I tre ultimi problemi delle Alpi – 3 (3/5)
di Anderl Heckmair
(continua da https://www.sherpa-gate.com/grandi-storie/i-tre-ultimi-problemi-delle-alpi-2/)
1937: altri tentativi
Avevo seguito con vera passione gli avvenimenti dell’Eiger. Nel 1936 non mi ero sentito ancora maturo per questa grande impresa, benché, a causa della sconfitta subita indirettamente sulla Nord delle Jorasses, tutti i miei pensieri si portassero inconsciamente sull’Eigerwand e ne facessero la mia sola meta. Ma prima dovevo dimostrare a me stesso di avere ancora la capacità e lo slancio necessari per una simile impresa, e di non essere ormai arrugginito come aveva affermato quel mio amico di Monaco.
Non avendo fatto nessuna scalata difficile nel 1935, non potevo pensare all’Eiger nel 1936. Ma l’estate ebbi finalmente l’occasione di riconquistare la fiducia in me stesso. Durante un soggiorno sulle Dolomiti con una cliente, stavo salendo al rifugio Principe Umberto quando mi imbattei in alcuni compagni di Norimberga che mi annunciarono, raggianti, d’aver compiuto la sedicesima scalata alla Nord della Cima Grande di Lavaredo. Mi congratulai con loro e proseguii mogio mogio, perché in quel momento non avevo certo la possibilità eli compiere simili imprese. Per un attimo ebbi l’assurda idea di tentare quella salita con la mia cliente. Ma mi fu sufficiente guardare la signora per sorridere di quel pensiero.
In rifugio rimasi colpito da un alpinista che, calmo calmo, si era fatto servire per tre volte la cena. Anche senza questa particolarità l’avrei trovato simpatico; perciò mi avvicinai e attaccai discorso chiedendo del tempo, e saltò fuori che egli apparteneva a quel gruppo di miei conoscenti di Norimberga: solo, godendo ancora di un giorno di ferie, aveva deciso di passarlo riposando in rifugio. Tra le sue ascensioni poteva vantare quella della Civetta e la Nord dell’Einser. Era un curriculum più che sufficiente e gli chiesi se non avesse voglia di venire con me l’indomani sulla Nord della Cima Grande. Mi guardò dapprima incredulo, poi accettò con entusiasmo.
La mia cliente mi concesse volentieri una licenza; decidemmo di alzarci alle 4 per compiere, se possibile, la salita in un sol giorno benché, a quanto ne sapessi, nessuno vi fosse ancora riuscito.
Ma alle quattro sentimmo il rumore violento della pioggia battere sul tetto di lamiera. Imprecai con impeto, perché il cattivo tempo mi fa tanta rabbia!… Ci alzammo alle 7 e Teo Erbenbeck – il nome del mio nuovo compagno – chiuso lo zaino, si preparò per scendere a valle. Intanto la pioggia era cessata: solo un freddo velo di nebbia si alzava lentamente lungo le tetre pareti. Lo pregai di accompagnarmi almeno all’attacco, giusto per vedere da vicino le difficoltà della via.
Alle 8 lasciammo il rifugio. Ad ogni buon conto, presi con me tutto il materiale da scalata, pur essendo certo che non si poteva salire. Alle nove eravamo all’attacco. Senza scambiare una sola parola, quasi automaticamente, ci legammo e agganciammo in cintura chiodi e moschettoni. Dopo ottanta metri di facile arrampicata, eravamo sotto la fessura d’attacco. Gli italiani che avevano compiuto in 5 giorni la prima salita, avevano fatto un gran lavoro. Ma per il mio gusto c’erano troppi chiodi, e non avevo portato moschettoni in numero sufficiente. Ricominciò a piovigginare; pensammo così di alzarci solamente per qualche lunghezza di corda, pronti sempre a ridiscendere.
Tutta la delusione accumulata per la sconfitta sulle Grandes Jorasses sembrò però esplodermi in petto. Volevo dimostrare a me stesso di non essere ancora da buttar via. Usai solo i chiodi indispensabili e spesso mi sporgevo indietro, con la testa all’ingiù, per recuperare i moschettoni. In questo modo le corde erano raramente agganciate a più di 2 o 3 chiodi e l’attrito era molto minore. Il compagno sapeva fare sicurezza in modo egregio. Non appena giungeva due o tre metri sotto di me, gli lanciavo giù il mucchio di corde e ripartivo di slancio.
Ormai nessuno parlava più di ritorno! In sole quattro ore eravamo fuori dal tratto difficile e dopo un’altra ora e mezza raggiungemmo la cima, pur senza aver mai pensato di stabilire un record, cosa quanto mai assurda nell’alpinismo. Ma il tempo con cui vengono superate le difficoltà è pur sempre un ottimo indice di misura. E così mi convinsi di non essere ancora un ferrovecchio!
Così decisi fermamente di tentare il grande problema dell’Eiger. Che m’importava il divieto del governo svizzero? Una volta in parete non ci avrebbero mica sparato addosso, e se dopo ci avessero messo in prigione, ne avremmo approfittato per goderci alcuni giorni di meritato riposo!
Facemmo i preparativi in gran segreto, senza dir nulla a nessuno dei nostri piani. Avevo convinto il mio consocio Theo Lösch ad accompagnarmi nel tentativo. Ci preparammo per un assedio prolungato, che ci avrebbe tra l’altro permesso di studiare l’Eigerwand in tutti i suoi particolari.
Con questi buoni propositi, inforcammo le nostre biciclette nella primavera del 1937 e pedalammo verso la Svizzera. Non ci facemmo vedere a Grindelwald, ma scendemmo direttamente sulla spiaggia di Interlaken, dove affittammo per tutta la stagione una cabina balneare dal bagnino, mio buon conoscente, e ci installammo come se fossimo a casa nostra. Venimmo a sapere che il divieto di salire l’Eigerwand era stato revocato, ma continuammo a nascondere i nostri progetti. Perciò quando salivamo a Grindelwald, eravamo senza equipaggiamenti e materiale, e non temevamo così di essere notati. Fummo obbligati a mettere una sola persona a parte dei nostri segreti: il suonatore di corno di Alpiglen, che ci aveva sorpresi durante una delle nostre ricognizioni in parete. Ma si trattava d’uno strano tipo di misantropo che prese anzi l’abitudine d’avvisarci con uno squillo di corno quando s’avvicinava qualche intruso.
Rimanemmo per sei settimane a Grindelwald, o meglio, ad Alpiglen quando il tempo era bello, e a Interlaken quando era brutto, mescolandoci alla folla sfaccendata dei bagnanti. Naturalmente non restavamo inoperosi, anzi facemmo frequenti esplorazioni in parete. Un giorno due tizi, dal classico aspetto di villeggianti, ci fermarono e ci interrogarono assai abilmente. La nostra diffidenza si risvegliò solo quando ci fotografarono all’improvviso senza nemmeno avvertirci. Due giorni dopo potevamo ammirare la nostra fotografia sul giornale con sotto la dicitura: “Due pretendenti dell’Eiger che non vogliono svelare l’incognito!”
