I tre ultimi problemi delle Alpi – 4 (4/5)
di Anderl Heckmair
(continua da https://www.sherpa-gate.com/grandi-storie/i-tre-ultimi-problemi-delle-alpi-3/)
Al primo sguardo capisco perché sono saliti così lentamente scavando gradini tanto grandi. Anch’essi si sono ingannati nelle loro previsioni sulla parete, e si sono preparati ed equipaggiati più per una salita su roccia che su ghiaccio. Faccio loro notare che con quel ritmo hanno ben poche probabilità di riuscire e li consiglio di ritirarsi subito.
Ma Kasparek ha la testa dura: “Prima o poi ce la faremo!”.
È un momento scabroso, e la decisione mi pare assai difficile a prendersi: dobbiamo oltrepassarli, continuando il nostro tentativo da soli e abbandonando questi nostri compagni al loro destino?
Vörg, di gran lunga il migliore di noi due, trova le parole adatte: “La cosa più conveniente è unirsi tutti insieme e formare una sola cordata”.
A cose fatte dovetti riconoscere che l’intera scalata prese così un altro andamento. Anche noi trovammo un vantaggio in quell’unione, specialmente per la suddivisione del carico, e più tardi per il fatto che i due conoscevano la via di discesa.
Ben presto siamo di fronte alla barriera di rocce, sotto il terzo nevaio. Lì Wiggerl dice che un camino molto scabroso dovrebbe permetterci di proseguire. Quest’anno il camino è totalmente tappezzato di vetrato, ma questo non ci è sfavorevole. Evitiamo così di toglierci i ramponi, ma devo piantare per sicurezza qualche chiodo da ghiaccio. Alle due siamo seduti tutti e quattro oltre il terzo nevaio. Wiggerl accenna alla parete: “Ecco i chiodi piantati dagli sventurati Sedlmayer e Mehringer. E qui Udet, nel suo volo di ricognizione, scoprì uno dei due irrigidito dal gelo, in piedi nella neve”.
In silenzio rivolgiamo il nostro pensiero ai due compagni. Scaviamo con la piccozza un buon terrazzino, e cuciniamo un po’ di ovomaltina con latte, che ci fa un gran bene. Assaggiamo pure un pezzetto di lardo affumicato, dato che vogliamo mangiare molto per alleggerire i nostri sacchi, ma nessuno riesce a inghiottirlo. Lo stomaco rifiuta d’ingerire cibi solidi. Per conto mio rosicchio qualche zolletta di zucchero. Preferirei gettare giù l’intero carico di carne e di salsicce, ma non si può sapere se l’appetito verrà più tardi.
Il cielo, finora sgombro di nubi, si ricopre d’una nebbia leggera. Ma ci pare del tutto inoffensiva, e non ci turba granché. Abbiamo così chiaramente in testa la via, o meglio, la direttiva di salita che abbiamo deciso di seguire, che non sentiamo nessuna esitazione e nessun dubbio su dove andare. Del resto è proprio una caratteristica di questa parete quella che tutti i candidati più seri, senza consultarsi privatamente, si siano trovati perfettamente d’accordo sul tracciato del percorso. Così, dall’orlo del terzo nevaio, proseguiamo tutti e quattro su terreno ignoto, e traversiamo lungo ripide placche di ghiaccio, obliquando dapprima in giù a sinistra, fino alla Rampa. Abbiamo due piccozze di differente lunghezza: ora usiamo quella più lunga che presenta grandi vantaggi per scalinare in ogni caso, dato che gli altri possiedono solo un paio di ramponi in due. La Rampa è costituita da un canale che taglia obliquamente la parete, e forma uno di quei passaggi che si scalano con somma facilità. Mi pare quasi troppo facile e sono inquieto all’idea che continui così fino in cima. Ma devo ben presto essere completamente rassicurato a questo riguardo. E in modo tale da non farmi desiderare altro.
Ci alziamo per circa 150 metri lungo placche coperte di neve e di vetrato con relativa facilità. Ma poi la Rampa termina in una nicchia da cui un camino perpendicolare porta a una fessura ghiacciata. Un lato del camino è strapiombante, giallo, friabile. In una parola, impervio. Sull’altro, più propizio, per quanto liscio, l’acqua scorre così allegramente che cercando di salire ci si bagnerebbe fino alle ossa in pochi minuti. E non me la sento proprio di bivaccare con gli abiti fradici.
Sono le sette di sera quando ci ritroviamo tutti e quattro riuniti e decidiamo di fermarci. Ma la nicchia non è comoda, perché il fondo è stato colmato da valanghe che vi hanno formato come un pendio di ghiaccio su cui l’acqua scorre in continuazione. Così ridiscendiamo fino alla Rampa e cominciamo a liberarne con la piccozza l’orlo superiore. Ci sistemiamo qua e là alla meglio, lungo una ripida placca ghiacciata che si interrompe due metri più in basso.
Improvvisamente la nebbia si squarcia e possiamo misurare con precisione il vuoto che ci fa rabbrividire malgrado la nostra abitudine. Per circa 1400-1500 metri lo sguardo si inabissa senza ostacoli fino al nevaio della base che scintilla con riflessi azzurrognoli. Appena ora ci rendiamo conto di quanto esposta sia la nostra posizione e, con alcuni colpi di martello ben aggiustati, ci affrettiamo a piantare un chiodo di sicurezza nella roccia. Solo così ci sentiamo di nuovo ben disposti.
Indossiamo tutto ciò che abbiamo. Con cura particolare, estraggo la mia ovatta termogena, ne do la metà al compagno, divido nuovamente la mia parte in due e avviluppo le dita dei piedi e le ginocchia.
“Questa ci terrà caldi!” dico allegramente.
Wiggerl se la mette solo intorno alle ginocchia.
Infiliamo ancora mutande di riserva, calzoni e sovracalzoni, il secondo maglione, insomma quanto abbiamo a disposizione. Wiggerl per esempio ha un paio di scarpe da bivacco, mentre io devo tenermi gli scarponi da montagna, essendo le pedule ancora bagnate dalla traversata Hinterstoisser. Corde, zaini e ogni altra cosa disponibile sono distesi sul ghiaccio per servire da giaciglio e usiamo i sacchi da bivacco per ricoprirci.
Per prima cosa Wiggerl fa il caffè e, dato che lo troviamo eccellente, ne fa subito dell’altro. Naturalmente utilizziamo neve e ghiaccio che abbiamo in abbondanza a portata di mano. In verità c’è qualche sassetto e un po’ di fango nella bevanda. Ma questo non importa perché il caffè è tanto nero e tanto forte da non distinguervi nulla, né con la vista né con il gusto.
Frattanto apro una scatola di sardine all’olio perché, come mi dico, non ci si può saziare col solo caffè e perché nessuno vuole carne o salsicce. Ma nessuno vuole saperne neppure delle sardine. Così mi sento moralmente obbligato a mangiarle tutte da solo, pur non avendone gran desiderio. Fatto che pagherò caro durante la notte.
Frattanto s’è fatto scuro del tutto. Giù scintillano le luci di Grindewald e noi ci sentiamo pieni di benessere sul nostro aereo terrazzino. Ben presto ci ricopriamo con i sacchi da bivacco e ognuno cerca di schiacciare un sonnellino.
