Montagne d’Oriente
(il tema della montagna nelle culture orientali)
di Giangiorgio Pasqualotto
Premessa
La montagna nel contesto culturale occidentale
Il mondo culturale della Grecia classica, fonte primaria della cultura europea, non diede mai grande importanza alla montagna: dai Greci essa non venne mai considerata sacra di per sé, ma assunta come luogo abitato da alcune divinità e, di conseguenza, come spazio destinato a costruire templi e sacelli ad esse dedicati. In breve, in Grecia furono gli dei a rendere sacra la montagna, non il contrario. Altri due fatti testimoniano la scarsa importanza che i Greci accordarono alle montagne: il fatto che i confini territoriali venivano determinati dai fiumi, non dalle montagne; e il fatto che il luogo deputato per eccellenza all’esercizio della filosofia non fu mai la montagna, bensì la polis [1]. A distanza di secoli dai tempi di Platone e di Aristotele, il rapporto tra filosofia e montagna non è mutato quasi mai. Testimonianza esemplare di questo atteggiamento di indifferenza, se non addirittura di ostilità dei filosofi nei confronti dell’ambiente montano, è quella fornita da Hegel, il quale, in occasione di una sua escursione sulle Alpi Bernesi, descrive la montagna come “pura oggettività” dominata dalla noia del sempre-uguale, eccezione fatta per i pochi luoghi dove sia possibile riscontrare una minima presenza umana:
“Né l’occhio, né l’immaginazione su questi massi informi trovano un punto su cui quello possa sostare con piacere o quella possa trovare un’occupazione o uno spunto per il suo libero gioco. Solo il mineralogista trova materia per arrischiare avventate congetture circa le rivoluzioni di queste montagne. La ragione nel pensiero della durata di queste montagne o nel tipo di sublimità che si ascrive loro, non trova nulla che le si imponga o le strappi stupore e meraviglia. La vista di questi massi eternamente morti a me non ha offerto altro che la monotona rappresentazione, alla lunga noiosa del: è così [2]”.
Tra i rari filosofi occidentali che hanno riservato una particolare attenzione alla montagna ha un posto di rilievo Nietzsche [3], non solo nella misura in cui nell’opera Così parlò Zarathustra considera la montagna uno dei luoghi privilegiati che fanno da sfondo alla vicenda del protagonista [4], ma soprattutto per la propensione a giudicare positivamente l’ambiente montano in rapporto alla salute del corpo e dello spirito, come appare evidente da questi due celebri passi:
“Non siamo di quelli che riescono a pensare solo in mezzo ai libri, sotto la scossa dei libri – è nostra ferma consuetudine pensare all’aria aperta, camminando, saltando, salendo, danzando, preferibilmente su monti solitari o sulla riva del mare, laddove sono le vie stesse a farsi meditabonde. Le nostre prime questioni di valore, relativamente a libri, uomini e musica, sono di questo tenore:” è costui in grado di camminare? E ancor più di danzare? [5]”.
Chi sa respirare l’aria dei miei scritti sa che è un’aria delle cime, un’aria forte. Bisogna esser nati per respirare quell’aria, altrimenti si corre il rischio, non piccolo, di raffreddarsi, lassù. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa – ma che pace illumina le cose! Come si respira liberamente! Quanta parte del mondo sentiamo sotto di noi! – La filosofia, così come l’ho intesa e vissuta fino a oggi, è vita volontaria fra i ghiacci e le alture – ricerca di tutto ciò che l’esistenza ha di estraneo e di problematico, di tutto ciò che finora era proscritto dalla morale [6].
1. La montagna nel contesto culturale indiano
A differenza di quanto avvenne nella cultura greca classica e poi, in generale, in quella occidentale, nell’orizzonte culturale indiano antico, la montagna venne sempre considerata sacra in sé, e, per questo motivo meritevole di divenire dimora degli dei: la montagna non divenne sacra a causa della presenza o della manifestazione degli dei, bensì il contrario [7].