Meno male che non avevamo detto i nostri nomi! Si trattava di due giornalisti camuffati. Infatti se il signor Tizio e il signor Caio fossero venuti a conoscenza del nostro nome, la cosa non avrebbe avuto certo importanza: ma invece avrebbe potuto suscitare scalpore nell’ambiente alpinistico in cui non eravamo del tutto sconosciuti. Ed era proprio quanto volevamo evitare.
Ma purtroppo altre cordate erano alla ricerca dell’effetto contrario, raccontando a destra e a manca i loro piani di conquista; si arrampicavano apertamente, sulle prime propaggini della parete nord, invitando i loro ammiratori ad osservarli, si facevano ospitare liberamente a Grindelwald e raccoglievano allori anticipati, dovunque potevano impadronirsene.
Con mio grande rammarico devo ammettere che si trattava proprio di monacesi. Le guide di Grindelwald erano giustamente esasperate. Tutti questi filibustieri dell’alpinismo si sentivano attratti dall’Eigerwand come i moscerini dalla fiamma. Alla fine però ebbero il compenso meritato e furono letteralmente buttati fuori dalla Svizzera.
Diventammo sempre più prudenti e non ci fidammo più di nessuno. Durante un primo tentativo il tempo si mostrò particolarmente instabile e ci accontentammo quindi di tracciare una variante che dalla Roten Flüh raggiunge a destra la cresta occidentale. Naturalmente questa via non ha un gran valore alpinistico, ma per noi fu un ottimo allenamento e ci permise di abituarci a quel genere di roccia. Finalmente venne il giorno in cui ci preparammo per il grande assalto. Avevamo stabilito di metterci in cammino alle 2 del mattino. Ma quando ci svegliammo, il sole pareva schernirci brillando nel cielo azzurro. Avevamo perso tempo dormendo della grossa. Non ci tormentammo troppo: “Bah, il tempo resterà bello per più di un giorno!” e ci voltammo sull’altro fianco.
Verso mezzogiorno si levarono pesanti nuvole nere e scoppiò un terribile temporale. Non ci mancava altro! Eravamo lì già da sei settimane, e le nostre finanze erano ormai ridotte allo stremo. Già negli ultimi giorni avevamo dovuto ogni tanto saltare il pasto per economia. E per diretta esperienza sapevamo che ormai la parete non sarebbe stata più accessibile prima di una o due settimane. Non potevamo certo digiunare per un periodo così lungo o, facendolo, non saremmo stati certamente nelle migliori condizioni per affrontare le enormi difficoltà e gli strapazzi d’una simile salita. Perciò prendemmo la sola decisione possibile e saggia, anche se poco piacevole: quella eli sospendere per quell’anno i nostri tentativi e di ritornare l’anno seguente, ricchi della recente esperienza.
Appena presa questa decisione, non perdemmo neanche un minuto; facemmo risolutamente i sacchi, scendemmo in tutta fretta a Grindelwald e, inforcate le biciclette, ci dirigemmo verso Interlaken. Lì, impaccata la roba e stabilito che il bagnino ci avrebbe spedito col treno quanto non potevamo portarci appresso, pedalammo tutta la notte e il giorno seguente verso la nostra patria.
Anche quella giornata doveva segnare una data tragica nella storia dell’Eiger. Mentre noi avevamo rinunciato, stava ancora per succedere qualcosa d’importante. Due altre cordate erano subentrate al nostro posto: Hias Rebitsch con Wiggerl Vörg di Monaco e Albert Gollackner e Franz Primas di Salzburg.
Venimmo a sapere soltanto una settimana dopo il nostro ritorno in patria quanto era accaduto: lo stesso giorno della nostra partenza, una cordata di Salzburg aveva attaccato la Nord-est dell’Eiger (via Lauper) ed era stata sorpresa dalla terribile tempesta. I due riuscirono alla fine a raggiungere la cresta del Mittelegi, ma lì Gollackner morì per esaurimento e Primas fu raccolto dalle guide svizzere quand’era ormai al limite estremo delle forze.
Il giorno seguente Rebitsch e Vörg, venuti a conoscenza del tentativo dei salisburghesi, salirono per la via Lauper insieme a un’altra cordata di monacesi, malgrado la neve fresca e profonda, ed esplorarono l’intera parete alla ricerca degli infortunati. Purtroppo erano stati indotti in errore da una notizia secondo la quale la cordata in pericolo sarebbe stata scorta sulla parete nord-est. Gli stessi salvatori, dopo la loro vana ricerca, furono obbligati a bivaccare in parete bagnati fino alle ossa, e solo il giorno successivo poterono a loro volta uscire sulla cresta del Mittelegi, dove si trova un piccolo rifugio. Lì incontrarono le guide svizzere e Primus estenuato, che indicarono loro dove giaceva il corpo di Gollacker. Si misero subito all’opera e riuscirono a calare a valle il corpo del compagno perito.
Fin dall’inizio la cordata Rebitsch-Vörg aveva dimostrato d’essere nata sotto una cattiva stella. Appena rimessi dalle fatiche del salvataggio, ripartirono per un tentativo alla Nord dell’Eiger. Si erano alzati di soli 300 metri quando trovarono il corpo di uno dei caduti dell’anno precedente, quello di Hinterstoisser, che non era stato ancora recuperato. La pietà li spinse a trasportarlo subito in basso. Così parecchie belle giornate andarono perdute. Il tempo divenne instabile, tuttavia attaccarono ugualmente e si spinsero oltre la traversata obliqua, lungo la quale fissarono una corda. Con questo successo si ritennero soddisfatti per un primo approccio e, malgrado fossero stati sorpresi da un temporale, ritornarono indietro allegri e sicuri.
Ma quel temporale doveva costituire solo il preludio di un periodo prolungato di brutto tempo che li tenne forzatamente lontani dalla parete. Per non lasciar passare il tempo inutilmente, durante una giornata di bel tempo, fecero la via Welzenbach-Merkl alla parete nord del Fiescherhorn.
Dai loro preparativi e dalla loro prudenza in parete, si poteva essere certi di trovarsi questa volta di fronte a due alpinisti di provata esperienza e all’altezza del compito prefisso. Infatti Wiggerl Vörg apparteneva all’élite degli scalatori monacensi, e inoltre in occasione di due spedizioni al Caucaso, nelle quali aveva scalato da secondo, con Ludwig Schmaderer, la parete ovest dell’Uschba, aveva acquistato una splendida esperienza di ghiaccio. Il tirolese Hias Rebitsch era uno dei più grandi scalatori del tempo e aveva compiuto le imprese più difficili sia su roccia che su ghiaccio.
