di rispondere emette un sospiro profondo. “A me resta la sensazione che Toni sia arrivato su. Che anche Maestri sia arrivato su?”.
“Se questa è l’ipotesi, allora su ci sono arrivati entrambi, non può essere andata diversamente, sul Cerro Torre”.
“Magari per pochissimo, del resto infuriava una bufera tremenda, anche per questo motivo si sono dovuti sbrigare a scendere”.
“Non c’è discussione, a quei tempi le cose erano estremamente complicate. Il solo avvicinamento, i primi 200 metri di roccia, al limite del possibile…”. “Certo, su in alto c’era molta più neve di oggi… e Toni era bravo sul ghiaccio, i chiodi da ghiaccio li aveva fatti con le sue mani. E poi era un boscaiolo, aveva un’energia che non era paragonabile a quella di questi alpinisti cittadini”.
“Certo, Toni era bravissimo”.
“Tranquillo e molto bravo. Ho arrampicato con tanti alpinisti, nessuno era bravo come lui”.
“Aveva anche realizzato la prima dello Jirishanca in Sudamerica, una montagna estremamente difficile…”.
“Lo Jirishanca! Sì, è stato ai miei tempi”.
“Dal Perù ha mandato una cartolina, una lettera?”.
“Sì, ha scritto, ma dove avrò mai messo quelle lettere?… Bisogna che le cerchi. Ma dal Cerro Torre non ho ricevuto niente, strano, solo dallo Jirishanca. Ancora una cosa: dopo lo Jirishanca lui sarebbe rimasto là… se non ci fosse stata la mamma, sarebbe rimasto nelle Ande. Noi due ci capivamo veramente bene. Già dopo la spedizione allo Jirishanca mi ha raccontato questo suo desiderio”.
“Gli era piaciuto così tanto il Perù?”.
“Era un uomo della natura, era stato anche pastore. Era tornato solo per via della mamma, così mi ha detto. In fondo io non gli ho mai dimostrato così apertamente la mia amicizia. Gli sarebbe piaciuto molto vivere là. Quelli del campo base volevano pure trovargli una compagna! Toni era innanzi tutto un alpinista, poi anche un montanaro. Comunque a Buenos Aires ha incontrato Maestri dai gemelli”.
“Da chi?”.
“Maestri era andato in Argentina un po’ prima, poi Toni l’ha raggiunto… Maestri era già stato l’anno prima al Cerro Torre… con i gemelli…”.
“Ma certo, con i due Detassis… Bruno e Catullo. Che però non hanno più niente a che fare con la seconda spedizione al Torre”.
“Durante la telefonata che da Lienz Toni ha fatto a Maestri, si sono accordati su dove incontrarsi a Buenos Aires”.
“Da dove è partito Toni?”.
“Non sono partiti con l’aereo… la posta e gli aerei erano in sciopero, l’ho visto anch’io. Sono saliti su un camion e partiti. Fino quasi alla base del Cerro Torre. Ho visto delle foto dalla signora Egger, la madre”.
“Sì, certo, in Argentina. Ma a Buenos Aires Toni come c’è arrivato?”.
“Non lo so”.
«Da Buenos Aires comunque hanno proseguito poi sul camion”.
“Dopo ho visto due foto che mi hanno trasmesso una strana sensazione”. Lore si porta una mano al petto. “In una Toni è seduto di lato, con un’espressione sul viso che non gli avevo mai visto”.
“Forse perché era molto lontano… magari un po’ di nostalgia?”.
“E poi quella telefonata, tutto l’insieme non mi è piaciuto. E poi quello spaccone, quel Fava”.
“Avevi la sensazione che mancasse un po’ di entusiasmo…”.
“Sì, l’atteggiamento… Comunque mi resta la consolazione che abbiano raggiunto la vetta… Forse è solo che Maestri non voleva che Toni arrivasse su per primo”.
“No, non lo credo. Non ha nessuna importanza se sia stato Toni o Cesare a raggiungere per primo la vetta. Formavano una cordata. Nessuno dei due avrebbe potuto essere lassù da solo, è una cosa impossibile, quella parete è troppo difficile, fin dall’inizio: chissà fino a che punto sono arrivati?”.
“Sullo Jirishanca, nelle Ande, era andato con un alpinista della Carinzia. Anche lì c’erano stati problemi. Sulla cupola sommitale avevano trovato così tanto ghiaccio che avevano dovuto trapanare la cornice. Toni era un tipo pratico, un alpinista e un uomo della natura al cento per cento”.
“Giusto, molti alpinisti originari delle città sanno arrampicare bene, e basta”.
“Toni mi ha raccontato come si era svolta quella salita nelle Ande, conclusasi con il successo finale. Hanno fatto la traversata. Sono scesi dal versante orientale”.
“Questa è una cosa che non so. Ne ha scritto Toni?”.
“Se sì, l’unica che può saperne è la sorella, Stefi, c’è ancora solo lei viva, potrebbe avere della documentazione… Faceva la cameriera, andava d’accordo con Toni. Si capivano bene quei due…”.
“La sorella più giovane?”.
“Sì”.
“Aveva anche un fratello, Toni?”.
“Sì, un fratello maggiore, che dopo l’incidente – Toni aveva stipulato due assicurazioni – ha avviato un’attività di trasportatore”.
“Anche nel caso dello Jirishanca Toni aveva fatto un’assicurazione?”.
“Non lo so. Per la spedizione al Cerro Torre le assicurazioni erano due. Questo glielo posso confermare”.
“A favore di chi?”.
“Non ne ho idea. Però la sorella si è costruita una casa”.
“Con i soldi dell’assicurazione?”.
“Non ne ho idea, non lo so. Si è costruita una casa a Debant e Hans si è ristrutturato la sua. Erano persone perbene. Anche Toni era un risparmiatore, nessuno sapeva che avesse del denaro da parte”.
“Gli sarà servito. Per le spedizioni”.
“Certo. La spedizione in Turchia, in Perù, al Cerro Torre…”.
“Dove altro è stato?”.
“Il primo viaggio nella Turchia Orientale… non mi ricordo dove e con chi… gli ho sistemato le diapositive per una conferenza… mi aveva fatto dei racconti pieni di entusiasmo”.
“Ne teneva tante di conferenze?”.
“Sì, la prima a Vandoies, la seconda a Bolzano. Sono andata anch’io con lui in Alto Adige. Ha parlato spesso anche a Lienz”.
“E conferenze sullo Jirishanca?”.
“Non saprei, non ricordo più”.
“E come guida alpina ha guadagnato parecchio”.
“Neanche tanto”.
“Preferiva andare in montagna per i fatti suoi?”.
“Non si è mai dato arie, gli piaceva arrampicare, da solo, con un compagno oppure con un cliente. Era una persona gradevole, non era uno stupido e parlava bene l’italiano”.
“Era un tipo cordiale, gentile, uno che prestava attenzione agli altri?”.
“Io sono molto felice di averlo conosciuto. Con me è sempre stato molto carino. Mah, quei tipi sul camion in Patagonia, non mi sembravano adatti a lui”.
Toni Egger, che aveva realizzato in solitaria la via Solleder sulla parete nord-ovest del Civetta – in quattro ore e mezza! – aveva ripetuto il pilastro Bonatti al Petit Dru e salito per primo lo Jirishanca; era certamente l’uomo giusto per la conquista del Cerro Torre. Fra il 26 e il 28 settembre 1958 lui ed Erich Abram portano a termine la quinta salita della Direttissima della Cima Grande di Lavaredo. Si tratta dell’ultima salita dell’anno. Il freddo crea ai due non pochi problemi, le giornate sono corte. Prima di passare al Cerro Torre, Egger ripete la Direttissima della Roda di Vael, aperta nel 1958 da Brandler e Hasse e dedicata a Hermann Buhl, che un anno prima era scomparso sul Chogolisa in Karakorum. Toni Egger sta per seguire le sue orme, oltre il limite di ciò che fino a quel momento era ritenuto possibile.