Uno sguardo all’altimetro: segna 3400 metri! Una quota veramente soddisfacente per il primo giorno – rispettivamente il secondo per gli altri. Mentre ripongo l’altimetro, qualcosa scivola sulla placca e sparisce silenziosamente nel vuoto.
“Dannazione, che cos’è?”.
“Non sarà mica l’altimetro? Dove diavolo l’ho messo? Non riesco più a trovarlo”. Prudentemente mi informo del suo prezzo: “Circa centocinquanta marchi…” opina seccamente Wiggerl. Dalla rabbia non riesco più ad addormentarmi. Inoltre fa un freddo cane e siamo scossi da un tremito continuo. Meno male che ci siamo assicurati, altrimenti precipiteremmo.
Solo nei posti ricoperti dall’ovatta termogena, sentiamo un delizioso tepore. Penso con gratitudine alla fanciulla che mi ha dato un così buon consiglio. Sento come una carezza sulle ginocchia e sui piedi…
Il tempo non passa mai… già spero che presto sarà giorno, e sono appena le 11 di sera. È una legge di compenso: di giorno, arrampicando, le ore passano come minuti; durante i bivacchi i minuti diventano ore.
Proprio quando la situazione sta diventando troppo monotona mi sento improvvisamente in preda a violente coliche. Dapprima non voglio dire niente, ma ogni istante passo dal caldo al freddo, mi vengono le vertigini, mi spavento e incomincio a temere il peggio. Wiggerl si accorge del mio stato e in un attimo sono tutti mobilitati.
Heini Harrer suggerisce: “Un tè caldo è la cosa migliore”, e accende il suo fornelletto. Pochi minuti dopo sorseggio un tè alla menta, che fino ad ora non avevo mai potuto sopportare, ma che adesso mi pare la cosa migliore di questo mondo e mi fa tanto bene. E così, essendosi finalmente calmate le sardine all’olio nel mio stomaco, riesco a prendere sonno. In questo modo passa il primo bivacco per noi, il secondo per i nostri compagni.
Alle quattro di mattina ci dedichiamo nuovamente alla cucina. Questa volta Wiggerl prepara un’ottima zuppa di fiocchi d’avena, ma preferiamo ancora il caffè, che beviamo successivamente. Solo alle 7 siamo pronti. Mentre rimettiamo negli zaini la roba, ritroviamo l’altimetro. Questo dimostra che non bisogna mai arrabbiarsi inutilmente.
I nostri primi movimenti sono alquanto rigidi e duri, ma mi è sufficiente un solo sguardo al camino che ora dovrò superare, per riscaldarmi e sentire il sudore in fronte. Sulla parete di sinistra non c’è più l’acqua che ieri scorreva, ma al suo posto scintilla una corazza di ghiaccio.
Dato che la fessura nella parete superiore appare priva di vetrato, provo dapprima senza ramponi. Prudentemente pianto un paio di chiodi. Uno di questi mi sembra proprio buono. Ne avrò proprio bisogno! Per evitare il ghiaccio, mi innalzo lungo la parete friabile e strapiombante, e riesco, se pur in modo non molto elegante, a superare lo strapiombo. Ancora mezzo metro e posso piantare un altro chiodo e con la destra afferro un appiglio in alto. Prima ancora di averlo potuto provare mi si sbriciola fra le dita, e un sassone dalla forma d’una caffettiera mi piomba in testa. Nello stesso attimo perdo l’equilibrio e prima di rendermi conto dell’accaduto, mi ritrovo appeso al chiodo buono sotto lo strapiombo.
È il primo volo: “può succedere a tutti” penso, e ritorno alla carica dopo aver calzato i ramponi. Ancora una volta mi impegno a fondo, non più sulla roccia, ma sul ghiaccio lucido. Il passaggio tecnicamente difficile richiede un lavoro preciso, cioè movimenti calcolati al millimetro, per poter usufruire delle più piccole asperità di quella placca completamente ricoperta di vetrato. Non c’è neanche da sognarsi di scavare gradini; è un’arrampicata pura in grande stile, con i ramponi a dodici punte. Tutto va per il meglio!
Raggiungo la fessura poco sopra il posto da cui ero volato. Ancora qualche metro e sono su una piccola conca piena di ghiaccio. Scavo un terrazzino, mi assicuro con un chiodo e faccio venire i compagni. Frattanto do un’occhiata all’itinerario successivo. Non mi sembra molto chiaro. Vedo solo ghiaccio tutt’intorno. Tutt’altro che chiaro! Si tratta d’una parete verticale di ghiaccio che si unisce ad angolo obliquo con una roccia sporgente, formando così un canale, sovrastato a sua volta dal campo superiore di ghiaccio. Mentre Wiggerl fa sicurezza ad Harrer e Kasparek, mi preparo per questa dura arrampicata.
L’ultimo di cordata deve recuperare tutti i chiodi. Non per rendere più difficile la scalata a quelli che la ritenteranno, ma perché non sappiamo che cosa ci aspetta sopra e se avremo poi bisogno di ogni chiodo disponibile. Peraltro non c’è più da pensare a un cambio di comando. Quale capocordata, in questi tratti difficilissimi, non porto zaino, per non venire squilibrato, per cui i compagni sono ancora più carichi. Quando Wiggerl, con il pesante sacco, raggiunge il posto di sosta, è così estenuato che gli sono necessari parecchi minuti per rimettersi.
Frattanto anche il terzo è arrivato. Ora Wiggerl è di nuovo libero e può farmi sicurezza. Più mi avvicino al tetto, più problematica me ne sembra l’uscita. Alla fine le difficoltà mi spingono nel fondo del canale proprio sotto il ghiacciaio. Davanti ai miei occhi, dall’orlo del tetto, pende una meravigliosa stalattite.
Pure non mi sento nella disposizione più adatta per godere di queste meraviglie della natura. Sono invece disperato, perché non so proprio che fare per superare il passaggio.
Beh, innanzi tutto un buon chiodo da ghiaccio, proprio sotto il tetto! Mi faccio tirare con la corda e butto giù con la piccozza alcuni ghiaccioli, non senza avere avvertito i compagni di mettersi al riparo; infatti riesco ad afferrarmi alla base di uno di questi, e tirandomi di forza mi sporgo oltre l’orlo del tetto. Ma nello stesso istante, avendo aggiunto la forza di trazione a quella del mio peso, la presa si stacca e piombo giù trattenuto dal chiodo.
Mi sembra che questo passaggio sia impossibile, ma non riesco a scorgerne di migliori. Dovremo dunque farci giocare da questo ridicolo strapiombo?
“Questo è l’Eiger, ci dev’essere pure qualche ostacolo!” mi incoraggiano da basso. Guardo prima a sinistra, e poi a destra del colatoio: non c’è altra via di scampo. Con rabbia ben comprensibile, deciso a tentare il tutto per tutto, salgo di nuovo. Sopra il mio chiodo, un ghiacciolo della grossezza d’un braccio si spinge in fuori con una curva ad ansa. Vi aggancio una staffa e, secondo la tecnica da roccia in uso nelle difficoltà estreme, mi spingo di nuovo all’infuori con trazione di corda.