Passarono frattanto tre settimane, durante le quali riposarono sotto la loro tenda ad Alpiglen, preparandosi a un altro tentativo. In due tappe trasportarono i loro voluminosi zaini fino oltre la traversata obliqua che percorsero rapidamente, avendo lasciato una corda fissa durante il loro primo tentativo. E battezzarono il passaggio Traversata Hinterstoisser.
Naturalmente tutti i cannocchiali e i binocoli dei dintorni vennero puntati su eli loro, e ogni loro passo fu osservato, commentato, criticato. Rebitsch e Vörg allestirono il loro primo bivacco in una nicchia, dopo una traversata, e grazie ai materassini di gomma e ai sacchi da bivacco che si erano portati, trascorsero una notte eccellente. Ripartirono il giorno seguente freschi e riposati. Ma anche loro si erano notevolmente ingannati circa le dimensioni del nevaio pensile. Le cinque lunghezze di corda diventarono venti, e al posto dell’ora preventivata ne servirono cinque per superare il nevaio mediano. Vörg, mentre scavava i gradini nel ghiaccio duro, ruppe la piccozza e fu costretto a continuare con il martello da ghiaccio, pessimo surrogato.
Ora dovevano superare la fascia di rocce tra il secondo e il terzo nevaio. L’acqua scorreva a torrenti lungo i tratti normalmente più accessibili e persero così parecchio tempo nella vana ricerca d’una via di salita. Finalmente Rebitsch s’ingegnò lungo un passaggio oltremodo difficile sotto una cascata d’acqua. Lì scoprì un vecchio chiodo con un laccio di cordino, abbandonato dai loro predecessori.
Completamente presi dalla lotta con la parete, non si erano accorti che nuvoloni neri avvolgevano di nuovo la montagna. Si sentirono presi dal terrore. Sarebbero stati anche loro costretti alla ritirata? Non avevano ancora neppure raggiunto la base della parete finale che si ergeva per 650 metri sopra il loro capo.
Dovettero ancora salire per 100 metri lungo rocce rotte e scoscese, fino al punto in cui Mehringer e Sedlmayer erano stati visti per l’ultima volta. Erano preparati a trovare il cadavere di Mehringer, ma non scoprirono altra traccia che due chiodi in parete. Da lì però dovevano da soli trovare l’ulteriore via di salita. Dapprima si arrampicarono lungo la perpendicolare diretta alla cima, ma ben presto si resero conto dell’impraticabilità di un tale tracciato o almeno dell’impossibilità di procedere rapidamente lungo di esso, e tornarono indietro. Allora cercarono di attraversare a sinistra verso una curiosa rampa. Ma durante la traversata furono sorpresi da una tale cascata che dovettero rapidamente ritirarsi.
Allestirono il loro bivacco sul posto dove avevano trovato i due chiodi e, battendo i denti, aspettarono l’alba. Vana si dimostrò la loro speranza in un miglioramento del tempo. Attesero ancora per qualche tempo ma improvvisamente, in uno squarcio di nebbia, scorsero un mare di nuvole nere che avanzavano da ovest. Non c’era più da esitare, la ritirata venne subito iniziata.
Scesero per tutto il giorno, con gli abiti bagnati, lasciandosi scivolare lungo la corda irrigidita dal gelo, sotto la minaccia continua di scariche di sassi e di valanghe e alle cinque pomeridiane raggiunsero il posto del loro primo bivacco, alla fine della traversata Hinterstoisser.
Le giornate erano lunghe, avrebbero potuto facilmente compiere la traversata, data la corda che garantiva il ritorno alle rocce del Roten Flüh, e scendere ancora per un bel tratto. Ma l’idea che il tempo avrebbe potuto ancora migliorare, li spinse a bivaccare nuovamente in quel posto.
Durante tutta la notte parlarono della tragedia che l’anno prima si era svolta a pochi metri dal terrazzino su cui si trovavano. Se quei poveretti avessero pensato a fissare una corda lungo la traversata…!
L’indomani il tempo era di nuovo scoraggiante, e non c’era altro da fare che affrettarsi a uscire al più presto dalla parete. Pioveva a torrenti e le discese in corda doppia vennero effettuate sotto cascate d’acqua. Da molto tempo avevano tagliato i loro calzoni in fondo per facilitare l’evacuazione dell’acqua che entrava direttamente dalla giacca a vento. Scesero per l’intera giornata e finalmente di sera raggiunsero la base della parete.
La gioia di essersi salvati fece loro dimenticare la delusione dell’insuccesso. Erano infatti i primi a essere ritornati vivi da un tentativo, dopo cento ore di parete! Inoltre avevano dimostrato che, usando i dovuti accorgimenti e le precauzioni necessarie, era possibile vincere l’Eigerwand. Le difficoltà tecniche non costituivano da sole un ostacolo insormontabile.
Qualche settimana dopo mi feci raccontare da Rebitsch, uno dei miei migliori amici, il tentativo fin nei minimi particolari. Una cosa sembrava sicura: nel 1938 anche quest’ultimo grande problema delle Alpi avrebbe dovuto essere risolto e, per conto mio, ero deciso a dedicarvi tutte le mie forze.
Ora racconterò la storia della nostra impresa vittoriosa, così come la scrissi dieci anni fa sotto l’impressione ancora viva degli avvenimenti.
La soluzione del problema
Eccomi per alcuni giorni inoperoso al rifugio Gaudeamus nel Wilder Kaiser, in attesa di Ludvig Vörg, con cui voglio unirmi quest’anno per il grande tentativo. Infatti l’Eigerwand verrà ancora attaccata e questa volta, speriamo, vinta. Il numero delle vittime è già troppo elevato e il loro sacrificio non deve risultare vano.
Non solo dobbiamo allenarci per essere fisicamente e psicologicamente pronti per il tentativo, ma vogliamo anche rinforzare la nostra volontà, che solo unita a una cosciente serenità ci potrà permettere di impegnarci a fondo. Infatti lo scalatore che affronta le incognite d’una prima salita deve innanzi tutto possedere nervi d’acciaio. Uno sguardo improvviso nel vuoto di mille metri non deve procurargli la minima emozione. Il Wilder Kaiser, soprannominato l’Università degli scalatori, è indubbiamente il gruppo più adatto per un allenamento del genere. Solo con la tecnica più raffinata e la piena efficienza fisica, e del sistema nervoso, si può venire a capo delle sue pareti che s’innalzano con indomito slancio verticale per quattro o seicento metri.
Perciò le abbiamo scelte, e qui aspetto Vörg: ma quel bel tomo non si fa vedere. Così posso aiutare i miei amici di Kufstein a trasportare sulle varie cime i carichi di legna per accendere i falò in occasione della festa del Solstizio. Passa lunedì, martedì… neanche l’ombra di Vörg; eppure avrebbe dovuto essere qui già da tempo, secondo il nostro appuntamento. In verità non conoscevo nemmeno personalmente Vörg.