Capitolo 10. Incongruenze. Le contraddizioni nei resoconti
Il tratto inferiore della parete (in basso, a sinistra) e la parete sommitale (in alto, a sinistra) del Cerro Torre. Sopra: parete nord (dettaglio)
«Nel 1959 il grande Lionel Terray sentenziò: ‘La scalata del Cerro Torre è la più grande sfida alpinistica di tutti i tempi’. Quando nel 1966 gli raccontai del nostro progetto di una spedizione al Cerro Torre, strizzando gli occhi integrò il suo verdetto con queste parole: Sempre che lo abbia scalato (Martin Boysen)”.
«Quando, appena quattordicenne, lessi Il Ragno delle Dolomiti di Cesare Maestri, questo Cesare Maestri divenne immediatamente uno dei miei idoli giovanili. Insieme a Toni Egger aveva salito una delle montagne più belle del mondo, il suo compagno era morto durante la discesa… (Andreas Kubin)». Sulla parete nord-ovest del Cerro Torre
“Con la sua descrizione dettagliata della ‘salita alla vetta’ Maestri fornisce la documentazione necessaria alla verifica del suo agire: le caratteristiche della montagna e il tempo impiegato, le condizioni atmosferiche e l’azione, le difficoltà e il materiale lasciato sono fra loro in contraddizione (Reinhold Messner)”.
Quindi Maestri è tornato dalla montagna con Fava, ed Egger è morto. Una dimostrazione della cosiddetta “conquista” in effetti non c’era stata, ma in un primo momento la parola di Maestri non viene comunque messa in dubbio. Soprattutto non viene discusso il resoconto della tragedia: dove, come e quando Toni Egger è precipitato può saperlo solo Maestri. Potrebbe lo choc avergli annebbiato la memoria? No, Fava, che alla base della montagna ha riportato Maestri alla vita, lo sa bene. Ha recuperato e assistito Maestri, mezzo morto e del tutto sconvolto, e lo ha curato. È lui che fino alla fine ha sostenuto il progetto e l’azione di Maestri.
Dei fatti precisi accaduti sul Cerro Torre nei sette giorni fra il 28 gennaio e il 3 febbraio si occuperanno nel 1968 alcuni alpinisti. Nonostante tutta la loro esperienza e la loro abilità sono destinati a fallire. Hanno tentato, senza successo, di affrontare la cresta sud-est e questo li rende decisamente scettici. Dougal Haston, Martin Boysen e l’argentino José-Luis Fonrouge costituiscono il team che sembra interessato alla vicenda di Cesare Maestri tanto quanto alla montagna stessa. Gli inglesi rilevano alcune contraddizioni nei resoconti di Maestri, così come nel racconto di Fava della discesa dal Colle della Conquista. Appare evidente che le due versioni non collimano. Riguardo al Torre ci sono tanti ricordi quanti sono i narratori. Fin dall’inizio Cesarino Fava aveva creduto che nulla sarebbe potuto accadere perché godevano della protezione della montagna stessa. Vedeva il Torre come un amico, non come un nemico, così diceva. Ciò che metteva sopra ogni cosa non era il suo “rispetto” per la montagna, bensì il suo “amore”. Come se questa spedizione fosse un’esperienza religiosa e spirituale. Questo atteggiamento mostra in realtà uno stridente contrasto con l’impostazione di Maestri, che voleva conquistare il Cerro Torre per trionfare sui suoi oppositori. Tuttavia, la storia della scalata doveva comunque suonare come un’esperienza comune. A loro per primi. Il resoconto di Fava non si fonda su un complesso; fin dall’inizio, anzi, doveva essere espressione di un’avventura assolutamente unica e dimostrazione che per il suo beniamino Maestri l’impossibile non esiste. Fava: “Toni è scomparso dopo aver scalato in perfetto stile alpino la montagna più difficile del mondo”. Chi dovrebbe o potrebbe negarlo? Maestri invece descrive la parete nord come coperta di neve: pericolosa, ma facile.

La prima domanda che i pragmatici alpinisti inglesi si pongono è dove sulla parete est e nord dovrebbe svilupparsi esattamente la via descritta da Maestri, che i due sostengono di aver salito in puro stile alpino e che dipingono come relativamente facile. Troppo verticale, troppo liscio il terreno, il ghiaccio troppo difficile per il livello tecnico di quei tempi. Soprattutto per un arrampicatore dolomitico. Anche se si tratta del migliore.
Nel frattempo anch’io avevo accumulato un’esperienza sufficiente come arrampicatore estremo, tanto da pormi qualche domanda. Avevo ripetuto da solo alcune vie che Cesare Maestri aveva affrontato in solitaria – ad esempio la Micheluzzi sul Piz de Ciavazes, e affrontato in solitaria pareti di ghiaccio molto impegnative. Ma ero ben lungi dal criticare l’esperienza di Maestri sul Cerro Torre. Al contrario, il mio rispetto per Egger e Maestri era talmente profondo che non riuscivo nemmeno a pensare a un mio viaggio in Patagonia. Le mie sfide a quei tempi erano le vie più difficili delle Alpi, le invernali, le solitarie. E poi sognavo prime in arrampicata libera, nelle quali impiegare solo chiodi normali e comunque solo per la protezione. Ero anche un romantico e non avrei mai osato mettere in discussione ideali che negli ambienti alpini più esclusivi venivano innalzati come scudi di difesa verso il mondo esterno. L’alpinismo non poteva portarsi dietro alcun dubbio. Dentro di me quindi ammiravo l’atteggiamento di Cesare Maestri. Sosteneva la sua passione, la sua ambizione, la sua professione. Per lui arrampicare significava il pane quotidiano e allo stesso tempo un’arte. Era guida alpina, ma la sua aspirazione era quella di partecipare a spedizioni. A quei tempi, fra Terra del Fuoco e Aconcagua, in Alaska, in Antartide, in Karakorum, in Himalaya le sfide da cogliere erano più che sufficienti. Quelli che si proponevano di arrivare ai confini della Terra, nell’ambito di spedizioni nazionali, dovevano essere pronti a sottomettersi non solo a un capo spedizione spesso autoritario, ma anche a un insieme di valori imposto, che non prevedeva alcuna espressione individuale. Walter Bonatti che aveva salvato la «vittoria» sul K2 sacrificando se stesso, sarebbe stato messo alla gogna per decenni a causa del suo agire. E questo perché a posteriori i “conquistatori della vetta» e il capo spedizione non furono disposti a condividere con lui la gloria.
Cesarino Fava, invece, accettava senza metterli in dubbio molti dei discutibili ideali degli anni Cinquanta. Sicuramente avrà incontrato qualche difficoltà a stare dietro all’anarchico Maestri, che non intendeva piegarsi a divieti né di tipo morale né di altra natura. Eppure è perfino riuscito ad attribuire al conterraneo trentino affermazioni che stanno in netto contrasto con l’atteggiamento di vita di quest’ultimo. Il resoconto di Maestri sui fatti del Cerro Torre del 1959 è contradditorio, patetico e in alcune parti non verificabile, tuttavia le sue emozioni e le sue motivazioni ne emergono in maniera così decisamente «naif» che avrei voglia di abbracciarlo per la sua sincerità. Al contrario di Cesarino Fava, che rimane impigliato negli schemi di pensiero piccolo-borghesi, Maestri era e resta una persona indipendente, e si crea da solo le sue regole. In effetti Cesare e Cesarino costituivano un team particolare, e le circostanze verificatesi in Patagonia con la tragedia finale finirono per legarli in modo indissolubile, anche se dal di fuori la loro sembra una poco trasparente comunione d’intenti che non porta a un atteggiamento unitario. Uno dei due, Maestri, era legato all’aiuto di Fava per poter arrivare alla sua montagna, al Cerro Torre, alla sua occasione di vittoria; l’altro, Fava, avrebbe potuto rientrare da vincitore nel suo mondo di Buenos Aires solo vantando il successo di Maestri. Avevano quindi entrambi qualcosa da guadagnare e qualcosa da dimostrare. Il Cerro Torre fu quindi per entrambi un’iniziazione, una chiamata alla missione sacerdotale sulla montagna. La tolleranza reciproca, al di là del mistero che li legava, poteva evidentemente essere raggiunta solo con una “conquista della vetta”.

Capitolo 13. Prove confutate. Sogni infranti
“La gloria è una trappola tesa dai media, nella quale gli alpinisti frequentemente cadono per esserne poi depredati (Marko Prezelj)”.
“Chi è scettico ha solo da guadagnare e niente da perdere. Chi mente rischia (Michael Bearzi)”.
“E impossibile valutare in maniera obiettiva una prestazione alpinistica. Ogni scalata è fatta di storie non raccontate, influenzate da aspettative e illusioni (Marko Prezelj)”.