Il Monte Meru, considerato sacro ancora oggi nell’immaginario religioso di induisti, giainisti e buddhisti, costituisce un chiaro esempio del rapporto metafisico che, per la cultura indiana, lega l’uomo alla montagna: nella cosmologia indiana il monte Meru è posto al centro dell’universo, e addirittura ne costituisce il perno, in quanto asse che collega terra, cielo ed inferi. Se nella tradizione occidentale al concetto di montagna vengono quasi sempre associati il senso della verticalità e il significato dell’ascesa, in India, invece, la direzione della verticalità si accompagna sempre a quella dell’orizzontalità che lo rende centro della Terra ed all’Universo. Inoltre l’iconografia relativa al Monte Meru è sorprendente per i nostri consueti modi di rappresentarci la montagna, soprattutto perché il vertice che ci aspetteremmo posto in alto, è collocato in basso, mentre la base è collocata in alto, e raffigura un altopiano su cui sorge la città degli dei [8]. Questa rappresentazione tradizionale indiana riflette la peculiare prospettiva entro la quale la montagna assume significati fondamentali per gli esseri umani. Tale prospettiva tiene conto in primo luogo della differenza tra la montagna esteriore e quella interiore, tra la “montagna visibile-praticabile” e la “montagna invisibile”. La prima è quella che si può percorrere (e non necessariamente scalare) con il corpo; la seconda è quella in cui si sprofonda con la mente [9]. La vetta in quanto traguardo non è importante: è molto più importante il percorso, il cammino, ad ogni passo del quale si dovrebbe approfondire la conoscenza di ciò che si è. Il percorso, infatti, più che un’ascesa verso una realtà trascendente, rappresenta un’entrata o una discesa nella propria interiorità, uno sprofondamento nel proprio io, fino al punto in cui si realizza l’identità fra la propria anima individuale (Jivatman) e quella cosmica (Brahman). Pertanto nella cultura tradizionale indiana il modo più consueto per onorare la montagna non è quello di ‘conquistarla’ raggiungendo la vetta, ma è quello di aggirarla con una circumambulazione detta pradakśina durante la quale il pellegrino tiene il fianco della montagna alla sua destra [10].
Il cammino attorno alla montagna si costituisce dunque come percorso di trasformazione che non contempla necessariamente l’idea e la pratica della scalata né, tantomeno, quella di vincere la montagna, magari anche piantando sulla vetta un segno di tale vittoria. Queste due operazioni verrebbero considerate ‘negative’ o, comunque, non propizie, se non altro per due principali motivi: innanzitutto perché spingerebbero l’individuo fuori di sé, schiavo del desiderio di raggiungere e ‘possedere’ la vetta; in secondo luogo, centrando l’attenzione sull’impresa personale, esse farebbero dimenticare all’individuo che la montagna è sempre e comunque un segno concreto, tangibile e visibile del fatto che un singolo uomo è soltanto una parte – nemmeno centrale – dell’universo che lo circonda. Non solo. L’approccio tradizionale alla montagna in ambito indiano – ed orientale in genere – non esige che esso avvenga come una sfida “a tu per tu” con la montagna – sfida che comporta un’inammissibile prospettiva antropocentrica in cui la montagna viene considerata un avversario da vincere o una donna da conquistare – ma comporta che si svolga secondo due principali modalità: o in forma eremitica, vivendo sulla montagna in totale solitudine; o andando alla montagna in pellegrinaggio con una compagnia più o meno numerosa e organizzata [11]. E’ molto importante ricordare che, in entrambe queste modalità, non è previsto né gradito parlare dell’impresa – sia, prima, nella forma del progetto, sia, dopo, in quella del resoconto – cosa che, come è noto, è invece ritenuta parte integrante, anzi, spesso addirittura indispensabile nella quasi totalità degli approcci occidentali alla montagna. Questa differenza di atteggiamento risulta del tutto logica, considerando le premesse culturali di fondo che determinano l’approccio orientale alla montagna: essendo essa considerata sacra, nei suoi confronti si possono pronunciare solo parole di preghiera, oppure si deve stare in profondo silenzio [12].