Un po’ deluso, compio qualche facile escursione.
Avevo avuto occasione di notarlo durante i campionati bavaresi di sci del 1929. Era allora un simpatico giovanotto di circa 16 anni, e da quella volta non l’avevo più rivisto. In ogni caso con l’andare del tempo avevo spesso sentito parlare di lui, sia da amici comuni, sia tramite la letteratura alpinistica. Ma non ero ben certo che si trattasse sempre del giovane conosciuto allora e non di qualcun altro.
In un primo tempo ero venuto a sapere da Rebitsch che Vörg era stato scelto per far parte d’una spedizione extraeuropea nell’Hindukush. Mi ero quindi messo d’accordo con Rebitsch di unirmi a lui per un tentativo comune all’Eigerwand. Ma poi Rebitsch era stato a sua volta invitato a prendere parte alla spedizione al Nanga Parbat e, dandomene notizia, mi aveva espresso il suo grande rammarico di dover rinunciare all’impresa concertata insieme. Ma chi avrebbe esitato di fronte al tentativo di scalare una delle più alte cime del globo?
Mi scrisse anche di mettermi in comunicazione con Vörg, dato che la faccenda dell’Hindukush sembrava tutt’altro che definita. Lo feci e infatti egli rispose subito che si sarebbe ben volentieri unito a me, nel caso la spedizione all’Hindukush non avesse avuto luogo. Così avvenne, e ci mettemmo quindi d’accordo – naturalmente sempre per corrispondenza! – di trovarci in un determinato giorno sul Wilder Kaiser per allenarci insieme.
Ormai ero già quasi da una settimana al rifugio e non sapevo ancora nulla di Vörg. Che fare? Innanzitutto qualche scalata, pur essendo solo. Affronto allora la Karlspitze, godendo in pieno la salita per lo spigolo sud, formato da una serie di risalti. Di sera torno giù pigramente in rifugio, dove due alpinisti stanno guardandomi arrivare, con l’aria di aspettare qualcuno. Ambedue piuttosto piccoli, l’uno magro, l’altro grassoccio.
Eppure c’è qualcosa, in quello più grasso, che lo definisce scalatore capace di superare le massime difficoltà. Dev’essere proprio Wiggerl Vörg! Infatti è lui. La presentazione è breve e cordiale. L’altro è suo fratello. È subito come se ci conoscessimo già da anni. Ma contemporaneamente ci studiarne a lungo, guardandoci negli occhi, ognuno seguendo i propri pensieri.
Abbiamo inteso parlare troppo l’uno dell’altro, per avere ancora il minimo dubbio reciproco sulle nostre persone, eppure è una cosa un po’ particolare il vedersi di fronte l’uomo con cui ci si vuole legare per la vita e per la morte. La sera stessa giungono ancora un paio di compagni di Monaco. Ma i nostri progetti rimangono strettamente segreti e solo mamma Maria, la custode del rifugio Gaudeamus, ne è a conoscenza, o meglio li indovina, e perciò ci circonda con attenzioni di ogni genere. Rimaniamo lì quattordici giorni, compiendo una quantità di scalate. Non ci incordiamo mai insieme, ma ci arrampichiamo sempre sulle medesime pareti, ognuno con un compagno diverso. Solo l’ultimo giorno, per la salita più difficile, la Est delle Karlspitze, ci leghiamo insieme in cordata. Non ho mai avuto un compagno così diverso da me, e con cui vado così d’accordo come Wiggerl Vörg! Questo sarà un fattore non indifferente nella nostra vittoria.
Stabiliamo di partire il 10 luglio per la Svizzera. Già una settimana prima ci ritroviamo a Monaco, dove ultimiamo i preparativi, specialmente per quanto riguarda l’equipaggiamento. In ciò risulta preziosissima l’esperienza fatta l’anno precedente da Wiggerl in parete e da me nelle scalate sulle Occidentali. Contrariamente a quanto fatto nei tentativi precedenti e ai nostri primi progetti, prepariamo l’equipaggiamento come se l’Eiger fosse prevalentemente una parete di ghiaccio, e non una parete di roccia, rotta qua e là da nevai pensili. La cosa più importante è che ci procuriamo ramponi e chiodi da ghiaccio in quantità maggiore di quella dei chiodi da roccia.
Tutti i nostri predecessori avevano fatto il contrario; siamo i primi a rovesciare questa abitudine e a munirci di una quantità di chiodi da ghiaccio pari al doppio di quelli da roccia, e di ogni dimensione, dai 15 ai 40 centimetri.
Per i proprietari della ditta di articoli sportivi Schuster, la destinazione di tutto quell’equipaggiamento specializzato fu subito chiara, ma si comportarono con discrezione, non fecero domande imbarazzanti e si dichiararono pronti a procurarci tutto il materiale speciale di primissima qualità.
A Monaco un mio cugino mise la sua stanza a nostra disposizione. Lì raccogliemmo ogni cosa, finché ci sentimmo terrorizzati all’idea di portare su tutta quella roba. Finalmente venne il momento di partire. Non volevamo mostrarci in Svizzera come scalatori, e perciò imballammo tutto nei bauli, compresi gli zaini e i sacchi di riserva. L’anno precedente, infatti, non era stato piacevole essere subito riconosciuti per candidati all’Eigerwand. Riempimmo così ben quattro bauli. Quello contenente il materiale di ferro pesava da solo un quintale. Solo le piccozze non si potevano impaccare in nessun modo e costituivano un bel rompicapo; alla fine ci rassegnammo a tenerle in mano.
Fedeli al nostro programma partiamo il 10 luglio. Questa volta abbiamo fissato a bella posta la data in stagione avanzata. Infatti so da esperienze precedenti che in giugno e al principio di luglio i camini si trasformano in cascate e che valanghe e scariche di sassi spazzano la parete con ritmo tale da non permettere neppure di pensare a una salita. Vogliamo accorciare il più possibile il periodo dell’assedio, così deprecabile per i nervi. Anche per questo abbiamo iniziato tanto tardi l’allenamento.
La nostra opinione trova purtroppo una triste conferma: due italiani, Bortolo Sandri e Mario Menti, avendo attaccato l’Eigerwand in giugno, cadono vittime d’una tempesta.
Ma non è facile mantenere quanto prefissato, visto che già al rifugio Gaudeamus veniamo a sapere da Grindelwald che quattro viennesi tra cui Fritz Kasparek ed Heini Harrer, che ben conosciamo di fama, si trovano ai piedi dell’Eiger e assediano la parete. Pure non ci inquietiamo, e rimaniamo fedeli al piano stabilito. E se i nostri progetti dovessero fallire e la prima salita non sarà la nostra, vorrà dire che il destino ha stabilito così. Perciò teniamo duro con un’ostinazione di cui noi stessi, più tardi, proveremo meraviglia.