Con il martello da ghiaccio scavo delle piccole tacche sotto il tetto su cui potrò sostenermi per qualche attimo. Allora con un ultimo disperato sforzo, riesco a piantare il più pesante chiodo da ghiaccio che ho sottomano direttamente sull’orlo del tetto. Entra solo a metà, ma dal suono argentino so che terrà. Un moschettone scatta…
“Tira!”.
Con la parte superiore del corpo sono oltre l’orlo, la partita è vinta. Tenendo il martello da ghiaccio nella sinistra, la piccozza nella destra, mi tiro su con precauzione; e riesco a infilare le punte dei ramponi nel ghiaccio.
“Molla la corda!”.
Alcuni passi affrettati, e cinque metri più in alto passo finalmente a scavare un buon posticino di riposo e a piantare altri due chiodi da ghiaccio per sicurezza. Faccio venire i compagni.
Questo è certamente il tratto più difficile di tutta la parete. Mi sento molto fiero di averlo superato, ma non mi auguro di provare mai più una soddisfazione del genere.
Il nevaio guadagnato così duramente è ripido e formato da ghiaccio vivo. Anzi, è così duro che malgrado i ramponi a dodici punte siamo costretti a intagliare gradini. Già ci avviciniamo all’orlo superiore, quando improvvisamente sentiamo un rombo assordante sopra la nostra testa. Scariche di sassi! Ci appiattiamo contro la parete, ma si tratta d’un falso allarme, è soltanto un aeroplano.
Visto da sotto questo nevaio pareva insignificante, eppure impieghiamo quasi dieci lunghezze di corda per percorrerlo, e ci sono necessarie più di due ore per averne ragione. Ci troviamo così di fronte a una muraglia frastagliata che conduce alla gradinata rocciosa, unico accesso alla traversata del Ragno.
Il Ragno è il nevaio situato nel terzo superiore della parete che si spinge verso ogni parte della zona rocciosa con colatoi e corridoi di ghiaccio. Già l’anno scorso, studiando la zona, quando cercavamo con il cannocchiale ogni possibile via di salita, questo tratto ci parve assai problematico.
Anche i nostri amici viennesi da parte loro erano giunti alle medesime conclusioni… Ma ora che ci siamo ci pare quasi addomesticato. La roccia si innalza verticalmente per quasi 50 metri, ma è bene articolata e quindi probabilmente ricca di appigli. Per questo non penso neppure a deporre lo zaino e a togliermi i ramponi, e mi accontento di legare la piccozza al sacco. Ma già l’attacco non si dimostra tanto facile come pareva: piccole prese, roccia strapiombante. Per prudenza, pianto un chiodo di sicurezza. Mi innalzo adoperando le più piccole asperità per appoggiarvi le punte anteriori dei ramponi. È una tecnica del tutto nuova. Nessuno l’ha mai sperimentata prima, e richiede uno sforzo enorme.
Proprio quando sento le braccia spossate per lo sforzo enorme, e mi trovo prossimo a volare, l’aeroplano gracchia nuovamente rasentandomi quasi in modo sfacciato. I miei compagni rispondono allegramente ai cenni dell’aviatore, mentre io compio a ritmo accelerato gli ultimi metri per portarmi fuori da questa zona rocciosa.
Più tardi vengo a sapere che il passeggero dell’aeroplano, il giornalista italiano Guido Tonella, partito in volo da Zurigo, ha potuto prendere ottime fotografie mentre eravamo in parete. Su un terrazzino di mezzo metro, il primo posto di riposo di questo tratto, posso far sicurezza ai compagni. Sono le 3 pomeridiane; dove e come sono passate le ore? Nessun segno di fame o di stanchezza. Al contrario, udendo il rombo di un tuono e vedendo tutto il cielo che minaccia un temporale, sentiamo crescere in noi nuove energie.
Ormai non si può più tornare indietro! Riunitici, ci dividiamo nuovamente in due cordate. La traversata verso il Ragno si dimostra il tratto relativamente più facile dell’intera parete; voglio ad ogni costo raggiungere il nevaio prima che cali la nebbia, per poter scrutare almeno una volta le ulteriori possibilità di salita. Con le mani sulla roccia e i ramponi sul ghiaccio, avanziamo molto rapidamente. Ma per entrare nel Ragno troviamo di nuovo un paio di metri quasi verticali di ghiaccio vivo, che però ora dobbiamo solamente percorrere in traversata. Poco dopo abbiamo raggiunto il nevaio.
“Un chiodo. Dove diavolo li ho messi? Wiggerls, dammene uno!”.
“Li ha Heini!”.
Li avevo utilizzati tutti e Heini, ultimo in cordata, li ha estratti. Perciò ci disponiamo ad aspettarli, quando improvvisamente cadono fischiando alcune pietre. Allora pensiamo che se uno di noi fosse colpito, sarebbe la fine dato che siamo in completa esposizione su di un pendio di ghiaccio, senza punti di sosta… Improvvisamente il nostro terrazzino ci pare assai poco confortevole.
“E va bene, procediamo senza chiodi da ghiaccio, assicurandoci con le piccozze, non cadremo mica per questo!”.
Il ghiaccio non è più tanto duro e non richiede più scalini. Percorriamo così circa 150 metri! Dopo ogni lunghezza di corda scaviamo un terrazzino, in modo da stare comodi e far riposare le caviglie. Così raggiungiamo in breve la parete rocciosa che porta in vetta. Non c’è nessun terrazzino, ma riesco a scavare un paio di tacche nel ghiaccio, e a scoprire una fessuretta nella roccia per l’ultimissimo chiodo, una lametta sottile.
È assai raro poter piantare un chiodo in luoghi come questo. Ma quando vi si riesce, è a prova di bomba; senza sapere quanto importante dovesse poi risultare per noi questo chiodino, lo pianto a gran colpi di martello fino all’anello. Stando così, o meglio, appesi così, non ci si trova troppo bene; venti metri più sotto, si presenta tentatore uno sperone di roccia sporgente dal ghiaccio. Forma come una piazzola del tutto piana e liscia.
”Sarebbe proprio comodo per sedersi, che te ne pare Wiggerl?”.
“Già, ci pensavo; si potrebbe scendere. Ma la corda non è sufficiente”.
“Vai a vedere, ti assicuro!”.
Quando la corda è tesa, la cavo dal moschettone e scendo prudentemente senza sicurezza. Stando comodamente seduti sullo sperone roccioso come su un trono, consideriamo con occhio critico la situazione.
“Non promette nulla di buono!”.
Gli amici stanno compiendo la traversata verso il Ragno. Lentamente il cielo s’è oscurato e ora comincia a grandinare. Tuona e lampeggia, ma questo non ci spaventa, perché abbiamo già sopportato temporali in montagna. Purtroppo i sassi cadono intorno a noi fischiando e gemendo sempre più frequentemente, invisibili nella nebbia, e alla fine ci innervosiscono.
“Speriamo di non essere colpiti!”.
Questo infatti costituisce il vero pericolo oggettivo: viene dalla montagna e l’uomo nulla può contro di esso, se non affidarsi alla provvidenza.