“I migliori alpinisti hanno sempre reciprocamente ammirato, indagato, e nel caso di incertezza riconsiderato le imprese dei precursori. Solo le salite irrilevanti passano senza incontrare alcun ostacolo (Reinhold Messner)”.
Fino al 1970 non mi ero espresso sulla questione del Cerro Torre. Non conoscevo la Patagonia, e non c’era motivo di dubitare che Egger e Maestri avessero raggiunto la vetta. Nel 1970 poi, non c’era niente da discutere, Maestri ce l’aveva fatta comunque. Mi aveva colpito il modo in cui a Padova aveva spiegato spontaneamente, in risposta alla mia domanda, di essersi fermato sotto il fungo sommitale. Non per una forma di rispetto per le divinità, come è successo ad alcuni alpinisti sotto le vette sacre dell’Himalaya, bensì perché non era attrezzato per il ghiaccio e c’era poco tempo. Maestri ha sempre cercato di evitare i passaggi sul ghiaccio, il suo elemento è sempre stata la roccia.
Quello che in seguito mi ha incuriosito sono i presupposti della spedizione che emergono nel libro 2000 metri della nostra vita. Il libro, scritto in collaborazione con la moglie Fernanda, che durante l’impresa era rimasta a valle, è un tentativo disperato di dimostrare qualcosa che la spedizione del 1970 non poteva affatto dimostrare.
In 2000 metri della nostra vita, che ha vinto vari premi ed è assai avvincente, Cesare e Fernanda Maestri non descrivono solo il loro rapporto – lui lassù, lei giù ad aspettarlo -, bensì soprattutto gli anni dell’infamia sopportati insieme. E la dimostrazione? Per quanto si sforzino, non riescono a fornirla. Benché io difenda Maestri con convinzione – come uomo, come arrampicatore, come anarchico -, tuttavia la prova che nel 1970 inalbera come un vessillo resta per me e per molti altri alpinisti solo una farsa. Perché non aspetta, mi domando, che i critici portino giù dalla parete nord i suoi chiodi a espansione del 1959? Cosa che fra l’altro dimostrerebbe anche fino a che punto sono arrivati sul Torre! Perché questo impegno esagerato con il compressore, questa isteria, questa assurda ricerca di prove? In questo modo Maestri non fa che alimentare i dubbi. La sua descrizione della salita del 1970 trasmette la sensazione che sia lui stesso il primo a non credere alla storia del 1959. A quel punto è lui che deve dimostrare di essere stato su, non più quanti riescono a salire. Perché tutte le sue rabbie e i suoi dubbi si rivolgono contro lui stesso. Maestri: “Ma se la testimonianza di tutte le imprese alpinistiche dovessero essere le foto scattate in vetta, quante centinaia di imprese dovremmo depennare dall’albo delle vittorie! Vittorie famose come il Fitz Roy, il Nanga Parbat non hanno avuto adeguate prove fotografiche”, osserva Maestri in un’intervista che viene pubblicata dalla rivista inglese Mountain Magazine nel 1972. Riguardo alla prima sul Fitz Roy non c’è mai stato il minimo dubbio, e Felix Kuen, che nel giugno del 1970 ha raggiunto la vetta del Nanga Parbat un giorno dopo me e mio fratello Günther, sulla vetta trovò non solo le nostre tracce, ma anche i miei guanti. Inoltre io e Günther non avremmo mai potuto affrontare in discesa la parete opposta a quella di salita se non fossimo arrivati almeno alla vetta meridionale della montagna. Ma Maestri è convinto di poter cancellare i dubbi che esistono riguardo alla sua salita, mettendo in discussione le scalate di altri? Oppure intende solo sfuggire a domande che lui stesso suscita? Non c’è dubbio che la salita del 1970 sia stata una grande impresa alpinistica. Soprattutto per il fatto che Maestri, che aveva già passato i quarant’anni, non poteva più essere all’apice della forma. Maestri: “Cosa si attende precisamente l’ambiente alpinistico da me? Che diventi sempre più bravo? Che la curva della mia abilità sia in continuo incremento? Avevo quarantadue anni quando ho scalato il Cerro Torre per la seconda volta, e in quell’occasione avevo fatto settanta giorni di arrampicata in preparazione. Non è forse sufficiente?» Per questo quindi il compressore? “No, io, Cesare Maestri, sono sempre stato anche ai vertici dello sviluppo tecnico e utilizzerò sempre qualunque novità e possibilità tecnica per superare un tratto di roccia. Se posso affrontare il problema in libera, arrampicherò in libera, se ci vogliono i chiodi chioderò. Se una parete è completamente liscia, metterò i chiodi a espansione. Un giorno o l’altro ci saranno colle che tengono alla parete, e io le userò”. Naturalmente Maestri ha il diritto di arrampicare come crede. Lo ripeto, nell’alpinismo non esiste un’etica dell’arrampicata valida per tutti, ci sono solo regole individuali, fatte in casa, che nessun altro è costretto a rispettare. Anche per quanto riguarda l’etica, ognuno fa riferimento alla propria.

Quando Maestri si rende conto che la sua via del compressore ha avuto l’effetto di una smentita, modifica la sua tattica. Maestri: “Ho affrontato il Cerro Torre benché sapessi che questo avrebbe dato il ‘la’ alle chiacchiere. Lo sapevo già prima di ricorrere all’aiuto del compressore. Il mio obiettivo era semplice: volevo inventarmi qualcosa di nuovo, dare un nuovo impulso all’arrampicata”. Le regole fatte in casa, alle quali obbedisce Maestri, sono semplici: “Se io sulla Preuss al Campanile Basso, nel Gruppo di Brenta, dovessi trovarmi nella situazione di voler utilizzare anche solo un chiodo per la sicurezza, smetterei immediatamente di arrampicare. Le mie regole personali mi permettono di utilizzare chiodi a espansione sul Cerro Torre, non importa quanti, ma non chiodi sulla Preuss». D’accordo, questa è l’etica di Maestri che non intendo discutere, così come non gli rinfaccerò mai la morte di Toni Egger. Come fa però lui a rinfacciare ad altri le loro tragedie? Maestri: «Non riesco a spiegarmi tutti i morti di Messner e Bonatti, dei quali si devono sentire responsabili. Nessuno ha il diritto di rovinare gli amici come fanno loro e io vorrei solamente che queste correlazioni fossero capite». Quali correlazioni? La morte di Egger sul Cerro Torre non ha nulla a che vedere con la morte di mio fratello sul Nanga Parbat oppure con la morte di Andrea Oggioni al Pilone del Frêney, nel gruppo del Bianco, nel 1961. Tutte le tragedie avvenute in situazioni estreme – provocate da cadute, slavine, fulmini o sfinimento – sono il rovescio della medaglia di una passione che non si può spiegare razionalmente. Nessuno però ha mai tagliato la corda al partner, se non in una situazione di emergenza estrema e ben consapevole che per l’altro non c’era più niente da fare. I nostri amici infatti non solo ci aiutano a raggiungere la vetta, ci aiutano soprattutto a tornare indietro alla nostra vita. O Maestri non sa quello che dice quando parla in questo modo, oppure tenta di nascondere la sua tragedia dietro altre tragedie. Nello stesso modo in cui vorrebbe vedere confermata la sua salita alla vetta, mettendo in dubbio salite di altri.
A me piace il lato anarchico di Cesare Maestri e per tutta una vita ho mantenuto la mia ammirazione per l’arrampicatore dolomitico, di quindici anni più anziano di me. La sua storia del Cerro Torre però comincia a diventare fragile con le dichiarazioni rilasciate dopo il 1971. Se nel 1959 ha raggiunto il suo obiettivo, mi dico, perché raccontare tante assurdità? Assurdità che col passare del tempo si sono trasformate in una montagna di contraddizioni, in una sorta di «eroismo» che i profani ammirano e del quale gli esperti sorridono. Maestri, che grazie alle sue doti teatrali è sempre e comunque in grado di conquistarsi il palcoscenico, si piazza davanti ai riflettori fingendo ritrosia: come se non fosse lui il regista che sfrutta la sua fama per brillare in pubblico. È questa la sua tragedia.
Alla fine è proprio Fava, che nel frattempo si è rivelato il «miglior nemico» di Maestri, che mi aiuta a comprendere la loro vicenda comune. Non perché conosca il tallone d’Achille di Maestri, solo perché parla troppo. Conduce una campagna contro tutti gli «pseudo-alpinisti», che osano mettere in dubbio le imprese eroiche, sue e di Cesare. Si esprime contro la morale degli “pseudo-alpinisti” senza però notare che lui stesso si rivela come tale.

Fava: “Per fortuna non apparteniamo a quel genere di campioni che sono interessati solo a suscitare attenzione, perché essere famosi significa essere ricchi. Per il denaro questi campioni imbrogliano anche i loro lettori, inventandosi la cosiddetta ‘zona della morte’“. La zona della morte è una realtà legata alla pressione atmosferica, così come la pendenza del Cerro Torre è legata al corrugamento della crosta terrestre. In effetti in seguito Cesarino Fava ammette che una parete “può sì modificare il suo colore, ma non la sua inclinazione”, tuttavia continua a sostenere, ancora poco tempo prima di morire, che la parete nord del Torre avrebbe un’inclinazione di soli quarantacinque, cinquanta gradi.
La gloria di aver “combattuto” al fianco di Maestri in Patagonia in realtà non gli ha procurato ricchezza, ma almeno una serie di attenzioni; inoltre ha rafforzato la sua hybris di appartenere alla cerchia ristretta degli iniziati, degli “estremi”. Per le lettere ai giornali che continua a scrivere anche da anziano, non viene ripagato in denaro bensì in consenso, che i redattori volentieri elargiscono quando si tratta di attizzare una controversia. Quando scompare nel 2008 a Male, in val di Sole, viene compianto da tanti, ma tra i tanti sono pochi gli alpinisti della scena internazionale.
La «montagna più difficile della Terra» già da tempo non appartiene più al solo Maestri, bensì ai migliori alpinisti provenienti da tutti i paesi del mondo. Nella loro presunzione di essere superiori alla giovane generazione dal punto di vista morale e tecnico, Fava e Maestri si sono troppo a lungo tenuti distanti da qualunque novità, e questo non ha loro consentito di rendersi conto di ciò che Elio Orlandi, i fratelli Huber oppure Ermanno Salvaterra nel frattempo hanno realizzato in Patagonia. Maestri e Fava con il loro mistero restano comunque argomento di discussione: nella località turistica di El Chaltén, ai campi base, nelle caverne scavate nel ghiaccio e nei bivacchi sulla montagna.