A Monaco il babbo e il fratello di Vörg ci accompagnano alla stazione. Il padre, vecchio alpinista, deve provare un ben strano sentimento vedendo partire il figlio, conoscendo il suo pericoloso progetto e la sua ferma decisione.
A Zurigo passiamo la notte da un mio amico svizzero. Il giorno seguente ci procuriamo generi alimentari speciali per ascensioni, che si trovano più facilmente in Svizzera che non in Germania, e materiale sanitario, specialmente ovatta termogena. Si tratta di un’ovatta d’un color rosa vivo che i reumatici applicano sulle parti malate, e che brucia la pelle come fuoco. Dove c’è fuoco, non ci può essere né gelo né congelamento – ho pensato – e seguendo alla lettera i consigli benintenzionati di un’amica, ne compero un gran pacco.
Il primo giorno in Svizzera è stato piovigginoso e non abbiamo quindi fretta di proseguire; e così solo due giorni dopo lasciamo Zurigo ed entriamo in Grindelwald il pomeriggio del 12 luglio.
La vista è chiara. Il primo sguardo corre alla parete. È ancora maledettamente bianca. Impossibile che qualcuno stia già scalando! È come se ci liberassimo d’un gran peso, perché ora ci troviamo nelle stesse condizioni degli altri rivali. Inoltre abbiamo il vantaggio d’essere appena usciti da un buon allenamento, di conoscere la parete meglio di ogni altro, e di possedere un equipaggiamento speciale, frutto di approfondito studio e di ripetute esperienze.
Tutto questo fa nascere in noi una grande certezza. Siamo solo un po’ a corto di franchi, ma questo infine non è poi un gran male. Alla peggio, abbiamo alcuni buoni conoscenti, ma non vogliamo disturbarli a meno di un’estrema necessità, e perciò ci rechiamo nella modesta pensioncina in cui Wiggerl ha già alloggiato l’anno precedente. Stabiliamo così il nostro quartier generale a Grindelwald presso la dottoressa Belart, che non solo ci promette in ogni caso la sua utilissima assistenza sanitaria, ma ci accoglie anche con il più schietto e caldo cameratismo.
Naturalmente ci sentiamo subito spinti verso la “nostra” parete. Nello stesso posto in cui l’anno precedente Rebitsch e Vörg avevamo istallato la loro tenda, rizziamo anche noi la nostra. Si scorgono ancora i canali che hanno scavato intorno ai teli durante la pioggia, e ritroviamo ancora intatte le grandi pietre piatte che sono servite da base.
In un attimo Wiggerl drizza la tenda mentre io mi dedico al rifornimento di legna. Dapprima non prendo in considerazione i ramoscelli che si trovano in grande quantità all’intorno, ma trascino grossi rami e tronchi interi. Incomincio a tagliarli con selvaggia energia a gran colpi di piccozza, con il risultato che dopo cinque minuti il manico si rompe a metà volando via lontano. Devo avere un’espressione alquanto stranita e Wiggerl mi fissa sogghignando con uno sguardo quanto mai eloquente. Così non possiamo attaccare l’indomani. Per fortuna abbiamo una terza piccozza di riserva, ma dobbiamo andare a Grindelwald a prenderla. Questo ritardo in fondo non giunge del tutto sgradito, perché ci accorgiamo che ci mancano ancora diverse cosette. Tra l’altro ci siamo completamente scordati delle posate, e mangiare con le dita risulta un po’ scomodo, specialmente quando cuciniamo fiocchi d’avena… Il tempo inoltre non è come avremmo desiderato, e perciò lasciamo passare volentieri ancora un paio di giorni.
A Grindelwald incontriamo uno degli scalatori viennesi di cui abbiamo sentito parlare già al rifugio Gaudeamus, e ci racconta come Kasparek e Harrer si trovino ancora sul posto, anzi, siano saliti proprio ora per una ricognizione in parete. Perciò ci affrettiamo a riguadagnare la nostra tenda. Ma il giorno dopo piove di nuovo. Ci siamo coricati alle sette di sera, e alle 10 della mattina successiva siamo ancora addormentati. E mentre la pioggia picchia sulla nostra tenda con rumore piacevole (piacevole, voglio dire, perché sappiamo così che neanche gli altri possono far niente in parete, e quindi ci è lecito voltarci tranquillamente sull’altro fianco e riaddormentarci), la fame ci fa uscire dai nostri caldi sacchi di piuma.
Del resto dormiamo più volentieri sotto la tenda che nel più bell’albergo, perché abbiamo materassi di gomma e meravigliosi sacchi piuma. Perciò ci sentiamo più comodi che nel migliore dei letti.
Dopo la prima colazione, siamo invasi da un’inspiegabile febbre d’attività. Malgrado la pioggia, incominciamo a lavorare al nostro accampamento. Per proteggere i nostri vestiti dall’acqua ce li togliamo riponendoli sotto la tenda, e corriamo su e giù nudi come indiani. E dato che in questa “tenuta” sentiamo presto i morsi del freddo, ci mettiamo a lavorare come matti per riscaldarci. Innanzi tutto approfondiamo i canali intorno alla tenda, e finiamo col farli così profondi da dover usare un ponticello per rientrarvi. Wiggerl trasporta grandi pietre lisce che io colloco tutt’intorno con arte sopraffina. E non essendo ancora soddisfatti del piazzale innanzi alla tenda, lo pavimentiamo con grandi pietre piatte. In mezzo piantiamo erbe e fiori alpini, ottenendo alla fine un magnifico terrazzo.
Nelle vicinanze scopriamo una zona di terreno paludoso, con il bacino di un’antica fontana. Per prima cosa decidiamo di fare subito un bagno. Prosciughiamo poi la palude con un sistema di canalizzazione, su cui gettiamo alcuni rami e pietre piatte a guisa di ponticello. Dopo un simile lavoro scopriamo d’essere piuttosto sporchi; pieni di fango da capo a piedi e anche insanguinati, dato che non abbiamo compiuto tutta questa opera artistica senza il naturale contributo di graffi. Questa è un’ottima scusa per consacrare il nostro desiderio di libertà e i nostri bagni di luce. Poi cuciniamo e ci ristoriamo. Frattanto s’è fatto scuro, e così strisciamo stanchi sotto la tenda.
Domenica 17 luglio il tempo comincia a schiarirsi, ma grosse nuvole ricoprono ancora la parete. Un buon segno, quando la schiarita non è improvvisa! Il lunedì scendiamo ancora a Grindelwald, essendoci accorti che ci manca ancora qualche provvista. Al ritorno troviamo nuovamente uno dei viennesi mentre sta studiando proprio il bollettino meteorologico. Ci racconta che, avendo saputo della nostra presenza, Kasparek e Harrer sono partiti il giorno stesso per attaccare la parete.