Kasparek e Harrer stanno seguendo le nostre tracce, e si trovano verso la metà del Ragno. Noi intanto abbiamo disteso il sacco tenda sopra il capo per proteggerci dalla grandine sempre più violenta; sporgiamo il capo per guardare a che distanza si trovino gli altri, quando improvvisamente Wiggerl indica il canale di ghiaccio immediatamente sopra di noi: “Una valanga!”.
Una nuvola di ghiaccioli schizza fuori dalla fessura, dividendosi in due parti sopra il nostro capo, e precipita in basso. In un attimo questa nube si tramuta in una terribile valanga. Salto su, pianto la piccozza e mi puntello per resistere all’urto. Wiggerl non può scattare in piedi, perché non c’è più posto e sta seduto sull’orlo della roccia in piena esposizione.
Siamo senza la minima sicurezza. Con una mano stringo disperatamente la piccozza, con l’altra afferro Wiggerl per la nuca. I nostri amici austriaci, su cui uno dei due rami della valanga deve piombare direttamente, saranno certamente spazzati via e anche noi precipiteremo da un momento all’altro; voglio resistere il più a lungo possibile. Mi pare già di vederci cadere lungo tutta la via percorsa: prima lo scivolo lungo il braccio sinistro del Ragno, poi un volo di 300 metri, di nuovo giù lungo il secondo nevaio e infine un altro salto fino al colatoio della base dove ci saremmo sfracellati definitivamente.
È incredibile quanto un uomo riesca a resistere a quell’orribile pressione! La mano nuda con la quale sono aggrappato alla piccozza è diventata completamente bianca per lo sfregamento del ghiaccio. M’arrischio a lasciare la presa e a infilare rapidamente un guanto. I ghiaccioli e la grandine accumulatasi intorno a noi formano come un vallo fino all’altezza dell’anca. Tutto il resto si scarica in due gigantesche cascate alla nostra destra e alla nostra sinistra. Fortunatamente il pendio è assai ripido e così la valanga si esaurisce presto.
A poco a poco ritorna la luce, la pressione diminuisce. Respiriamo, ma ci sembra incredibile d’averla scampata.
Cosa sarà successo agli altri? La nebbia si fa sempre più lieve, ed ecco… Wiggerl, ci sono ancora! È un vero miracolo! Come è potuto accadere? Gridiamo ed effettivamente ci rispondono.
Ci invade una gioia indicibile. Solo rivedendo vivi i compagni che credevamo periti, ci rendiamo conto di quanto grandi possano essere l’amicizia e il cameratismo.
“Sono ferito! – grida Kasparek – buttate giù una corda!”.
Per prima cosa ritorniamo fino al nostro chiodo. Qui sullo spuntone, pur essendo 20 metri più vicini ai compagni, non possiamo certo slegarci e portare loro aiuto.
Il torrente di ghiaccioli continua a scorrere. Siamo in alto, sulle rocce, ma tra noi e il chiodo c’è l’imbuto, in cui la coda della valanga precipita come un fiume impetuoso. Voglio rischiare il salto, ma Wiggerl non me lo permette. Dobbiamo così attendere altri 10 minuti prima di poter finalmente far ritorno al nostro chiodo. Intorno a questo e al moschettone si sono formati aghi di ghiaccio lunghi parecchi centimetri.
“Qual è la causa di questo fenomeno?”.
Ma non abbiamo tempo da perdere in considerazioni scientifiche. Ci autoassicuriamo, ci sleghiamo, uniamo le corde e gettiamo il capo della corda agli amici. Fritz deve salire ancora una decina di metri per afferrare la corda lanciata. Finalmente riesce ad assicurarvisi. È un sollievo per noi sapere di essere tutti legati insieme. E così rimarremo poi fino in cima.
Ben presto Kasparek e Harrer sono con noi.
“Dove sei ferito?”.
“Guarda la mia mano”.
Ha perso tutta la pelle del dorso e in questo momento sembra più terribile di quanto sia in realtà. Presto estraiamo le fasce dal sacchetto dei medicinali e medichiamo la ferita aperta.
Le sei di sera!
“Dobbiamo già bivaccare?”.
Dopo la tempesta, il tempo si era schiarito, ma non prometteva nulla di buono. Avevamo sperimentato come le valanghe si comportassero precipitando quasi in un imbuto. Se il tempo fosse peggiorato, non avremmo potuto lasciare vivi quel colatoio di ghiaccio. Queste furono le nostre considerazioni. E inoltre pensammo che col caldo il ghiaccio sarebbe stato meno duro e avremmo potuto salire rapidamente.
Un breve consiglio di guerra e decidiamo di proseguire. Il colatoio di ghiaccio presenta subito uno strapiombo. Provo a sinistra. Mi sono mosso troppo presto e dopo tre metri devo saltare giù al posto di partenza, dove piombo sulla china ghiacciata e solo grazie ai ramponi evito di volare. Va molto meglio dalla parte destra, che prima avevo ritenuto più difficile. Il ghiaccio si lascia scalare bene. Mi sollevo con la piccozza nella destra e un grosso chiodo nella sinistra. Poi, proseguendo coi “dodici punte”, m’innalzo rapidamente. Dover salire senza gradinare è un lavoro assai duro e rischioso; ma non c’è altro da fare.
Per ottenere una buona sicurezza perderemmo troppo tempo e non riusciremmo a uscire prima di domani mattina dal colatoio, fuori dal raggio d’azione delle terribili valanghe. Ho sempre avuto per principio quello di assumermi i rischi dei pericoli soggettivi per sfuggire a quelli oggettivi. Così facciamo anche in questa occasione. I colatoi diventano sempre più ripidi, si restringono sempre più, mano a mano che saliamo tra le rocce, e terminano tutti con strapiombi, che superiamo uno dopo l’altro.
Harrer ansima sotto il peso dello zaino sempre più pesante. Infatti, per procedere più sicuri, abbiamo dovuto alleggerire i nostri sacchi in varie occasioni, passando parte del loro contenuto in quelli dei compagni. Con perfetto spirito cameratesco Heini e Fritz hanno accettato quanto è stato loro possibile portare. In più c’è il peso dei chiodi che restano a loro due, una volta estratti. Alla fine l’ultimo di cordata è carico come un facchino! Senza protestare una sola volta, svolgono la loro terribile fatica. Questo spirito di collaborazione ci varrà la vittoria comune.
Da Fritz non sentiamo nessun lamento per la mano, benché gli debba dolere molto, visto che la fasciatura è intrisa di sangue.
Ora bisogna trovare in questo sistema di fessure e colatoi un posto su cui si possa essere in qualche modo al sicuro dalle valanghe e dalle cadute di sassi. Dopo aver superato un rigonfiamento di ghiaccio, trovo una piccola cengia rocciosa protetta effettivamente da uno strapiombo. È esposta e scoscesa, come tutto in quella parte, ma in ogni caso sicura.
In un forellino batto un chiodo da roccia fino all’anello. È proprio un lavoro da matti piantare altri chiodi perché la parte superiore della montagna non è più formata da calcare, ma da granito. Con molta pazienza battiamo tutti i chiodi necessari per assicurare noi e le nostre cose. Sappiamo ormai che quanto ci scivola dalle mani senza essere legato, è perduto per sempre.