Un altro fattore caratterizzante la visione e la funzione della montagna nella tradizione culturale indiana – come, del resto anche in quelle di Cina e Giappone – è dato dalla complementarietà tra montagna e acqua. Si legge a questo proposito nel Narada Purana (I, 11, 179c-182): “Tagliato dalla punta dell’alluce del dio, l’uovo di Brahma si spezzò in due parti. Attraverso quella spaccatura l’acqua degli spazi esterni sgorgò, divisa in molte correnti; quell’acqua, pura per aver lavato il piede di Vishnu, purificatore del mondo, abbracciato l’esterno dell’uovo di Brahma, assunse la forma di una corrente. Quell’acqua santa, eccellente, purificante Brahma e altri dei, onorata dai sette veggenti, discese sulla cima del monte Meru“. In base a questa associazione con l’acqua, la montagna svolge tre funzioni fondamentali: di generazione, di mantenimento e di dissolvimento. Se la percezione immediata della montagna ci trasmette i caratteri della stabilità, della solidità, e dell’immutabilità, non è da dimenticare che essa è anche luogo di ‘dissolvimento’, cioè di silenziosi mutamenti geologici e di fragorosi eventi ‘distruttivi’, come le frane e le valanghe che hanno origine dal lento ma inesorabile lavorìo dell’acqua, la quale rappresenta simbolicamente il perenne flusso dei mutamenti. La montagna ha inoltre a che fare con l’acqua perché spesso dai suoi fianchi sgorgano e scendono cascate che danno origine ai fiumi, i quali rendono fertili le vallate, le quali, a loro volta, consentono agli esseri umani e agli animali di nutrirsi e di vivere. Quindi, se la montagna considerata in stessa può suggerire soltanto la funzione della stabilità e del mantenimento, non appena venga associata all’acqua mostra le sue caratteristiche dinamiche della generazione e del dissolvimento. Il ghiaccio può essere considerato il fenomeno che meglio racchiude e significa queste tre funzioni: quella del mantenimento, in quanto solido; quella del dissolvimento, in quanto fattore di disgregazione delle rocce; quella della generazione, in quanto riserva e custodia d’acqua.
Se il Monte Meru è da ricordare come un protagonista fantastico della mitologia indiana, il monte Kailash è da considerare come la sua manifestazione concreta e visibile [13]. Già nei testi del Mahābhārata (3.503 e 3.1697) e dei Rig-veda (3.4.44 e 3.4.27) il monte Kailash è indicato come una cima dell’Himalaya; ma è soprattutto nella cultura religiosa tibetana che esso viene venerato e frequentato come vera e propria montagna sacra [14]. Tale sacralità è talmente forte e radicata che a tutt’oggi, almeno per quanto ci è dato di sapere, essa rimane, come si suol dire, ‘inviolata’: infatti nessuna spedizione risulta ufficialmente protagonista della sua conquista.
Il percorso circolare (pradakśina; in tibetano: kora o skor-ba) che viene compiuto in senso orario attorno al Kailash come prototipo di montagna sacra, costituisce la vera meta del pellegrinaggio. La lunghezza di questo periplo è di circa 50 km che possono essere percorsi in tempi diversi, a seconda del numero di soste effettuate e dei modi con i quali li si percorrono: per esempio, molti pellegrini buddhisti impiegano diversi giorni in quanto si prostrano a terra lungo tutto il percorso usando blocchi di legno per proteggere ginocchia e mani dalle asperità del terreno. Il punto culminante del pellegrinaggio è il Dolma La, un valico situato sul versante nordorientale del Mount Kailash, ad oltre cinquemila metri di altitudine. E’ interessante ricordare che, appena prima del valico, i pellegrini buddhisti lasciano indietro qualcosa di sé – un indumento, una ciocca di capelli, un dente – come segno tangibile del distacco dai desideri. Ma è la rinuncia a scalare la vetta del Kailash che va interpretata come il segno più forte ed eloquente, benché silenzioso, del distacco dalla potenza del desiderio, considerata dal Buddhismo fonte primaria di ogni sofferenza.