Rompiamo ogni indugio. Risaliamo subito al nostro accampamento e stabiliamo il piano d’attacco. Primo, mangiare bene; secondo, dormire profondamente; terzo, partire verso mezzogiorno.
Seguiamo a puntino questo piano. Alle dieci ci alziamo, io mi metto a cucinare e Wiggerl raduna accuratamente il materiale da portare: 30 chiodi da ghiaccio, 20 chiodi da roccia, 14 moschettoni, 2 piccozze, una lunga e una corta, un martello-piccozza, un martello da roccia, ramponi, 2 corde Litzner da 30 metri, 2 cordini doppi di 30 metri, un fornello, un litro di benzina, un pacco di meta, bende, pedule da roccia, 2 paia di calze ciascuno, 2 sottoabiti, 2 pullover, una camicia di riserva, 2 eschimi, sovrapantaloni, passamontagna, fascette copricapo, maschere protettive, 2 paia di guanti. Senza contare i sacchi da bivacco e il pacco di ovatta termogena, che pur non pesando nulla è spaventosamente voluminoso.
E ancora una Contax, contro cui protesto vivamente, perché non voglio perdere tempo a far fotografie. Ma Wiggerl controbatte che le fotografie saranno documenti preziosissimi. Mi lascio convincere a patto che l’apparecchio sia il primo oggetto ad essere gettato se la situazione diventerà seria e il peso in più imbarazzante. Wiggerl si dichiara d’accordo. La questione delle provviste si rivela ancora una volta scabrosa, un vero rompicapo. Passiamo in rivista tutte le soluzioni possibili e le dibattiamo ripetutamente. Alla fine ci pare di avere trovato quella giusta. Innanzi tutto alimenti liquidi da riscaldare: cioccolata, caffè, tè, ovomaltina, latte condensato zuccherato e non zuccherato, zucchero in quadretti, zucchero d’uva, speciale destro-energetico, keks, pane, lardo affumicato e sardine all’olio. Wiggerl è contrario a queste ultime. Per mia sventura insisto, e in parete dovrò pagare per questa mia ostinazione.
Nel contempo scrutiamo costantemente la montagna. A mezzogiorno mangiamo ancora quanto è possibile inghiottire e mezz’ora più tardi siamo pronti per partire.
Sento un brivido di terrore quando sollevo lo zaino: 20 kg almeno! E quello di Wiggerl non è certo più leggero. Mi sembra quasi impossibile poter scalare così, ma dato che non possiamo certo andare senza, saliamo lentamente gli erti pendii sotto il nevaio che porta in parete. Già qui dobbiamo fermarci un paio di volte per riprendere fiato.
Il mio morale è sotto zero, perché non mi va di dovermi arrampicare con lo zaino. Wiggerl invece l’aveva già provato: “Dopo il primo bivacco il peso diminuirà sensibilmente perché indosseremo tutti i vestiti per la notte e dopo non ce li leveremo più. Inoltre ci si abitua…”.
Il nevaio si innalza molto ripido, ed è indurito dalle valanghe precipitate. Ciò ci rallegra moltissimo perché ci dà occasione di calzare subito i ramponi, alleggerendo così il nostro carico.
Strada facendo Wiggerl mi racconta di un camino con un masso incastrato, proprio alla fine della lingua di neve che conduce alla parete. Ma ora non si vede né camino, né blocco, ma solo una ripida fessura imbottita di neve, e perciò pensiamo di trovare la parete più innevata di quanto lo fosse l’anno scorso alla stessa epoca.
Per il momento questo è un bene, perché con i nostri ramponi saliamo rapidamente. Da sinistra (nel senso della salita) raggiungiamo dopo 300 metri il primo pilastro, e da lì dobbiamo continuare per la roccia che si presenta più o meno gradinata a terrazzi. Già troviamo un pezzo di piccozza caduto giù, e qualche metro più in là uno zaino lacerato, e subito al disopra altri oggetti.
Non facciamo speciali ricerche, perché ben sappiamo che in parete ci devono essere ancora due cadaveri. Infatti solo uno degli italiani è stato recuperato, e anche Karl Mehringer non è stato ancora ritrovato. Non vogliamo disturbare quei morti dalla loro pace, anche per non perdere di conseguenza la nostra. Ma stabiliamo, una volta scalata la parete, di ritornare qui e di ricercarli. Purtroppo non potremo realizzare questo progetto.
Frattanto abbiamo raggiunto il secondo pilastro arrotondato. Già da tempo ci siamo tolti i ramponi. Ora però la roccia si fa più dura, e cominciamo a sentire il peso degli zaini. Al passaggio d’un piccolo strapiombo cerchiamo di tirarli su con la corda. Alla prova dei fatti questo sistema si rivela assai complicato e ci fa perdere un mucchio di tempo.
Al disopra del pilastro troviamo una piccola caverna. All’interno ci sono due zaini gonfi con sopra un cartello: “Proprietà di Kasparek e Harrer; si prega di non toccare!” In quel momento siamo certi che sono sotto di noi.
“Saliamo ancora per un paio di lunghezze di corda, e domani potranno pure correrci dietro!”.
Ma i tratti successivi non sono affatto comodi. Dal secondo nevaio viene giù una cascatella, e inoltre non troviamo nessun posto conveniente per un bivacco. Perciò torniamo indietro fino alla cavernetta per passarvi la notte. Anche qui gocciola di continuo, ma Wiggerl dichiara: “Cesserà non appena farà abbastanza freddo!”
Per dire il vero fa già freddo, ma malgrado ciò continua a gocciolare. Mi sono incastrato proprio in fondo, dove l’acqua cola giù più allegramente, e inoltre un sasso mi martirizza la schiena. Wiggerl sta coricato slegato, sull’orlo. Perciò, non oso neppure muovermi e tanto meno voltarmi, nel timore di urtare anche leggermente il mio compagno, facendogli perdere l’equilibrio e precipitare nel vuoto. Così la nostra prima notte in parete non è delle più piacevoli, dato che il continuo gocciolio sulla faccia e giù per la schiena mi diventa ben presto insopportabile. Saranno circa le 4 del mattino quando ci sgranchiamo le membra e riscaldiamo il caffè. Il nostro morale non è molto alto e il tempo non è per nulla incoraggiante. All’orizzonte l’alba fiammeggia fosca e neri nuvoloni pesciformi appaiono in cielo.
“Guarda un po’ l’altimetro.”.
“Dio santo, è sceso di sessanta metri!”.
Ciò significa che il barometro è caduto di due punti. Ci sentiamo sempre più sfiduciati. Prudentemente Wiggerl incomincia: “Non ho molta voglia di essere costretto a una ritirata…”.