Purtroppo non ci possiamo sedere tutti insieme. A tre metri dal nostro posticino ce n’è un altro dove si può stare al sicuro una volta liberato dal ghiaccio che lo ricopre. Lì Fritz e Heini allestiscono il loro bivacco. Tendiamo tra di noi una corda lungo la quale ci passiamo reciprocamente i viveri con un sistema di teleferica coi moschettoni.
Il buon Wiggerl, come sempre, bada da solo alla cucina. Infatti il fornelletto a spirito di Kasparek, insieme ad altre cose di non primissima necessità, ha già da tempo preso la via degli abissi.
Non abbiamo voglia neppure ora di mangiare. Desideriamo soltanto bere, specialmente caffè; grazie a Dio abbiamo Nescafè in grande quantità. È assai pratico, perché non richiede acqua bollente, ma solo tiepida. Abbiamo ancora tanti viveri, che ci sarebbero sufficienti per otto giorni. Ma il cibo rimane intatto e anch’io, dopo la mia esperienza del giorno precedente, non mi sforzo più di mangiare.
Non siamo certo molto esigenti in merito ai posti da bivacco, ma questa cengia è davvero troppo stretta! Non riesco in nessun modo a trovare una posizione un po’ comoda. Impossibile pensare a distendersi, e già la scorsa notte siamo rimasti seduti. Ora poi, con i ramponi puntati nel ghiaccio – e proprio per questo non ho potuto cavarli – pendo appeso al chiodo con un cordino.
Se almeno Wiggerl stesse un attimo fermo! Ma lui prepara un pentolino di caffè dopo l’altro, e noi non abbiamo certo obiezioni da fare. Ne beve un sorso, passa avanti il recipiente, e subito ne pone un altro sul fornelletto a benzina che con il suo piacevole ronfare ci procura un senso di benessere. Per il resto siamo tranquilli, consci di quanto ci resta ancora da superare e sicuri che l’indomani il tempo sarà brutto.
Solo Fritz si lamenta: “Quando sarò tornato giù, voglio accendere una sigaretta asciutta con un fiammifero asciutto!”.
A bella posta non abbiamo preso con noi né alcol né tabacco. Invece Kasparek non ha voluto rinunciare al fumo; però le sigarette e i fiammiferi sono diventati inservibili, e perciò si lagna… Infatti, se pur non siamo sempre bagnati fino alle ossa, certo asciutti non siamo mai.
Per noi due questo fatto ha una conseguenza speciale, perché così anche l’ovatta termogena si è bagnata. Era già accaduto durante il giorno che l’ovatta, che i malati sono soliti tenere tutt’al più due ore sulle parti sofferenti, ci bruciava in modo tremendo le dita dei piedi e le ginocchia. Non ne ero più deliziato come all’inizio, ma provavo le torture del rogo.
“Lasciamo che bruci, così non ci congeleremo!” avevamo pensato, ma purtroppo era stato un grande errore.
Finalmente Wiggerl cessa di cucinare e si prepara per la notte. Con calma indescrivibile incomincia a cambiarsi, ad infilare le scarpe da bivacco mentre, nella posizione in cui ci troviamo, ci spalleggiamo a vicenda. Già da tempo s’è fatto scuro e sono ormai le undici passate. Anche Fritz ha tenuto i ramponi. Me li toglierei ma, come ho detto, mi sono indispensabili per puntarmi nel ghiaccio. Wiggerl perde più di un’ora per svestirsi e rivestirsi. Infine stendiamo il sacco da bivacco sulle nostre teste e Wiggerl mi offre la sua larga schiena sulla quale posso appoggiarmi comodamente. È morbida e calda, e non tardo molto a chiudere gli occhi, addormentandomi profondamente.
Una doccia che cade sopra il sacco da bivacco mi risveglia; incomincia a tuonare, un gelo polare ci assale, sicché tremiamo tutti; il freddo scaccia il sonno residuo. Rimango meravigliato vedendo che è pieno giorno. Le cinque! Ho proprio dormito durante l’intera notte e ne sono assai contento.
“Dormi ancora”, dice Wiggerl, e si rimette nella posizione di prima per me così confortevole. Mi accorgo però che per lui deve essere scomoda.
“Ma tu hai dormito?”.
“No, naturalmente. Ma quando ho visto che riposavi così bene, non mi sono più mosso, perché di noi, sei tu quello che deve sentirsi più in forza. Dormi ancora, Anderl, nevica, e per il momento non possiamo procedere…”.
Ma non mi è più possibile, sapendo che il mio riposo è per lui un tormento e inoltre ora ho troppo freddo e il tempo m’inquieta molto. Cade una neve asciutta. Udiamo il frastuono della tormenta, pur senza subirla, poiché siamo riparati dalla cresta ovest. Ma sopra, tra la cima e la cresta risuona il suo lamento.
Dopo qualche tempo, quando la neve fresca si accumula sui nevai superiori, precipita in valanga. Possiamo così osservarne con esattezza il corso e le regole. Tutta la massa proveniente dalla cima si raccoglie e precipita giù nel colatoio come in un imbuto. Ora solo una diramazione delle valanghe cade sopra lo strapiombo che ci ripara, mentre sul posto di bivacco turbina polvere di neve.
Wiggerl si dedica di nuovo alla cucina, e scioglie tavolette di cioccolata nel latte in scatola. Per ognuno un pentolino colmo. Sappiamo che questo è l’ultimo pasto in parete. La prossima volta saremo nuovamente giù, in valle. Pure non buttiamo via le molte provviste superstiti, e abbiamo ancora benzina per parecchi giorni. Non si può mai sapere!
Giù in valle avevano seguito ogni nostro passo e un giornalista di Monaco, Ulrich Luck, che stava alla Kleine Scheidegg, aveva scritto per il Münchner Neueste Nachrichten un articolo intitolato “Tra speranza e timore” che offriva un quadro felice della nostra situazione e dell’impotenza di chi ci seguiva dal basso.
“Sabato alle 12.30 un temporale si annuncia sull’Eiger. Dalla vallata di Lautenbrunnen sale una marea di nubi grigie, scure e minacciose. In quel momento i quattro scalatori, dopo cinque ore di duro lavoro hanno vinto la Fessura Obliqua, che forse costituisce la più forte difficoltà dell’intera parete, e hanno anche superato a destra la traversata delle cenge nevose, sopra la Parete Gialla. All’una sono tutti e quattro sull’orlo sinistro del nevaio. La guida Heckmair in testa, forte del suo severo allenamento e d’una maggiore esperienza di ghiaccio. Per mezz’ora una nuvola nasconde gli scalatori ai nostri sguardi. Alle 14.30 la parete è nuovamente libera.
Hanno già attraversato la cengia nevosa e il primo ha raggiunto lo strapiombo che porta al nevaio chiamato Ragno. Con arte sopraffina Heckmair attraversa fino al Ragno; egli ha fatto da capocordata tutta la giornata di sabato. Lo vediamo maneggiare poderosamente la piccozza e raggiungere la metà del nevaio.
Sale per tutta la lunghezza della corda fino all’entrata della cengia nevosa, a sinistra della parte superiore del Ragno. Vörg lo segue come secondo. Heckmair procede nuovamente, supera la cengia nevosa, o meglio il colatoio di ghiaccio, fino a una roccia da dove fa sicurezza a Vörg, che lo segue altrettanto rapidamente. Ambedue si installano sullo sperone di ghiaccio aspettando la seconda cordata. Il loro procedere, la loro arte vigorosa nel maneggiare la piccozza, la loro prudente sicurezza e la loro stupefacente rapidità ci indicano chiaramente che sono nella forma migliore e ancora pieni di energia.