Capitolo 15. Torre Egger. La ricerca delle tracce
“Ero dell’opinione che bisognasse credere alla parola di un alpinista, soprattutto di uno con la reputazione di Maestri. Dopo essere salito fino al Colle della Conquista modificai il mio pensiero (]im Donini)”.
“Invece ero lì. Su una montagna che odiavo, che maledicevo mille volte al giorno, come maledicevo il giorno che l’avevo vista per la prima volta e tutti quelli che mi avevano spinto a ritornarci (Cesare Maestri)”.
“Nessuno dei presuntuosi che hanno messo in dubbio che Toni Egger e Cesare Maestri siano arrivati in vetta – semplicemente perché sono incapaci di accettare che qualcuno sia riuscito là dove loro hanno fallito – merita una tomba di imperituro splendore come quella che il destino ha riservato al fortissimo e umile Toni Egger (Cesarino Fava)”.

“L’attrezzatura che Toni Egger aveva con sé, soprattutto la piccozza, non sarebbe mai stata sufficiente, in nessun caso, per superare le formazioni di ghiaccio sulla cresta che conduce alla vetta del Torre (Reinhold Messner)”.
Durante il viaggio di ritorno i Ragni ricevono la notizia di un ritrovamento che occuperà la scena alpinistica ancora per decenni. Durante la discesa lungo il ghiacciaio, Mick Coffey – che insieme a Jim Donini, Ben Campbell-Kelly e Brian Wyvill ha affrontato il Certo Stanhardt, una vetta minore alla destra del Cerro Torre – ha trovato i resti di un corpo. In un primo momento individua uno scarpone che spunta dalla neve. Dopo aver scavato un po’ emergono prima un piede, poi un femore e delle cestole: resti di uno scheletro. Le ricerche continuano e vengono alla luce piccozza, pezzi di corda e un martello. Non ci sono dubbi – i resti si trovano proprio al di sotto della parete orientale del Cerro Torre -: hanno individuato la tomba di ghiaccio di Toni Egger. Gli alpinisti non rinvengono alcun apparecchio fotografico. Comunque il ritrovamento in questo luogo costituisce la prova della descrizione che Maestri ha fatto dell’incidente occorso a Toni Egger.
Non mi sono mai abbandonato alle speculazioni che invece si sono sprecate dopo il ritrovamento del corpo. Non lo farò nemmeno in questa occasione. Il tentativo di scalata al Cerro Torre nel 1959 è una cosa, la morte di Toni Egger un’altra. Al momento dell’incidente era presente solo Maestri e solo lui può sapere cosa è accaduto veramente. Anche se la sua memoria può essere stata alterata dallo choc subito nel momento in cui il compagno è precipitato e dal caos che si è generato in seguito durante la sua discesa.
L’ultimo attacco alle pareti granitiche del Cerro Torre è stato condotto da tre uomini: Egger, Maestri e Fava. Ciò nonostante è la montagna che ha recitato il ruolo principale. Per il momento non mi occupo di dove e quando Fava ha abbandonato l’impresa. La lotta per la sopravvivenza è iniziata più tardi. La tragedia è venuta dopo. Alla fine sono rimasti il Torre e Maestri. E solo uno dei due è rimasto estraneo, immutato: il Cerro Torre. È probabile che per tutta la sua vita Cesare Maestri non sia mai riuscito a liberarsi dalla tragedia di morte e rinascita ai piedi della montagna. Benché non abbia alcuna responsabilità per la caduta del compagno, il quale di sua iniziativa aveva insistito, convinto, evidentemente, che la “montagna impossibile” fosse invece possibile. Il Cerro Torre quindi si è trasformato nella tomba di Egger. Prima era stato l’idea di Fava e poi è diventato il Santo Graal per Maestri. Ripeto: l’impossibilità della scalata – nel 1959 non c’erano attrezzature ed esperienza sufficienti – non ha nulla a che vedere con la morte di Toni Egger. Ma questo Cerro Torre, le cui pareti di granito oggi come allora si stagliano verso il cielo, è diventato il simbolo del coraggio di Egger e allo stesso tempo la dimostrazione del fallimento di Maestri. Il quale ora, da solo, porta sulle spalle l’amaro fardello del sopravvissuto, e questo costituisce parte della sua tragedia. Le molte incongruenze nei racconti di Fava e Maestri, delle quali ormai si sono occupati alpinisti di tutto il mondo, non sono solo chiacchiere.

In mezzo alle frammentarie descrizioni di quei giorni sul Cerro Torre fatte da Fava e Maestri ci sono molti spazi vuoti e, riguardo alla montagna stessa, ci sono ampi tratti che né Fava né Maestri descrivono così come sono nella realtà. Questi spazi consentono a noi lettori di immaginare quello che vogliamo. Possiamo andare a verificare di persona; controllare i punti in cui Maestri e Fava si contraddicono; possiamo schierarci a favore dell’uno o dell’altro oppure di terzi. In ogni caso siamo in grado di capire ciò che Maestri ha voluto, sofferto e sopportato solo in quanto coinvolti emotivamente nella ricerca delle tracce.
Non intendo in alcun modo avallare un’interpretazione piuttosto che un’altra; cerco solo di mettermi nei panni di Maestri, mi domando come si sia sviluppata la tragedia dopo il volo di Egger. Chi come Cesare Maestri arriva più morto che vivo ai piedi di una montagna – mentre il compagno è perso – non è altro che un sopravvissuto. Tutto quello che viene prima e che segue è rimosso. Quello che lui stesso non sa, lo accetta dalle parole dei suoi salvatori. Io a questo punto lascio liberi i miei lettori: devono essere loro a trovare il bandolo della matassa in un guazzabuglio di avvenimenti complicati e di resoconti contradditori. Non si tratta di giudicare, si tratta di trovare risposte a domande che hanno per tema la vita e la morte. Perché l’alpinismo estremo non è difendibile, sono troppi quelli che sono morti nel praticarlo. E una civiltà che ha perso ogni senso di partecipazione, perché ha tutt’altre preoccupazioni che sopravvivere in montagna, non può che deridere simili «sciocchezze». Chi ha perso ogni compassione e chi obbedisce a normali regole di comportamento non trova giustificazioni alle nostre azioni e pensa di trovarsi di fronte a dei folli. Nemmeno io ho argomenti da opporre ai razionalisti. Dobbiamo immaginarci Maestri, che ha fortemente voluto l’impresa, che esce dalla sua fossa, da un cratere di ghiaccio, nel quale alla fine è precipitato. Dobbiamo immaginarlo che continua a cadere, perché la tempesta e la stanchezza l’hanno sfinito. Chi non è in grado di immaginare la disperazione di Maestri, il suo vuoto interiore, il suo dolore, perché sono stati d’animo non facili da condividere, non potrà mai capire questa storia fino in fondo. Uomini che non hanno mai provato cosa significhi la pura sopravvivenza si muovono in altri mondi. Il mio intento è di capire questa vicenda, non di difendere l’alpinismo estremo oppure di contrapporre un alpinista all’altro. Questo alpinista è peggiore di quell’altro; lo odio, quindi tutti lo devono escludere. Questo è un modo di procedere fascista, non è il mio.

La storia dell’alpinismo è la somma di tutte le storie vissute in montagna. Non funziona nel modo che immaginano i pantofolai, i moralisti di ogni tipo o anche gli idealisti. La storia accade ed è costituita da molti passi spesso non determinabili, da piccole decisioni. Con uno schema di pensiero basato sul bianco-nero non si risolve nemmeno la storia dell’alpinismo.
Un team. Un piccolo gruppo di persone, da qualche parte in capo al mondo, in competizione con un altro team, si trova in una situazione meteorologica avversa. All’improvviso, nell’emergenza, tutti reagiscono d’impulso. Perché nell’alpinismo classico conta innanzi tutto la sopravvivenza. Che si raggiunge in genere tutti insieme. Il successo, la vetta, vengono dopo e solo chi è psicologicamente disturbato li pone davanti a tutto. In una situazione di pericolo accadono molte cose, a cui ci conduce la nostra stessa passione e nessuno, nemmeno chi è direttamente coinvolto, dovrebbe permettersi di esternare giudizi sugli altri. Se di notte io sono nel mio letto e sento la tempesta che ulula intorno alla fossa di Maestri, penso a un bambino perduto. Una notte ancora e Maestri sarebbe morto, come muore un bambino esposto alle intemperie. È così difficile trovare dei riferimenti nel dolore? Se non lo facciamo, non comprenderemo mai il passato e un mondo privo di emozioni non è d’aiuto per costruire il futuro.