Anch’io ammetto di non trovarci nessuna attrattiva. Dovremmo poter contare su un periodo prolungato di bel tempo, per poter andare sicuri. Un nostro proverbio dice: “Quando nel cielo nuotano i pesci piove di sicuro entro 24 ore”. Dando retta a questo vecchio detto decidiamo di impaccare tutto negli zaini, di lasciarli qui, e di tornare in basso.
I sacchi sono ormai chiusi e noi pronti a incominciare la discesa quando improvvisamente, a sinistra del pilastro, spunta un uomo su un nevaio laterale. E subito dietro un altro. Grido non molto allegramente: “Hei-jo!”.
Con lo stesso grido uno degli scalatori mi risponde. Sono Kasparek e Harrer. Non ci eravamo mai visti e perciò la reciproca presentazione è un po’ formale: “Harrer – Vörg – Kasparek – Heckmair…”.
“Piacere. Piacere…”.
“Avete bivaccato?”.
“Sì, ma non bene”.
Passiamo alla controffensiva: “Attaccate la parete?”.
“Già! Tanto, una volta o l’altra, bisogna pur farlo. Siamo rimasti cinque settimane giù in una stalla, e ora non abbiamo più che mezzo franco. Il tempo dovrebbe rimanere bello, e quindi andiamo!”.
“Il nostro barometro è precipitato; e non mi pare che il tempo possa tenere a lungo…”, osservo.
Kasparek risponde ostinato: “Una volta o l’altra la parete dovrà pur essere scalata, noi andiamo!”.
“Cosa pensi?” mi chiede Wiggerl.
Ed ecco improvvisamente spuntare una seconda cordata, formata dal viennese Rudolf Fraissl, che già conosciamo, e da Leo Brankovsky.
“Andate assieme?”, chiedo.
“No, ogni cordata è indipendente!”.
Stiamo tutti e sei in piedi a guardarci, e ridiamo un po’ forzatamente per questa situazione comica. Ma il caso non è poi così strano, ed è naturale che nei primi giorni di bel tempo, tutte le cordate che stanno in agguato, si incontrino.
Non mi meraviglierei se improvvisamente apparissero altri concorrenti. Infatti abbiamo saputo che nella regione si trovano anche alcuni scalatori italiani, che costituiscono una concorrenza tutt’altro che trascurabile. Ma ci basta vedere le due cordate per rafforzare la nostra decisione di ritirarci.
Sei uomini – fossero pure i migliori tra i migliori – si intralciano reciprocamente e aumentano i pericoli oggettivi in modo da provocare quasi inevitabilmente una catastrofe. L’intervallo tra il primo e l’ultimo verrebbe a essere sei volte una lunghezza di corda, cioè dai 150 ai 200 metri. Questo farebbe perdere troppo tempo per muoverci in sicurezza, tempo che non potrebbe mai più essere riguadagnato. Non è infatti possibile che il capocordata attacchi un passaggio veramente difficile, prima che l’ultimo sia giunto al sicuro. Infine è meglio che due cordate procedano verso la vittoria che tre verso una sicura sciagura.
Dato che avevamo già stabilito di scendere, dichiariamo: “Beh, succeda quel che deve succedere, noi scendiamo.”
Non senza aver assicurato ai compagni che in ogni caso possono contare sul nostro aiuto, in caso di bisogno.
In segreto, crediamo alle nostre previsioni meteorologiche e pensiamo che anche gli altri saranno ben presto costretti a ridiscendere. Ma durante la nostra ritirata il tempo diventa sempre più bello e la nostra faccia sempre più lunga. Alle dieci siamo nuovamente seduti sull’erba sotto la parete, coscienti che lì sopra i nostri concorrenti sono all’opera. Wiggerl è scoraggiato e disperato. Non mi ode neppure quando parlo. A me pare che questo sia un colpo mancino del destino, pure continuando a pensare che noi ci siamo comportati nel modo migliore.
Dato che ormai ci troviamo giù, decidiamo di scendere fino ad Alpiglen, e di seguire col cannocchiale i progressi delle due cordate. Rapidamente ci cambiamo nella nostra tenda, e ben presto siamo davanti al telescopio di Alpiglen, circondati da uno sciame di gente incuriosita, che non dice certo cose particolarmente giudiziose.
Una signora pontifica: “Già ieri li ho visti mentre salivano” (Quelli eravamo noi, dato che per caso nessuno s’è accorto della nostra discesa). Un altro, ergendosi a corifeo, specifica più impaziente: “Sono candidati alla morte! Oggi sono là, domani giungeranno fino lì, e poi saranno perduti perché non avranno più viveri e non potranno più tornare indietro…”.
“Ma non possono trovare delle bacche per nutrirsi?” chiede una signora allarmatissima. Questo e altro ci tocca sentire, e spesso ci viene da ridere, dimenticando la gravità della situazione. Quindi ci facciamo avanti e ci accorgiamo che la prima cordata procede in modo stranamente lento. In quanto alla seconda non la scorgiamo neppure. Questo ci sorprende e dopo un’ora di ulteriore osservazione, ne siamo certi: per un motivo ignoto, gli altri sono ridiscesi!
Questa constatazione è per noi come una corrente elettrica attraverso le membra. “Ma allora possiamo inseguirli, in quattro ce la faremo!”
Rapidamente telefoniamo a Grindelwald per sapere le previsioni del tempo. La riposta è: “Zona di bassa pressione sul Baltico e sulle isole Britanniche”. Non c’è da spaventarsi per questo; le condizioni atmosferiche del momento rimangono quindi buone. A quel punto non abbiamo più dubbi: bisogna di nuovo salire.
Farei un salto mortale dalla gioia! Pranziamo lautamente dalla buona padrona della trattoria di Alpiglen che conosce, ma non ha tradito, il nostro segreto. Un bicchierone di birra ristabilisce definitivamente il nostro buon umore. Ancora uno sguardo al cannocchiale: Kasparek sta salendo dal primo al secondo nevaio, scalinando con furore selvaggio: probabilmente non ha ramponi a dodici punte e deve quindi intagliare gradino per gradino tutto il ripidissimo colatoio di ghiaccio. Un lavoro quanto mai faticoso, lungo e ingrato! Per noi è una gran bella cosa, perché così non avranno un vantaggio troppo grande.
Wiggerl vuole attaccare e bivaccare in alto nella caverna. Ma ricordandomi della notte già trascorsa in quel buco, rabbrividisco e protesto vivamente, ritenendo prematura una partenza immediata. Alla fine acconsente a rimanere giù, a condizione di alzarci e di attaccare a mezzanotte.
Cedo ipocritamente e mi incarico della sveglia per l’ora fissata.
“A mezzanotte? Si vede che non mi conosci ancora bene! Alle due, sarà più che sufficiente!”