Frattanto Kasparek e Harrer hanno raggiunto la fine della cengia nevosa. Dalle 15 alle 15.30 la parete si ricopre ancora una volta di un manto di nubi. Alle 15.30 è libera, e la gente si affolla intorno ai cannocchiali. Per l’appunto il primo della seconda cordata sta attraversando sopra le rocce del Ragno. Nello stesso istante Heckmair raggiunge il roccione sopra il colatoio di ghiaccio. L’altra cordata è più lenta, ma altrettanto sicura.
Heckmair e Vörg sono già a 3600 metri! La nebbia ricopre ancora una volta la parete. Siamo di nuovo soli con le nostre speranze e le nostre inquietudini. La cima dista ancora 350 metri dagli scalatori. Adesso il tempo è di nuovo assai brutto. Di ora in ora non si sa se cambierà in bello o se si guasterà del tutto. Sulla vallata di Lautenbrunnen ci sono nuvole d’un grigio sporco: Jungfrau e Mönch sono pure coperti da nubi. I crepacci dei ghiacciai scintillano d’una luce azzurrognola e verde-blu nel chiarore spettrale. Tra le nuvole cariche di pioggia c’è uno squarcio celeste. Sulla Grosse Scheidegg il cielo è ancora chiaro. Ma il temparale avanza irresistibilmente. La seconda cordata deve trovarsi a sua volta nell’imbuto del Ragno.
16.25: incomincia pian piano a piovere e alle 16.30 precise un violento acquazzone ci piomba addosso, come se le nuvole si fossero lacerate. Un’ondata mostruosa deve aver investito la montagna e i quattro, ed ecco s’alza un grido unanime di terrore: “La parete, la parete!”.
Un ‘immensa cascata precipita su tutta la larghezza del versante nord! L’acqua cade in dieci, dodici, quindici torrenti mostruosi, bianchi di schiuma. Sopra Alpiglen si delinea un meraviglioso arcobaleno, ma chi ha occhi per quello e per i suoi stupendi colori? Lassù due uomini si trovano sul nevaio colpiti in pieno dall’impeto delle acque. Potranno resistere?
Finalmente le nuvole s’allontanano; nel cannocchiale si può scorgere di nuovo chiaramente il grande nevaio, e, sì… sono lì! Ambedue le cordate proseguono tranquillamente: hanno resistito all’impeto terribile delle acque! Vörg e Heckmair devono averla passata meno brutta, essendosi rifugiati tra le rocce a lato del colatoio.
Nuovamente il sipario si chiude sulla parete. Riusciamo a vedere uno dei due di sopra che scende un pezzo, probabilmente per legare di nuovo alla propria corda e aiutare la seconda cordata. Alle 18.15 sono tutti e quattro riuniti e proseguono verso l’estremità del colatoio di ghiaccio. Il robusto Heckmair assicura deciso, ritorna, intaglia gradini, prosegue. Ore 19: sono alla fine del colatoio di ghiaccio. Ore 20: procedono ancora; si vede che non hanno trovato un posto adatto per il bivacco, oppure vogliono continuare finché perdura la luce per portarsi il più vicino possibile alla cima. Si trovano ora a quota 3700, già molto in alto sopra il Ragno, e hanno compiuto un’impresa straordinaria in quattordici ore di scalata. Il tempo sembra voglia nuovamente migliorare. Tra le nuvole sporche ci sono macchie d’azzurro. Nell’attimo in cui le nubi permettono di scorgere la parete, riusciamo a distinguerli: stanno proseguendo. Ore 21: sono ancora in movimento, e probabilmente stanno preparandosi un posto per la notte. Per Kasparek e Harrer si tratterà del terzo bivacco, per Heckmair e Vörg del secondo. Dovranno sostare su un terrazzino scomodo, con gli abiti fradici; sarà una prova ben dura! Ma sono tutti e quattro ragazzi in gamba.
Ore 22: ultime osservazioni. Il cielo è sereno, pieno di stelle. A metà parete c’è una nuvola chiara e sotto la strana luce della stazione ferroviaria della Jungfrau, situata a metà altezza della montagna. Per il resto la parete è oscura, nera. È notte fonda. I quattro devono sopportare e superare queste ore di tenebra. Hanno provviste per cinque o sei giorni. Certamente non potranno dormire molto, questa notte, e rimarranno accoccolati intorno alla loro cucinetta, facendosi del tè bollente e dei cibi caldi. Non hanno più la minima possibilità di ritorno, devono salire in vetta a qualsiasi costo. Sono a quota 3750, distano ancora duecento metri dalla cima.
La domenica mattina ci risveglia la pioggia. Dalla finestra vediamo distese di nebbia e di nuvole. Il tempo è disastroso. Non si può più scorgere la parete. Alle otto della domenica Kasparek e Harrer sono ormai sull’Eigerwand da 65 ore, Heckmair e Vörg da 43. Alle 5.30 piove, alle 6 piove, alle 7 piove, alle 11 piove ancora, una pioggia fredda e tempestosa“.
Noi non abbiamo il minimo sospetto di tutta l’inquietudine suscitata; sappiamo solo di non poter contare su nessun aiuto dal di fuori.
È duro lasciare il nostro riparo per buttarsi nella tempesta, ma dopo breve discussione, non esitiamo più. Forse potremmo aspettare una schiarita, ma come poi essere certi che il tempo migliori? Questa situazione può prolungarsi per giorni, anzi per settimane, e dopo la parete non sarà certamente in condizioni migliori. Siamo tutti d’accordo: se il nostro destino è di soccombere, meglio morire lottando che inattivi. Non aspettiamo aiuti, e non ne abbiamo bisogno. Per cui chiudiamo i sacchi, e via! Dopo aver disposto ogni cosa ed esserci legati tutti quattro insieme in un’unica cordata, iniziamo a salire per quella che sarà l’ultima fatica.
Ancora una volta mi aspetta già all’inizio uno strapiombo corazzato di ghiaccio, su cui debbo sollevarmi, dopo aver fatto avvicinare gli altri. Di lì segue una traversata verso una gobba rocciosa. Quando l’ho raggiunta — devo aver impiegato circa mezz’ora — guardo i compagni che sono letteralmente sotto di me. Stanno fermi contro la parete, simili a turaccioli di ghiaccio. Quando ci siamo mossi, è incominciata a cadere una neve sempre più fitta e, brutto segno, bagnata. La roccia è uniformemente ricoperta da vetrato su cui, anche nei punti più verticali, aderisce quella stramaledetta neve fresca. Meravigliosa da vedersi, ma pessima per arrampicarvisi.
Abbiamo ora due possibilità: una fessura, lungo la quale, secondo le nostre osservazioni, scende il corpo principale delle valanghe laterali, oppure un camino superficiale molto più sicuro. Quando ho Wiggerl vicino, decido per la seconda soluzione. Ma, già per superare i primi metri, devo adoperare tre chiodi da roccia, e dopo cerco invano di proseguire. Superare un passaggio di quella difficoltà con il vetrato sarebbe stato pretendere troppo! Preferisco provare la fessura. Aspettiamo la prossima valanga che non dovrebbe tardare molto.