Un anno dopo la prima salita del Cerro Torre mi trovo in Himalaya, al Lhotse, con Mariolino Conti, uno del gruppo dei primi. Già l’avvicinamento mi fa capire che Mariolino ha una resistenza straordinaria. E mi racconta della sua spedizione con Casimiro Ferrari. Provo quasi un po’ d’invidia, ma non per la loro impresa. Per tutto il suo entusiasmo. Per la dedizione che ha nei confronti del capo spedizione: Casimiro Ferrari è il suo eroe.
Anche sul Lhotse abbiamo come leader una personalità straordinaria: Riccardo Cassin, uno dei migliori alpinisti degli ultimi quarant’anni. Nessuno di noi osa dubitare della sua bravura. Nutriamo per lui lo stesso rispetto che Mariolino tributa al capo della spedizione al Cerro Torre del 1973-1974, e questo mi piace.
In seguito ho avuto modo di conoscere Ferrari di persona, questo piccolo italiano tenace con le mani callose e deformate, le mani di un boscaiolo. Aveva una resistenza leggendaria, alla quale si aggiungeva quella sorta di caparbietà che caratterizza tutti i grandi alpinisti. Abbiamo parlato della Patagonia e in quell’occasione ho capito che arrampicare sul Fitz Roy o sul Cerro Torre è ben diverso dall’affrontare le grandi pareti degli ottomila himalayani: più difficile, più imprevedibile, il tempo molto più brutto. Manca solo l’aria sottile. Peraltro lo Hielo Continental è costantemente frustato da venti impetuosi. Come nessun altro luogo al mondo! Capii che le grandi mete si sarebbero spostate dall’Himalaya alla Patagonia, e provai ammirazione per Miro, l’eroe del Cerro Torre che continuava a pungolarmi perché andassi almeno una volta fino là. Rispondevo dicendo che magari più avanti ci avrei pensato. Da anni mi ero concentrato sugli ottomila e osservavo gli avvenimenti della Patagonia da una certa distanza.
Nel 1976 Jim Donini, John Bragg e Jay Wilson arrivano fino al Colle della Conquista. Sono diretti alla vetta della Torre Egger, la montagna che sta di fianco al Cerro Torre. I tre non trovano alcuna traccia: nessun chiodo, nessuna fettuccia per le calate. Eppure Cesarino Fava sostiene che nel 1959 si è calato da solo dalla sella fino al nevaio. Come ha fatto, si domanda Donini, se non è rimasto alcun ancoraggio? È sempre Jim Donini che mi racconta delle grandi difficoltà di arrampicata al di sopra del nevaio – “come a Yosemite” – e riconosce che Maestri, Egger e Fava non possono essere arrivati fino al Colle della Conquista. È inequivocabile. Che motivo può avere, mi domando, il robusto Donini, di mettere in dubbio la prima di Maestri? I due non sono rivali, non hanno nemmeno la stessa età, hanno affrontato sfide diverse: Donini, Bragg e Wilson hanno realizzato la prima della Torre Egger, Maestri reclama per sé la prima del Cerro Torre.

Nel 1978 la cordata Jim Bridwell-Steve Brewer realizza la prima ripetizione della via del Compressore sulla cresta sud-est del Cerro Torre, in soli tre giorni. Bridwell conferma che la serie di chiodi a espansione si interrompe poco al di sotto della vetta. Lo stesso Jim Bridwell, all’epoca uno dei migliori arrampicatori al mondo e un vero anarchico come Maestri, rende onore all’impegno dimostrato da Maestri sul Torre. Nonostante tutto! In quello stesso 1978 Leo Dickinson, il geniale regista – siamo insieme sulla montagna più alta della Terra e il nostro motto è: Everest senza maschera -, mi racconta le sue esperienze sul Cerro Torre. Leo non è solo un cameraman coraggioso, è un lavoratore molto puntiglioso quando si tratta di fatti e di retroscena. Per questo motivo è andato a trovare Fava, dal quale ha ottenuto solo risposte vaghe per quanto concerne la sua discesa dal Colle della Conquista. Leo Dickinson condivide la mia convinzione che la salita del 1970 non avvalora affatto la «prima» del 1959. Ancora oggi perciò mi domando perché entrambi, sia Fava sia Maestri, combattano proprio questa mia affermazione incontestabile. La seconda salita non può assolutamente essere considerata una prova della prima. Per questa faccenda mi hanno addirittura accusato di diffamazione.
Quando altri due tentativi sulla parete est non vanno a buon fine – 1978 e 1981 -, la mia convinzione si radica sempre più: nel 1959 il Torre era impossibile! Toni Proctor e Phil Burke non hanno trovato alcuna traccia di Egger e Maestri né al di sopra del tratto di corda fissa di Maestri, che termina 300 metri sotto l’attacco, né sulla parete nord al di sotto della vetta. Di nuovo in Inghilterra si discute di Maestri, e di nuovo Maestri, ferito, fa di me il nemico numero uno. Perché, mi domando, Maestri dopo Bonatti ha scelto me come antagonista e non invece Ken Wilson o Leo Dickinson, che già da quindici anni indagano sulla vicenda del Cerro Torre? Mi accusa pubblicamente di aver mentito in relazione alla morte di mio fratello sul Nanga Parbat. Forse per deviare l’attenzione dalla sua scarsa credibilità? Non ho mai fatto elucubrazioni circa la disgrazia di Toni Egger, come invece tanti altri. E rispetto anche il metodo del compressore. Non corrisponde certo al mio gusto, ma Maestri è libero di salire le montagne come meglio crede. Il nostro andare in montagna alla fine è un agire anarchico in un contesto anarchico. In questo senso sono tuttora in sintonia con Cesare Maestri. So anche però quale fosse il livello della tecnica di arrampicata sul ghiaccio nel 1959 e so che la parete nord del Torre non ha un’inclinazione di cinquanta o sessanta gradi, come racconta Maestri, bensì di ottanta o novanta. A me interessano solo i fatti e al di là di questi solo il primo resoconto di Maestri. Tutte le possibili interpretazioni di quanti hanno aspirato al Cerro Torre, con successo o meno, sono semplici integrazioni: la montagna continua a rappresentare la grandezza immutabile. E tutti i fatti che derivano direttamente dallo sviluppo della tecnica di arrampicata e dalla montagna stessa, parlano contro Maestri e Fava. Persine la “sporcizia” che sostengono di aver lasciato sulla montagna sotto forma di chiodi, depositi, chiodi a espansione o campi. Perché non c’è! Il compressore di Maestri è rimasto appeso sulla parete sommitale del Torre. Sulla parete sommitale Jim Bridwell ha trovato persine i tasselli dei chiodi strappati. Ma sulla via del 1959 ancora nulla del materiale di Maestri, Egger e Fava è stato recuperato al di sopra del nevaio. Nulla. Non che io non voglia credere a Maestri. La questione è un’altra, e cioè: perché nel 1970 è tornato? Per dimostrare che il Cerro Torre non è una «montagna impossibile”, come ha scritto lui stesso? Che impresa dispendiosa! Se nel 1959 anche un solo chiodo a espansione fosse rimasto sulla parete sommitale, Maestri sarebbe potuto restare a casa sua. La terza e la quarta spedizione probabilmente sono una storia diversa, anche se avvalorano il fatto che la salita del 1959 non era dimostrabile. In montagna “volere” non è sufficiente quando non si può. Una frase lapidaria di Casimiro Ferrari -”Noi facciamo le montagne che sappiamo fare, non quelle che vogliamo fare» – afferma la stessa cosa! Benché il Ragno di Lecco con la sua prima sul Torre sia sempre rimasto nell’ombra del Ragno delle Dolomiti, alla fine sarà lui a entrare nella storia come Ragno del Torre. E questo non reca alcun danno alla gloria di Maestri.

Capitolo 20. Via Egger. I salvatori del Cerro Torre
“Chi si perde in montagna, deve soprattutto fare attenzione a non ritenere che la pericolosità della sua situazione sia più grande di quello che è in realtà (Friedrich Nietzsche)”.
“Senza dubbio il Cerro Torre è fra le montagne più impressionanti e belle della terra, e senz’altro si tratta anche della vetta più ambita nella storia dell’alpinismo (Alexander Huber).
“Avrei voluto che la montagna si sbriciolasse in mille frammenti (Cesare Maestri)”.
«Rifletti: non ottenere ciò che si desidera può essere una grande fortuna (Dalai Lama)”.
“Suscita tutta la mia ammirazione la costanza con la quale il tirolese Toni Ponholzer si impegna sulla via descritta da Maestri, benché immaginaria! Spero che riesca a salire la sua via Egger fino alla vetta (Reinhold Messner)”.
Cesare Maestri quindi si rifiuta di parlare con me. È un suo diritto. Ma le affermazioni che nel corso di mezzo secolo ha fatto nei confronti di terzi costituiscono per me un’informazione sufficiente. Si sottopone ancora alle domande dei giornalisti. E le risposte arrivano senza esitazioni. Interrogato circa i peggiori giorni della sua vita, risponde di getto: “Il Torre. Non la prima, quando Egger morì, tutta l’impresa Cerro Torre”, precisa e poi prosegue: “Se nella mia esistenza potessi ancora cambiare qualcosa, allora sarebbe questo: non andrei mai al Torre”.