2. La montagna nel contesto culturale cinese
Anche nella cultura cinese classica enormi sono la presenza e l’importanza della montagna. Un indice significativo di questo valore attribuito alla montagna in Cina è dato, tra l’altro, dal fatto che la parola per significare “paesaggio” è shan shui, (山水), formata da due caratteri che indicano rispettivamente “montagna” (山) ed “acqua” (水). Le due parole non vengono semplicemente giustapposte: il loro legame in questo termine descrive un rapporto biunivoco simile a quello che sussiste tra yin e yang nel Taoismo, dove la presenza e la forza dell’uno è inversamente proporzionale alla presenza e alla forza dell’altro, ma dove nessuno dei due può esistere ed operare senza l’altro.
Anche all’interno della tradizione cinese possiamo riscontrare la presenza di montagne mitologiche che hanno a lungo sollecitato diverse interpretazioni circa la loro corrispondenza a montagne reali [15]. La principale ubicazione ipotizzata è quella che ha identificato le fondamentali montagne sacre in alcuni picchi dei monti Kun Lun (Kūnlún Shān, 崑崙山) che formano una delle più lunghe catene montuose asiatiche, la quale, partendo dal nord dell’altopiano del Tibet, seguendo il confine del territorio cinese, costeggiando il bacino del Tarim, il deserto di Taklamakan e infine il deserto del Gobi, misura circa 3000 chilometri. Almeno 1700 di questi 3000 km., sono considerati “terra degli immortali”. Anche il termine che viene tradotto con “immortale” o “santo” taoista richiama la montagna: infatti xianren (仙人) è composto dai caratteri di ‘uomo’ (人) e di ‘montagna’ (山). Lo si trova menzionato sia nel Daodejing, sia nello Zhuangzi e in numerosi testi taoisti del periodo dei regni combattenti (453-221 a.C.). Il termine designa esseri mitologici dai poteri sovrannaturali la cui residenza è solitamente immaginata in un luogo altrettanto mitico ma collocabile nella catena reale dei monti Kun Lun che costituisce – almeno per la corrente esoterica o ‘religiosa’ del Taoismo (Daojiao) – un paradiso fisico, realmente esistente ed esplorabile. Lo scopo di frequentare queste montagne è in primo luogo quello di sperimentare i propri limiti individuali, fino a perdere i riferimenti all’ego individuale e diventare in tal modo shén (神): tale termine ha un suo uso specifico nella medicina tradizionale cinese [16], ma in generale significa ‘spirito’. Nel Huainanzi, 淮南子 (II sec. a.C.), uno dei più importanti testi taoisti classici, troviamo le indicazioni da seguire per arrivare allo stato di immortalità: “I monti ‘Giardino pendente’, ’Vento Fresco’ e ‘Parco della Paulonie’ si trovano nella città di Kun Lun, di cui costituiscono i parchi. Salendo sul primo, il più basso dei tre picchi del Kun Lun, nominato ‘Vento Fresco’, si comincia a diventare immortali. Salendo sul secondo, due volte più alto del primo e nominato‘Giardino Pendente’, si diventa un mago capace di dominare vento e pioggia. Salendo sul terzo, due volte più alto del secondo e nominato ‘Parco della Paulonie’, si arriva direttamente al cielo e si diventa uno spirito divino (shen)”. Diete, ritmi e limitazioni servono a “costruire la pillola dell’immortalità”; ma, per quanto strano possa sembrare, questo non è che il primo livello della trasformazione psico-fisica perseguita; il secondo livello è quello in cui si giunge alla condizione di poter “dominare gli elementi”, dove, però, l’intento non è di servirsene o addirittura di appropriarsene, ma quello di comprendere e di praticare i modi per controllarli assecondandone l’azione. “Divenire immortali” significa in realtà giungere al terzo livello in cui si ottiene la qualità di “spiriti divini”, si diventa cioè assolutamente liberi, innanzitutto abbandonando le preoccupazioni per il futuro, i rimpianti per il passato e gli attaccamenti al presente. Per arrivare a questo livello sono meno necessarie profonde riflessioni razionali che esercizi di respirazione e di meditazione sulla respirazione stessa. Per quanto riguarda le modalità per eseguire correttamente gli esercizi respiratori è interessante ricordare che la concentrazione prevista deve vertere sull’ombelico inteso come monte nella sua funzione di centro dell’universo.