Per raggiungere la fessura bisogna abbassarsi leggermente. Pianto un chiodo e scendo giù con la corda. Devo poi risalire su una piccola sporgenza rocciosa che costituisce un comodo e sicuro terrazzino davanti al colatoio. Con la destra afferro una buona presa, ma con la sinistra non trovo nulla sulla roccia ricoperta di vetrato. Quando cerco di innalzarmi egualmente, piombo giù e mi ritrovo due metri più sotto, su una piccola placca di ghiaccio dove mi posso subito ancorare con i ramponi.
Wiggerl, che mi ha tenuto in perfetta sicurezza, mi sorride sfacciatamente. Di nuovo mi slancio in su e di nuovo volo, con la differenza che questa volta non ricado sulla placca di ghiaccio, ma faccio un pendolo in una fessura laterale. Anche questa volta Wiggerl mi ha tenuto perfettamente, ma ora non sorride più. Ho battuto il… fondo schiena, ma non ci bado troppo, abituato come sono fin dai primi anni di scuola a sopportare quel genere di dolori. Tuttavia ora mi sento piccolo e umile, e giro la sporgenza rocciosa. Il passaggio dall’altra parte si rileva relativamente facile.
Appena ho ripulito con la piccozza lo sperone dal vetrato, ottenendo così un ottimo terrazzino su cui assicurarmi con un buon chiodo, ecco un fitto velo di nebbia e la valanga precipita giù lungo l’intera parete.
Ci sembra di essere dietro una gigantesca cascata; altrimenti non avremmo resistito all’urto. Siamo infatti coperti da un tetto e protetti dagli strapiombi sopra la testa, oltre che assicurati dai chiodi. L’unico pericolo è che la polvere di ghiaccio penetri nei polmoni e ci soffochi. Ci difendiamo, coprendoci il naso col fazzoletto. Intorno a noi è tutt’un turbine e tutt’uno strepito, ma la massa di neve non può raggiungerci.
Dopo un certo tempo, quando gli ultimi residui sono colati giù, salgo per il colatoio lungo il quale, cinque minuti prima, era precipitato il corso principale della valanga.
Ho tutt’al più un’ora di tempo prima che un’altra precipiti. Entro quel termine devo essere sopra la strozzatura ripida e quasi verticale della fessura. Non c’è quindi da indugiare.
Il ghiaccio è molto più duro di ieri sera. Oggi costa maggior fatica innalzarsi senza gradini, con le sole punte anteriori dei ramponi. Ma in questa circostanza non si può procedere diversamente.
Con il martello da ghiaccio, scavo tacche che uso come appigli. Dopo circa mezza lunghezza di corda, la pendenza del colatoio diminuisce alquanto e riesco a intagliare un buon posto di sicurezza. Da qui posso sincerarmi che la fessura in qualche modo porta in alto, e perciò mando un allegro yodel ai compagni. Ben presto Wiggerl è accanto a me. Nel frattempo gli altri sono scesi sul terrazzino inferiore.
Anche l’ora è trascorsa, ed ecco piombare giù un’altra valanga. Questa volta la possiamo osservare con esattezza. Una nuvola bianca precipita proprio sul lato destro della parete. Passano tre o quattro minuti prima che la valanga ci raggiunga. Noi ci troviamo ancora nella fessura e immancabilmente, magari solo da un ramo collaterale, dobbiamo essere colpiti. Per sicurezza pianto presto un altro chiodo nel ghiaccio, ed eccola sulle nostre teste.
Mettiamo gli zaini sopra il capo, e di nuovo ci copriamo il volto col fazzoletto e aspettiamo l’urto. Questo non solo non ci scaglia fuori dal terrazzino, ma, premendoci, fa infilare più profondamente le punte dei nostri ramponi nel ghiaccio.
Dobbiamo solo badare che non si formi un cumulo di neve nel colatoio tra noi e il ghiacciaio, per non esserne proiettati all’esterno. Non ci sono pietre, perché ormai siamo troppo in alto. La neve è finissima, e così non ho troppo peso addosso, e la massa principale cade nuovamente oltre la nostra testa. Ci rallegriamo quasi sfacciatamente che le cose siano andate così bene: “Beh, questa in fondo è sopportabile!”.
Ci scuotiamo come cani barboni bagnati, e mentre Wiggerl fa sicurezza ai compagni che salgono, proseguo subito per un’altra lunghezza di corda.
Improvvisamente sentiamo dalla cresta ovest un grido prolungato, che si ripete a intervalli: non può essere rivolto che a noi! Ma capisco che rispondendo a questo richiamo, creeremmo solo malintesi. La distanza è troppo grande perché ci si possa capire e grida incomprensibili potrebbero facilmente essere scambiate per richiami di soccorso. Per questo la parola d’ordine è non rispondere.
Più tardi sapremo che l’ottima guida Hans Schlunegger, già distintosi nelle spedizioni di soccorso del 1935 e 1936, era salito sulla cima alla nostra ricerca lungo la cresta ovest, malgrado la tempesta e le difficoltà, per vedere e scoprire la nostra posizione e intraprendere poi un’azione di salvataggio se ne fosse stato il caso. Riportò in valle la notizia che con quel tempo era impossibile che un essere umano avesse potuto sopravvivere in parete. Noi invece eravamo in ottima disposizione, e avevamo la certezza di raggiungere presto la cima.
Ma il colatoio che ora non era più così ripido, doveva riservarci un’ultima amara sorpresa: ancora uno strapiombo!
“Attento, Wiggerl, è nuovamente difficile!”.
La neve che cade continuamente non ci dà disturbo. I fiocchi sono ora assai più grossi e comprendiamo che fa molto più caldo. Poiché la neve non ha consistenza, la valanga verrà giù un po’ più tardi ma con impeto tanto maggiore.
Cade una neve bagnata e pesante. È già passato molto tempo dall’ultima valanga. Devo superare presto lo strapiombo…! Ma il ghiaccio non è più così spesso sulla roccia; i chiodi non tengono più. Al secondo colpo si piegano. In pieno strapiombo, posso solo mettermi in equilibrio con i ramponi uno sopra l’altro, perché nella fessura vi è solo una striscia sottile di ghiaccio vecchio, e quello nuovo è troppo duro, lucido e sottile. La punta del chiodo da ghiaccio che ho in mano penetra solo superficialmente e altrettanto la punta della piccozza… Forse se avessi le gambe in spaccata potrei mantenere l’equilibrio, ma con i piedi uno sopra l’altro, non posso più resistere.
“Attento, Wiggerl!”.
Ed è già fatta…
Wiggerl sta in guardia. Recupera tutta la corda possibile. Ma io piombo direttamente su di lui. Non è proprio una caduta libera, ma data la disposizione del colatoio-fessura, una scivolata travolgente. Nell’attimo stesso in cui volo, mi volto con la faccia all’infuori per non capovolgermi.
Wiggerl lascia la corda e mi afferra con le mani. Una punta dei miei ramponi gli penetra nella palma. Cado rovesciato, ma in una frazione di secondo afferro un anello di corda, e con un colpo di reni riesco a raddrizzarmi. Tutte le dodici punte dei ramponi penetrano nel ghiaccio… mi fermo!