Ma noi uomini non abbiamo una seconda chance nella vita, abbiamo solo la capacità di riflettere. Non possiamo tornare indietro e rifare una cosa in maniera diversa, ma possiamo riconoscere che abbiamo commesso degli errori. Come Maestri nel 1970, quando Mauri definisce il Cerro Torre «impossibile”? La sua reazione è per me motivo di interesse. Che nel 1970 si metta in gioco per fornire, a modo suo, una prova, costituisce per me un motivo valido per pensare che qualcosa non quadra: da allora sento il dovere di andare a fondo della faccenda.
Sessant’anni fa, quando l’Europa era ancora orgogliosa e gli alpinisti erano eroi, fra le nazioni europee si sviluppò una gara ambiziosa a chi avrebbe salito per primo gli ottomila dell’Himalaya e del Karakorum. I pionieri affluirono a frotte all’Everest, altri si volsero al Nanga Parbat e al K2. Francesi, inglesi, italiani… argentini si aprirono una via sul Dhaulagiri usando l’ossigeno e l’esplosivo. Cesare Maestri non c’era. Non lo vollero nella squadra della spedizione italiana sul K2. Maestri però non intendeva restare in disparte, pretendeva, come i suoi rivali, onore e gloria. La sua Patagonia, il Cerro Torre, dove si sarebbero materializzate le sfide del futuro, all’epoca non erano leggendari come l’Himalaya. Il trentino comunque ha perseguito il suo obiettivo, passando fiumi gonfi d’acqua, ghiacciai, dormendo in campi frustati dal vento. La meta era la vetta più difficile, non la più alta. È salito su pareti avvolte dalle nubi, ha dormito in grotte scavate nel ghiaccio, si è calato mentre infuriava la tempesta. Alla fine però lo scopritore del mondo più lontano si è trovato ai piedi della sua montagna sacra, mezzo morto, mentre il compagno era scomparso. Comunque non sussisteva alcun dubbio circa la portata dell’impresa. Quando fu pubblicato il suo primo libro, Maestri era l’idolo di una giovane generazione di arrampicatori. Sapeva raccontare, e a migliaia erano affascinati dallo struggimento di Egger: in spirito ci pareva di partire per l’ultima avventura. I suoi due primi viaggi in Sudamerica, da lui descritti come un fallimento, erano diventati il più grande successo della sua vita. Ciò nonostante noi arrampicatori, ispirati da Maestri, restammo a casa. Nemmeno i turisti gli andarono dietro.
Il tutto si modifica solo dieci anni più tardi, quando Maestri fa ritorno al Torre. Quando dimostra di agire come parla, e quando anche altri sono in grado di dominare il Cerro Torre. Quando, infine, sono in molti a saper salire il suo Torre, perché la sua via alla vetta rimane, allora si spalanca anche la porta dell’ultimo baluardo della solitudine. Ben presto lo segue tutto il mondo in Patagonia.
Ce ne sarebbero stati di miti da inseguire per Maestri, ma per lui così era sufficiente visto che aveva conquistato la montagna più difficile di tutte, due volte. Cosa accadrebbe se finalmente i suoi critici rifacessero quello che lui ha mostrato? Grazie al Cerro Torre, la sua prova di superiorità, il Ragno delle Dolomiti riesce a convogliare l’attenzione verso quel fantastico regno della roccia che è sempre stato solo suo e ha creato la sua fama, ma d’altro canto la sua storia diventa anche verificabile. Gli inglesi, gli americani o Bonatti possono dire quello che vogliono: è comunque Maestri che resta al centro dell’attenzione. E che riceve l’applauso. Al vasto pubblico va bene così. E solo quando l’elite dei giovani arrampicatori comincia a seguirlo, la situazione si fa pericolosa per lui: Donini, Bragg, Wilson, Burke, Proctor, Salvaterra, Giarolli, Orlandi, Janez Jeglič, Karo, Ponholzer… Alla fine arrivano dappertutto, anche là dove Cesare Maestri non può essersi spinto.
Fra il 21 e il 24 gennaio 2008 l’americano Colin Haley e l’italo-argentino Rolando Garibotti portano a termine la traversata dell’intero gruppo del Cerro Torre: finalmente con questo concatenamento si realizza la cosiddetta “skyline” – costituita da Aguja Stanhardt, Punta Herron, Torre Egger e Cerro Torre – che elettrizza tutti i grandi arrampicatori. Da anni, da un’eternità. È così che la fantasia diventa realtà, e a dozzine cominciarono a mirare a questo obiettivo.
Nel gennaio del 2008 Rolando Garibotti chiede a Colin Haley, un autentico fascio di energia, se ha voglia di tentare con lui la traversata del Torre. A 23 anni Haley è uno degli alpinisti americani più dotati. Perché non accettare? Garibotti, l’esperto, ha 36 anni. Ha già fatto vari tentativi e sente che il tempo passa. Non vuole rinunciare!
Il 21 gennaio 2008, alle prime luci dell’alba, i due si avviano al Colle Stanhardt. Tempo brutto. Ciò nonostante salgono lo Stanhardt lungo la via Exocet. Da lì, nella tempesta, si calano alla forcella della Punta Herron. Il primo tiro sullo Herron è asciutto, poi ci pensa la brina a rallentare la loro progressione. Le varianti portano via molto tempo, e i due bivaccano sotto il fungo di ghiaccio sommitale dello Herron. Il giorno seguente il tempo è magnifico! Veloci, Haley e Garibotti superano Herron e Torre Egger fino al Colle della Conquista. Sopra di loro si erge il Cerro Torre. C’è il rischio di cadute di ghiaccio a causa delle temperature elevate! Bivacco sotto uno strapiombo.