Già una volta ero andato a mezzanotte all’attacco di una grande parete, e in quell’occasione eravamo rimasti seduti all’attacco nell’oscurità, tremando per il freddo, finché si era fatto chiaro. Ed ora voglio evitare questa esperienza.
Dormiamo l’intero pomeriggio nei nostri morbidi sacchi piuma, fuori dalla tenda, all’ombra di un albero meraviglioso. Raramente mi sono sentito così bene. Proviamo una grande fiducia. Piacevolmente satolli, e con la coscienza d’aver ormai superato tutti gli ostacoli d’ordine psicologico, ci stiriamo e ci rivoltiamo nei nostri sacchi. Alle sei di sera consumiamo una lauta cena. Per ultimo apriamo persino la scatola di ananas che era stata destinata ai festeggiamenti per la vittoria. Infatti ci diciamo: la nostra vittoria non è poi così sicura. Gli ananas hanno un buon sapore, ora che siamo vivi, perché d’altro canto, se dovesse andar male, li mangerebbero altri!
Alle sette ci corichiamo sotto la tenda e ci addormentiamo subito. È proprio una cosa stupefacente e un buon segno della saldezza dei nostri nervi, questo sonno immediato e profondo! Mi sveglio verso metà della notte. Le due in punto. E ora via!
La notte è fresca e chiara. Subito i nostri sguardi si puntano sulla parete pallida. In quell’attimo s’accende una luce tra le rocce sotto il secondo nevaio e subito si spegne. Come verremo poi a sapere, i compagni hanno acceso il fornello per riscaldarsi il tè.
La nostra colazione è presto pronta. Cacao e latte condensato; sorbiamo ciascuno sei uova crude, dopo averle leggermente riscaldate. Ci danno tanta forza che i muscoli scattano come molle. Alle 2.45 lasciamo la tenda con una lanterna a candela.
Per fortuna conosciamo così bene la via, da trovarla anche nell’oscurità. Non sgarriamo d’un metro. Quando raggiungiamo il nevaio, albeggia. Nascondiamo la lanterna sotto un masso (dove probabilmente si trova ancora oggi, perché non siamo mai tornati a riprenderla), e quando raggiungiamo le rocce è ormai giorno fatto; guadagnarne quota rapidamente e con facilità. Alle 4.30, con in spalla gli zaini, ci leghiamo, calziamo le pedule, e dividiamo chiodi e moschettoni.
“Ora la cosa si fa seria, si va in parete!”.
In ogni caso gli zaini sono sempre abbastanza pesanti, anche se abbiamo abbandonato qualcosa e in particolare chiodi e moschettoni, pensando che anche gli altri due devono essere attrezzati a sufficienza. Finora per noi la cosa è stabilita: non si tratta più di concorrenza, ma di compagni di una stessa cordata.
La fessura che porta alla traversata Hinterstoisser è così difficile che per salirla da primo devo cavarmi lo zaino, benché il mio compito risulti notevolmente facilitato dai chiodi piantati dalla precedente spedizione di soccorso.
C’è anche una vecchia corda che pende dall’alto; ma il suo aspetto logoro non invita certo a usarla. Il recupero del sacco, come già il giorno precedente, costa tempo e fatica. Tiro lo zaino e quello s’impiglia. Tiro nuovamente fino a far diventare la corda più sottile; non viene. Solo quando Wiggerl sale a sua volta e lo libera con una testata, riesco a recuperarlo. Decidiamo di evitare il più possibile quella manovra e, giunti su terreno più facile, riguadagniamo parecchio tempo.
La traversata Hinterstoisser, che fu fatale ai quattro nel 1936, si fa generalmente sotto una cascata d’acqua; ora è quasi asciutta, ma in gran parte ricoperta da vetrato. C’è sempre la corda fissa su cui Rebitsch e Vörg s’erano assicurati la ritirata. Risparmiamo così tempo e fatica, benché sia assai rischioso servirsi d’una corda vecchia; ma mi sono assicurato ancora con un chiodo, cosicché se la vecchia corda cui mi afferro si rompesse, non precipiterei, ma farei tutt’al più un pendolo.
Calziamo sempre le pedule perché nella traversata Hinterstoisser la roccia asciutta s’alterna col vetrato. I piedi scivolano senza remissione sul ghiaccio, e bisogna usare le ginocchia e ogni possibile superficie d’attrito per superare quei tratti. Perciò ci sembrano relativamente facili le rocce che portano al primo nevaio. Lo raggiungiamo alle otto di mattina.
I gradini intagliati il giorno prima non ci sono più, perché nel pomeriggio si sono riempiti dell’acqua dello sgelo, che di notte poi s’è nuovamente indurita cancellando così ogni traccia. Ma non ci importa granché, perché con i nostri ramponi a dodici punte non abbiamo bisogno di gradini. Solo a ogni lunghezza di corda scaviamo un piccolo terrazzino con la piccozza, perché la salita, a quel ritmo, sulle sole punte anteriori dei ramponi, stanca terribilmente i polpacci.
Spesso Wiggerl ruggisce esultante: “Zona pericolosa!” e si slancia verso alto con l’impeto di un bisonte.
Adopero per la prima volta i ramponi a dodici punte. È per me fonte di meraviglia constatare come tengano e quanta sicurezza offrano anche salendo verticalmente sul ghiaccio più duro. Dopo pochi minuti abbiamo già alle spalle il primo nevaio.
Per accedere al secondo si può salire per uno stretto colatoio di ghiaccio, o lungo una placca di rocce nere e verticali. Scegliamo la seconda soluzione.
Di nuovo ci caviamo i ramponi, leghiamo lo zaino alla corda, e la parete non ci sembra più così difficile come pareva. Ma essendo lievemente strapiombante, incontriamo come al solito difficoltà per tirare su il sacco.
Decidiamo quindi, se sarà possibile, di non scostarci più dal ghiaccio, pur essendo questo duro e lucido. Wiggerl sale con molta prudenza ma con l’impeto d’una locomotiva. Io ansimo dietro con il sacco più pesante.
Alle 11 siamo sulla traccia di Kasparek e di Harrer; questa esce alla fine del secondo nevaio dalle rocce alla nostra destra, dove hanno bivaccato. Da lì sale fino al bordo superiore, traversando fino alla barriera di rocce che porta al terzo nevaio.
“Guarda, Wiggerl, li abbiamo già raggiunti!”.
Il nevaio, o meglio i nevai che dal basso non sembrano molto vasti, hanno invece proporzioni gigantesche. Solo dopo venti lunghezze di corda terminiamo il secondo. I due davanti hanno fatto un lavoro di prim’ordine, intagliando uno dopo l’altro gradini della proporzione di autentiche vasche da bagno! Qui naturalmente noi saliamo di conserva passeggiando.
Presto sono a portata di voce. Ci scambiamo allegri yodel e alle 11.30 precise li raggiungiamo.
(continua