La montagna, nella prospettiva di queste pratiche taoiste, viene investita di un’importantissima funzione gnoseologica: serve per conoscere se stessi come parte necessaria all’intero universo, e viceversa, per conoscere tutte le altre parti dell’universo che risultano necessarie all’esistenza di quella singola parte che ciascuno chiama ‘io’. In questa chiave possiamo comprendere come molte opere di Shitao (1642-1718), uno dei più grandi pittori di paesaggio nella storia della pittura cinese, siano dedicate alla Montagna [17]. Nei suoi paesaggi i protagonisti pressoché assoluti sono la montagna in tutte le sue varianti (picchi, rocce isolate, vette lontane, colline vicine, forre, valli, ecc.) e l’acqua in ogni sua condizione o stato (onde e vapori, specchi di laghi, corsi di torrenti, scrosci di cascate, nuvole dense, foschie trasparenti, ecc.). In questi paesaggi la figura umana scompare quasi del tutto: è presente in dimensioni ridottissime e in posizioni marginali, oppure in modo allusivo mediante pochi tratti di pennello che indicano la presenza di un tetto, di una barca, di un attrezzo.
Anche in contesto cinese, come in quello hindu, ciò che conta nel rapporto dell’essere umano con la montagna è il cammino più che la meta finale [18]. Una significativa testimonianza di questa attenzione privilegiata al percorso è data dal fatto che sono ancor oggi aperti dei sentieri costruiti, a partire dal IV sec. a. C., secondo criteri che badano a come viene effettuato il cammino, più che alla sommità da raggiungere: a tale proposito non è un caso che il percorso sia costellato da numerosi templi e santuari – sia buddhisti che taoisti – che invitano alla sosta, alla preghiera e alla meditazione.
Le principali montagne sacre taoiste sono cinque:
- a est il Tai Shan, 泰山/泰山, “Montagna della Pace”, Dōng Yuè, “Grande Montagna dell’Est”, Provincia dello Shandōng, 1545 m;
- a ovest il Hua Shan, 華山/华山, “Montagna Splendente”, Xī Yuè, ”Grande Montagna dell’Ovest”, Provincia dello Shănxī, 1997 m;
- a sud il (Nan) Heng Shan, 衡山/衡山, “Montagna dell’Equilibrio”, Nán Yuè, “Grande montagna del Sud”, Provincia del Húnán, 1290 m;
- a nord il (Bei) Heng Shan, 恆山/恒山, “Montagna Perenne”; Běi Yuè, “Grande Montagna del Nord”, Provincia dello Shanxī, 2017 m;
- al centro il Song Shan, 嵩山/嵩山, “Montagna altera”, Zhōng Yuè, “Grande Montagna del Centro”, Provincia del Hénán, 1494 m.
Le principali montagne sacre del buddhismo cinese sono quattro:
- Wǔtái Shān,五 台山, “Montagna delle 5 terrazze”, Prefetura di Wutai, Shānxī, 3058 m, dedicato a Manjusri [in cinese Wenshu (文殊), in giapponese Monju], Bodhisattva della saggezza;
- Éméi Shān, 峨嵋山, “Montagna alta e nobile”, Prefettura di Leshan, Sìchuān, 3099 m, dedicato a Samantabhadra, [in cinese Puxian (普菩), in giapponese Fugen], Bodhisattva della verità;
- Jiǔhuá Shān, 九華山, “Montagna delle nove glorie”, Prefettura di Qingyang, Ānhuī, 1341 m, dedicato a Ksitigarbha, [in cinese Dìzàng, (地藏), in giapponese Jizō], Bodhisattva protettore di defunti e dei viaggiatori;
- Pǔtuó Shān, 普 陀山, “Monte Potalaka”, monte-isola a s/e di Shangai, Prefettura: Zhoushan, Zhèjiāng, 284 m, dedicato a Avalokiteśvara, [in cinese Guan Yin(觀音), in giapponese Kannon], Bodhisattva della compassione.