Salgono la parete nord-ovest lungo la via Arca, una prima che Garibotti ha realizzato nel 2005 in collaborazione con Ermanno Salvaterra e Alessandro Beltrami, proseguono lungo la via Ferrari fin sotto il fungo di ghiaccio sommitale, che ha costretto tanti arrampicatori a fare marcia indietro. Il giorno successivo scavano un tunnel nel ghiaccio marcio. Questo è il colpo di genio di Colin Haley! Per tre ore scava nel ghiaccio molle; crea in questo modo una condotta – lunga 20 metri -, e a mezzogiorno, è il 24 gennaio, sono sulla vetta del Cerro Torre. Il loro dovere assoluto a quel punto è di ritornare giù sani e salvi. Il successo da loro forza. Il Cerro Torre però continua a fare paura. Realizzano la discesa lungo la via del Compressore, e vincitori ritornano al mondo civilizzato. Come due bambini scivolano, ballano, alla fine corrono verso la vita alla base della montagna.
Dopo la traversata del gruppo del Cerro Torre rimane come ultima possibilità stimolante solo la ripetizione della via lungo la parete nord del 1959, descritta da Cesare Maestri. Anche perché Maestri ha lasciato sul suo cammino parecchi enigmi. Per il tirolese Toni Ponholzer che già da anni segue le orme di Maestri ed Egger, è questa la grande sfida della vita.
“Allora avete fatto la traversata?” gli domando al telefono.
“Sì, sono stato là dal 10 gennaio fino alla fine di febbraio, una bella cosa” conferma lui.
Pochi giorni più tardi siamo nel castello di Sigmundstern e proseguiamo il nostro colloquio.
“Il tempo era piuttosto buono, o sbaglio?”.
“Fantastico. Tre periodi di bel tempo, ognuno di tre o quattro giorni. Abbastanza caldo”.
“Questo significa il rischio di caduta di ghiaccio?”.
“Caldo significa molta acqua, caduta di ghiaccio e poi, siccome il ghiaccio si scioglie, caduta di pietre”.
“Anche Alexander Huber ha tentato il concatenamento?”.
“Voleva farlo, poi le condizioni atmosferiche l’hanno dissuaso. L’ha giudicata una situazione troppo pericolosa”.
“Dove di preciso? Al Colle della Conquista?”.
“Sì. Garibotti è un po’ il padrone di casa al Cerro Torre e voleva farla assolutamente, la traversata. Quando hanno attaccato le condizioni erano incerte, hanno rischiato parecchio e hanno vinto”.
“Questo significa che alla fine hanno fatto il Torre lungo la via Salvaterra”.
“Sì, lungo la Arca de los Vientos”.
“Questa volta sei stato ancora al Colle della Conquista?”.
“No, questa volta io non ho attaccato. Lungo la via Egger c’era troppo ghiaccio che precipitava. Ho fatto il Fitz Roy. La Supercanaleta. Comunque, il mio obiettivo principale, la via Egger, è solo rimandato. Avremmo avuto una possibilità in questa occasione, ma non abbiamo osato”.
“Nel 2008 c’è qualcuno che ha tentato la via Egger?”.
“Nessuno”.
“Quante volte sei stato al Colle della Conquista?”.
“Sei volte. Una volta sulla parete nord sono arrivato 200 metri sotto il fungo”.
“Più o meno là dove Maestri ed Egger affermano… Egger veramente non afferma niente… Più o meno. Io seguo la linea logica. Ritengo che sia il percorso ottimale sulla parete nord”.
“Sulla sinistra della via di Salvaterra?”.
“Sì, sulla sinistra”.
“La via di Salvaterra però è più semplice, una rampa inclinata?”.
“No, non è una rampa inclinata. Salvaterra è salito dal Colle verso destra sulla parete occidentale, è salito da quella parte e in alto si è riportato sulla parete nord, negli ultimi tre tiri.”.
“Lungo la via Ferrari?” lo interrompo.
“No, la via Ferrari è più a destra, oltre l’angolo. Solo in cima, verso i funghi di ghiaccio, la Arca si congiunge alla via Ferrari”.
“Una domanda importante: se tu fossi arrivato per primo al Cerro Torre, cioè al Colle della Conquista, avresti poi proseguito sulla tua via oppure su quella di Salvaterra?”.
“Inizialmente forse avrei fatto quella di Salvaterra”.
“Dall’alto si vede che è possibile?”.
“Sì, si vede, perché in qualche modo si svela. Ma il tratto superiore della parete rimane enigmatico. Col passare degli anni comunque ho visto che linee naturali attraversano anche la parete nord. Maestri ha sempre affermato di aver salito la parete nord. Perciò è lì che ho cercato una via”.
“Quindi tu hai sempre tentato di salire la parete nord?”.
“Sì, sempre la parete nord”.
“Hai tentato sei volte e non hai mai trovato niente di Egger e Maestri”.
“Finora no”.
“Però qualcosa di tuo è rimasto: un paio di chiodi, anelli da calata”.
“Appunto”.
“Quanto è inclinato il terreno?”.
“È verticale, con difficoltà fino all’ottavo grado su roccia. Ma è arrampicata mista. Ghiaccio e roccia si alternano. Devi di continuo cambiare la calzata: scarpe da arrampicata, poi di nuovo gli scarponi con i ramponi”.
“Com’è lo strato di ghiaccio di copertura?”.
“Molto differente. Le fessure sono gelate oppure lisce, poi di nuovo un nevaio… Cambia il tipo di arrampicata”.
“Quanto hai impiegato dal Colle della Conquista fino al punto dove hai fatto dietro-front?”.
“Sono stato piuttosto veloce. Il primo giorno sono arrivato al Colle e poi ho fatto ancora tre tiri sulla parete nord”.
“Poi ti sei calato?”.
“No, il secondo giorno sono arrivato circa 200 metri sotto i funghi di ghiaccio. Poi è cambiato il tempo. Siamo rientrati, il mio compagno era sfinito, esausto”.
“Chi era?”.
“Franz Niederegger, del Tirolo Orientale”.
“Quello che tu vuoi dimostrare quindi è che, almeno teoricamente, Cesare Maestri e soprattutto Toni Egger avrebbero potuto farcela, giusto?”.
“Quello che mi interessa è capire la storia di Toni Egger. Tutto risale alla mia infanzia. Ho sentito racconti così avvincenti su Toni Egger, anche sulla sua scalata del Cerro Torre. Ho deciso che un giorno avrei voluto vedere e salire questa montagna”.
“Hai collaborato anche tu alla costruzione della cappella commemorativa?”. «Io no, sono stati amici miei. Lo sponsor che ha fatto costruire la cappella, il signor Müller, mi ha comunque finanziato un viaggio al Cerro Torre. Quella volta ho fatto la via del Compressore. Era il 1986, la diciottesima salita. Solo in seguito mi sono concentrato sulla via originaria”.
“Se tu arrivassi lì per primo – e nessuno fosse ancora stato sul Cerro Torre – quindi se tu salissi da El Chaltén verso il Cerro Torre inviolato, quale via affronteresti?”.
“Voglio pensarci bene. Prenderei la via originaria, al primo momento appare logica”.
“Al primo momento e poi?”.
“Più sulla sinistra, verso la via del Compressore, c’è una leggera sporgenza, ma su in alto, nella zona di vetta, nel 1959 non c’era niente da fare”.
“Quindi, nel 1970, in alto la salita non sarebbe stata realizzabile senza l’impiego di materiale pesante. Intendi che senza trapanare allora non si poteva salire?”.
“No di sicuro”.
“Nel 1959 Cesare e Toni se ne erano resi conto senz’altro. Già dal basso. Ovviamente avevano sperato di poter proseguire, magari dietro il Colle”.
“Dev’essere andata proprio così”.
“Toni Egger non avrebbe attaccato, se non avesse nutrito la speranza di farcela comunque in qualche modo ad arrivare su, così almeno credo”.
“Se si osserva la montagna con il binocolo, si individuano linee e fessure che si potrebbero sfruttare per salire”.
“Dal basso però avevano visto solo la parete orientale. I passaggi chiave sulla parete nord non possono averli visti prima”.
“Se si va sulla destra verso lo Stanhardt si vede verso la parete nord e con il binocolo un occhio allenato riconosce una linea logica. Solo un punto non si vede, lo spigolo al Colle, da dove è andato Salvaterra”.
“Non sei stato tu a realizzare la prima ripetizione – dall’attacco fino al Colle della Conquista?”.
“Può essere”.
“La salita di Maestri continua a restare enigmatica, anche perché Fava, che era handicappato e non era un arrampicatore, sostiene di essersi calato da solo dal Colle!”.
“Se ci si attiene ai fatti, questo dettaglio non è praticamente spiegabile: sono stati rinvenuti chiodi originali di Maestri fin sotto il nevaio. Dal nevaio in su più niente”.
“È difficile il terreno fino al nevaio?”.
“Per niente facile, settimo superiore. Anche lì arrampicata mista”.
“Nel 1959 è probabile che il primo tratto lo abbiano chiodato?”.
“Le fessure, di sicuro. Ci sono chiodi vecchi, chiodi a espansione fatti in casa, ma non i chiodi che si trovano sulla via del Compressore. Nel 1959 Maestri ha utilizzato chiodi squadrati”.
“Ci sono anche resti di corda di allora?”.
“Al di sotto del nevaio sono rimasti uno zaino e vecchie corde. Però potrebbe trattarsi di materiale degli inglesi”.
“Della via del Diedro?”.
“Sì”.
“C’è un’altra faccenda misteriosa. Se Maestri ed Egger salgono lungo la parete nord, perché poi si calano da un’altra via, strapiombante? Non è illogico?”. “Certo, le domande sono tante, però io posso dirti solo quel che ho visto”.
“Né io voglio sapere altro. Comunque, se riesco a salire una via, poi mi calo dove è possibile farlo”.
“Direi anch’io. Se mi calo lo faccio lungo la via di salita. Perché la conosco già. Sul Torre non mi posso calare semplicemente verso l’ignoto. Nessuno si fiderebbe a farlo”.
“Quindi devi conoscere bene il terreno per poter tornare giù”.
“Sì, certamente”.
“Il Colle della Conquista è a metà della salita?” è la mia domanda successiva.
“Sì, il Colle è più o meno a metà strada”.
“Dove sono i passaggi più impegnativi nel tratto fino al Colle?”.
“La parete appena al di sopra del nevaio non è più facile dei passaggi più in basso, dove Egger e Maestri hanno messo le corde fisse”.
“Ah no?”.
“No. Ci sono varie vie e io le ho salite tutte. Sono tutte linee logiche. Ho fatto il camino, che è gelato; ho arrampicato sulle placche, e anche sulla sinistra. Dal punto di vista della difficoltà il livello è più o meno lo stesso che sotto”.
“Verticale?”.
“In parte verticale. Alcuni brevi passaggi sono meno inclinati, comunque si trovano di continuo passaggi di settimo”.
“La Supercanaleta è più facile?”.
“Sì. È solo molto lunga e pericolosa”.
“Ma non difficile, in rapporto al Torre?”.
“La Supercanaleta sul Fitz Roy in rapporto al Cerro Torre è facile”.
“Quindi non confrontabile con la via Maestri-Egger”.
“No, in nessun caso”.
“Perché non hai mai pensato di salire lungo la via del Compressore e di calarti lungo la parete nord? Le conosci entrambe bene”.
“Semplicemente perché sono un alpinista e voglio andare da giù fin su”.
“Un’idea in vista di una traversata del Torre?”.
“Sì, perché no. L’ho già preso in considerazione una volta: la traversata del Cerro Torre al contrario. Al contrario sarebbe sicuramente più facile”.
“Un’altra domanda: ritieni possibile che nel 1959 tutta la parete nord, dal Colle fino alla vetta, fosse un’intera parete di ghiaccio, come sostengono Fava e Maestri?”.
“Spesso il Cerro Torre indossa una veste bianca. Ma solo ghiaccio sulla parete nord, questo non lo credo. Quando si alza il vento da occidente, si ‘spezza’ sulla destra, sullo spigolo. Che a quel punto è gelato. L’ho visto io stesso. Non credo che la parete nord possa essere completamente ghiacciata”.
“Col ghiaccio la parete nord sarebbe ancora più difficile, perché il terreno non avrebbe più una conformazione evidente”.
“Precisamente”.
“Le piccozze di quell’epoca non permettevano nemmeno di salire sul ghiaccio verticale!”.
“Prima cosa, in secondo luogo si parla sempre del ghiaccio sul Torre. Lì però di ghiaccio ce n’è ben poco, si tratta di brina dura sulla quale non c’è possibilità di presa”.
“Brina portata dal vento, che aderisce alla roccia. Si può arrampicare, usando gli attrezzi moderni”.
“No. Spesso succede che infili dentro il braccio fino alla spalla e non tiene lo stesso”.
“Entrambi, sia Maestri sia Egger, erano arrampicatori eccellenti, non c’è dubbio. Nel 1958 Maestri ha fatto in prima ripetizione la Direttissima alla Cima Grande di Lavaredo, Egger l’ha fatta un paio di settimane dopo di lui, la quinta salita. Ha realizzato, mi pare, la seconda ripetizione del Pilastro Bonatti al Dru. All’epoca erano fra i grandi dell’arrampicata nelle Alpi. Egger su granito e calcare, Maestri sulle Dolomiti. Egger era bravo anche sul ghiaccio. Che i due abbiano avuto la possibilità di raggiungere la vetta del Cerro Torre? A lungo tu hai sostenuto: ‘Quei due ci sono arrivati, lo voglio dimostrare’. Hai fatto di tutto per dimostrare che l’impresa era credibile. Oggi cosa pensi?”.
“Erano entrambi arrampicatori di valore, certo. Se però penso alla via del Compressore, a come Maestri ha piantato chiodi in modo insensato…”.
“Maestri?”.
“Sì, ha chiodato in modo casuale, direi senza senso. Senza cercare una linea. Per questo faccio fatica a immaginarlo sulla via originaria”.
“Nel frattempo l’arrampicata ha fatto progressi. Se nel 1970 Maestri avesse voluto dimostrare che già nel 1959 era stato sul Cerro Torre, avrebbe dovuto ripercorrere la via originaria, magari accompagnato da giovani, da gente più in gamba. Avrebbe dovuto mostrare loro la via e dire: ‘Lì troverete qualche mio chiodo. Vi mostro i punti dove li abbiamo piantati’, in questo modo la questione si sarebbe risolta in modo inoppugnabile. Ma un’altra via in uno stile differente non è dimostrazione di niente. Ha tutti i diritti di ritornare sul Torre, perché no. Può piantare tutti i chiodi a espansione che vuole, non intendo criticarlo, solo non si può parlare di una dimostrazione della prima salita”.
“Te lo dico io, nel 1959 sono saliti di circa 300 metri, non di più”.
“Un terzo del percorso calcolato fino al Colle?”.
“Mi sarebbe piaciuto pensare che sono arrivati fino in vetta. Adesso però prevalgono i dubbi. Non ho trovato punti di calata, niente. Per me comunque resta importante salire la loro linea”.
“Quella descritta, anche se è solo virtuale?”.
“Questa via è fattibile, magari ho fortuna. Non troverò più niente, ma il motivo principale che mi spinge a continuare a lavorarci è Toni Egger. Dato che non può difendersi, bisogna che io ripercorra la sua via fino alla fine. Come l’avrebbe fatta lui. La via che Maestri ed Egger hanno cominciato insieme, questo è il mio traguardo”.
“Ci sei solo tu che vuoi percorrere la via del 1959? Oppure qualcuno ti ha seguito sulla via della parete nord?”.
“Ci sono altri che hanno tentato. Nessuno è arrivato lontano come me”.
“Quindi l’anno prossimo vorresti tornare là?”.
“Se mi bastano il tempo e il denaro tenterò di nuovo”.
“Quanti anni hai?”.
“Ne ho 46. Condivido l’idea di voler portare a termine la via Egger. Toni se lo merita. Egger sarebbe più anziano di Bonatti e Maestri, più giovane di Buhl, ma di pari valore. È stato ingiustamente dimenticato. Se oggi domandi a un arrampicatore giovane chi sono stati i migliori negli anni Cinquanta, ti cita dopo Bonatti, Cesare Maestri, Armando Aste, Georges Livanos, Lionel Terray, Hermann Buhl, le grandi stelle. Forse anche Louis Lachenal – su un piano internazionale pure Joe Brown, Royal Robbins. Toni Egger invece se lo dimenticano tutti. È tempo – ed è anche il compito che mi prefiggo – di mettere in chiaro che Toni Egger è stato un grande, un grandissimo. Soprattutto sul ghiaccio. D’altronde Maestri dice che la salita del Torre è stata una salita su ghiaccio”.
“Nel 1959 il Torre era una salita su ghiaccio?” gli domando allora.
“No, la parete è troppo ripida, è praticamente verticale. Sono andato a trovare Maestri un paio di volte e sempre ho ottenuto risposte diverse alle stesse domande. Non si ricorda. E anche comprensibile”.
“Cinquant’anni dopo, sì. A me interessa la traccia grossolana, non il dettaglio”.
“Io sono abbastanza convinto che l’incidente sia avvenuto durante la salita. Se qualcosa precipita dalla vetta, ti colpisce al di sotto del nevaio”.
“I due hanno sperato di farcela, immagino, poi invece è successa la tragedia. Là, dove dice Cesare. Poi si è aggiunto Fava” dico io.
“Fava lo conosco, una volta è venuto da noi al campo. Parla molto. Ma non posso credere che sia stato al Colle della Conquista. I punti di calata sono così approssimativi, soste brutte… scendere da soli lì è già un bel rischio”.
“Per farlo ti serve ben più che una corda lunga”.
“Appunto”.
“Ti auguro tanta fortuna. Prima o poi ce la farai. Mi piacerebbe che al Torre ci fosse una via Egger. In fondo c’è anche la via Maestri”.
“Io la voglio chiamare proprio via Egger”.
“In bocca al lupo”, faccio i miei auguri a Toni e gli stringo la mano.
Non solo Ponholzer, anche altri tirolesi non dimenticheranno Toni Egger. In fondo gli stessi Fava e Maestri hanno fatto di Egger un’icona del Torre: il genio del ghiaccio, l’inventore di nuovi attrezzi, il miracolo dell’arrampicata, lo “smilzo”, tutte immagini che circolavano su di lui. Lui e solo lui avrebbe reso possibile la salita del 1959.