L’impeto con cui sono piombato su Wiggerl l’ha proiettato fuori dal terrazzino, ma anche lui può riprendersi, e così ci ritroviamo un metro sotto, sul ghiaccio liscio. Con un salto siamo di nuovo al posto di sicurezza. Il chiodo naturalmente è stato strappato e ne pianto subito uno nuovo.
Tutto questo è durato pochi secondi, e solo una reazione istintiva ci ha salvati. Gli amici legati alla stessa corda e fermi a una lunghezza di corda da noi non si sono nemmeno accorti dell’incidente. Se non fossimo riusciti a fermarci, anche loro sarebbero stati strappati via dalla parete.
Wiggerl si è levato il guanto. Il sangue sprizza scuro, e quindi nessuna arteria è stata intaccata. Uno sguardo alla parete: grazie a Dio ancora nessun segno di valanga! Giù il sacco, tiro fuori i bendaggi e lo medico. Wiggerl è pallidissimo. Il suo volto è terreo.
“Ti senti male?”.
“Non troppo bene”, ammette.
Mi metto in modo tale che in ogni caso egli non possa cadere.
“Tirati su, ora tentiamo il tutto per tutto”.
E giusto mi viene tra le mani nella scatola dei medicinali un flacone di gocce per il cuore che la premurosa dottoressa Belart di Grindelwald mi aveva dato ad ogni buon conto con il commento: “Se Toni Kurz avesse avuto queste gocce, forse avrebbe potuto superare la crisi”.
Dovevamo prenderle solo in casi disperati. Sul flacone è indicata la dose di 10 gocce. Ma io verso subito metà del contenuto in bocca a Wiggerl, e ne bevo io stesso l’altra metà, anche perché ho molta sete. Inghiottiamo poi un paio di zollette di zucchero d’uva, e siamo di nuovo a posto.
Ancora nessun segno di valanga.
“Senti, riattacco subito lo strapiombo”.
“Non cadermi addosso un’altra volta…”, dice Wiggerl adagio, con voce quasi spenta.
Mi concentro, poi parto tranquillo e sicuro. Rinuncio a qualsiasi chiodo di sicurezza, per poter passare il più presto possibile. Mi innalzo per quasi 30 metri – l’intera lunghezza di corda – senza trovare un punto di sosta. Finalmente riesco almeno a piantare un piccolo chiodo da roccia. È solidissimo, e, appena mi sono assicurato, ecco piombare la valanga temuta. Un destino favorevole l’ha trattenuta per tanto tempo. Ma ora scroscia giù con impeto irrefrenabile. Non può colpirmi direttamente, dato che il colatoio piega lateralmente all’uscita. Ma Fritz e Heini ne ricevono l’urto in pieno. Anche Wiggerl non può lagnarsi, perché è troppo poco fuori di tiro. Si proteggono come prima ricoprendosi la testa con gli zaini, e affidandosi ai chiodi da ghiaccio. Dall’alto li assicuro tendendo la corda.
Spio il corso della valanga, e quando piomba fitta urlo: “Ora… ora, re-si-ste-re!! Ora precipita!”.
Poi si fa scuro anche intorno a me, e sono buttato con il capo contro la parete tanto da ricavarne un bel bernoccolo in testa. Ma dura solo un attimo e mi sento di nuovo libero. Continua invece a cadere sui compagni. Non ha fine poiché la neve è bagnata e la pausa è stata lunga.
“Ora diminuisce, no, no… attenzione, attenzione!”. Ed ecco precipitare il grosso che m’investe di nuovo in parte.
“Non può durare a lungo… tenere, tenere!”.
Dopo un tempo che pare interminabile, diminuisce alquanto. Wiggerl sale; gli altri seguono e io posso proseguire. Mi duole la caviglia, devo essermela ferita durante la caduta. Rotta non può essere, se no mi farebbe ancora più male. Allora non importa, anche se duole.
Il colatoio diminuisce d’inclinazione, ma le possibilità d’assicurazione sono ancora più scarse. Siamo proprio verso la fine di questo tratto, quando udiamo ancora gli stessi richiami dalla cresta ovest. Faccio passare di nuovo la voce: “Non rispondete!”.
Abbiamo troppa esperienza di questo genere di cose. Dapprima sale un singolo, e quando sente qualcosa, l’intero apparato della spedizione di soccorso si mette in movimento. Ma date le dimensioni gigantesche della montagna, passerebbero ore prima che lui scenda e la colonna di salvataggio salga a sua volta. Nel frattempo possiamo uscirne da soli. Benché ognuno di noi abbia avuto qualche incidente, siamo tutt’altro che fuori combattimento.
Pure conforta il fatto che ci si preoccupi di noi (non possiamo sapere che la metà del mondo è in ascolto alla radio e che ogni notizia viene regolarmente trasmessa).
Poco dopo arriviamo alla fine del colatoio. Alle dodici ne raggiungo il termine. È l’una quando Kasparek, l’ultimo di cordata, viene fuori a sua volta.
Però, siamo ancora ben lontani dalla cima. Un ripido nevaio su cui adoperiamo gli ultimi chiodi, ci conduce in alto. Continua a nevicare sempre più fitto. Le valanghe precipitano ormai senza interruzione lungo la parete, ma non ci possono più colpire.
Più saliamo, più infuria la bufera. Non ci si sente alla distanza d’una lunghezza di corda. I nostri vestiti sono così irrigiditi che possiamo procedere solo con movimenti d’automa.
Anche l’ovatta termogena è ora completamente bagnata. Brucia terribilmente intorno alle ginocchia e fra le dita dei piedi. Questa ovatta è proprio come l’amore: al principio è dolce, dopo si raffredda e infine irrita terribilmente quando si vorrebbe cavarsela d’attorno e non si può. Infatti non riesco ad afferrarla con la mano senza spogliarmi. Ogni tanto mi prende un assalto di furore e faccio salti da caprone, che però non diminuiscono la tortura. Infine, rassegnato, procedo nella tempesta verso la vetta. La neve si accumula tra le punte dei ramponi. I piedi diventano insensibili.
Ma ormai siamo fuori dalla parete, e stiamo venendo a termine dell’impresa; le cose possono andare per il loro verso. I pericoli e le difficoltà della montagna sono stati superati, e la tempesta stessa non ci può più abbattere.
Tuttavia la nostra situazione non è piacevole, e poco manca che non precipitiamo sui gendarmi della cresta, quasi piana nella sua parte superiore.
Nella nebbia fitta sembra di salire. Raggiungiamo con serpentine l’ultimo pendio, spazzato dal vento e formato da ghiaccio vivo. Io faccio una nuova conversione e dopo pochi passi mi trovo fuori sulla cornice. Così pure Wiggerl qualche metro sotto di me. Improvvisamente urla: “Alt! Indietro! Sotto ci sono rocce!”
I contorni delle rocce si disegnano infatti assai debolmente sotto di noi – sul versante sud della montagna. Sarebbe stata una bella sfortuna: superare la parete nord e poi precipitare dalla Sud, per non aver scorto la cima!
Alle 15.30 siamo in vetta.
(Continua