Maestri invece si interpreta sempre e solo come vittima, perché Egger non può avallare le sue affermazioni. Perseguitato dai bugiardi, dagli scettici e dagli invidiosi. Lui non ritiene di aver fallito, e al massimo ha imbrogliato se stesso. Non si possono offendere i vincitori, ma non è mai piacevole essere il sopravvissuto. Perciò Maestri ha tutta la mia comprensione. Provo comunque più rispetto per Casimiro Ferrari, il primo salitore, per Walter Bonatti, che ha ammesso di aver fallito, ed Ermanno Salvaterra, oggi l’uomo del Torre, e per Toni Ponholzer. Anche perché hanno patito a causa di Cesare Maestri. I risultati da loro ottenuti sono sottovalutati proprio per causa sua.
Oggi come oggi nessuno conosce il Cerro Torre meglio di Ermanno Salvaterra. È trentino come Cesare Maestri, maturato come alpinista estremo nelle Dolomiti di Brenta. Nel 1982 si reca per la prima volta in Patagonia, ormai c’è stato venticinque volte. Soprattutto al Cerro Torre, dove ha realizzato prime su tutti i versanti. Non sempre fino alla vetta, però lungo vie molto ardite: sulla parete sud, sulla parete est, sul versante occidentale e infine, nel 2005, sulla parete nord. Per tre volte ha raggiunto il Colle della Conquista, per tre volte si è calato da lì. Nel 2008 di nuovo, dopo il concatenamento di Cerro Stanhardt, Punta Herron e Cerro Egger. Proseguire lungo la sua via del 2005 fino alla vetta del Cerro Torre gli era parso troppo pericoloso. Perciò ha fatto dietro-front, come Bonatti nel 1958 e mille altri prima di lui. Tutti quanti hanno espresso nei confronti del Cerro Torre quel rispetto che alla fine è mancato a Cesare Maestri. Forse solo perché voleva dimostrare qualcosa che sul Torre non si poteva dimostrare: che in montagna tutto è possibile, se lo si vuole.

Fava e Maestri hanno agito e si sono atteggiati a eroi al tempo dell’alpinismo eroico. Le loro affermazioni lo dimostrano. Come del resto l’elogio funebre per Toni Egger, che alcuni compagni di montagna hanno formulato nel 1959: “Un gigante di granito nelle Ande patagoniche annuncia il coraggio, la fede incrollabile e la volontà di vittoria di un alpinista tirolese. I sepolcri dei re un giorno saranno polvere. Il Cerro Torre sfiderà ancora per millenni le tempeste come un fanale che si protende verso il cielo”.
Invidio gli arrampicatori non per i loro risultati, li invidio – sia che abbiano fallito sia che abbiamo avuto successo – per le esperienze. Soprattutto per quello che hanno potuto imparare nelle situazioni estreme. Prima di tutti Casimiro Ferrari, di cui ho pianto la scomparsa prematura nel 2006 nella sua solitaria estancia in Patagonia. Ammiro Salvaterra, il salvatore di quel mondo che viene solo subito, anche perché a lui è sempre stata a cuore la fama dei trentini sul Cerro Torre. Ammiro Ponholzer, che ha a cuore la memoria di Egger. Ha sempre dato il meglio.
Per loro e per tutti gli altri questa montagna è un ricordo pietrificato: per sempre gioia e dolore. Una volta simbolo della loro paura, poi segno della loro passione; spesso memento per il loro dolore. Rimane sempre vivo nelle emozioni degli arrampicatori. Per Cesare Maestri il Cerro Torre probabilmente è il grido pietrificato di una disperazione profondamente provata. Di una rabbia, che non si può più urlare perché ormai è grande e dura quanto il Cerro Torre, sulla cui roccia pende ancora un anello di corda spezzato, quella corda che manca dal corpo senza vita di Toni Egger.