Una delle montagne cinesi più venerate è il Tai Shan che si affaccia sull’ampia pianura alluvionale del Fiume Giallo. Da tempi remotissimi i primi popoli Han adoravano in particolare, tra tutte le manifestazioni della natura, fiumi e montagne; e, tra le montagne, il Tai Shan ha sempre vantato un primato come oggetto di venerazione: tradizione vuole che il leggendario imperatore Shun, duemila anni prima dell’era cristiana, abbia reso grandi sacrifici al Cielo e alla Terra proprio al Tai Shan, e da allora la protezione imperiale di questa montagna è stata costante, anche se, d’altra parte, essa spesso costituì un rifugio per emarginati e ribelli. Sebbene sulla vetta del Tai Shan sorga il tempio dell’Imperatore di Giada, non è questo a rappresentare l’elemento più rilevante dell’ascesa, ma è la scalinata di 7000 gradini che ad esso conduce: anche qui, come nel caso del Kailash, è nel percorso che risiede il vero scopo dell’impresa. Il motivo è semplice: se si considera la conquista della vetta la parte più importante del pellegrinaggio, non è più la montagna nel suo insieme che viene onorata, ma solo una sua minima parte. Mentre è proprio la montagna in quanto tale, con la sua base, le sue pendici, i suoi anfratti e tutte le sue caratteristiche, che deve essere considerata oggetto di culto. Non è quindi strano che lungo il percorso sorgano numerosi templi – tra i quali quelli dedicati all’Imperatrice d’Occidente Wan Mu Chi e alla dea della Stella Polare Tai Mu – né deve apparire assurdo il fatto, davvero extra-ordinario, che ai piedi del monte Tai Shang sorga il Tempio della Vetta.
3. La montagna nel contesto culturale giapponese
In Giappone i riferimenti alla montagna sono stati presenti – e in parte ancora lo sono – in modo ancor più continuo e diffuso che in India e in Cina, tanto da coinvolgere, direttamente o indirettamente, pressoché tutte le manifestazioni della cultura [19].
Forse questa peculiarità dipende soprattutto dal fatto che la maggior parte del territorio nipponico è occupato da montagne e colline. L’idea di montagna è innanzitutto presente e protagonista al cuore della tradizione autoctona nipponica, ossia al centro della religione Shintō che, in termini assai semplificati, può essere considerata come una sorta di animismo, nel quale ogni elemento naturale viene inteso e trattato come divinità (kami). La montagna, assunta, al pari di ogni altra realtà naturale, come entità sacra, diviene nello Shintoismo realtà sacra per eccellenza, anche perché viene pensata e vissuta come sede privilegiata di molti kami, tra i quali hanno massima importanza quelli delle acque, in particolare quelli delle cascate. Anche in questo caso, come in quello della tradizione hindū, l’acqua viene ritenuta ‘creatura’ delle montagne che, a sua volta, dà vita alle piante, le quali aprono la catena alimentare necessaria a tutti gli esseri viventi. Sulla base di queste premesse culturali, la sacralità delle montagne è stata in Giappone talmente forte che per secoli sulle loro pendici hanno potuto essere edificati solo eremi, templi e santuari [20].
Anche nel Buddhismo giapponese, in particolare nella Scuola Shingon [21], la presenza della montagna è centrale, tanto che una forma di sincretismo religioso tra Shintō e Buddhismo Shingon ha prodotto l’originalissimo fenomeno degli yamabushi no gyoja (“praticanti che si trovano/nascondono tra le montagne”), detti più semplicemente yamabushi, monaci asceti che vivono in montagna seguendo in particolare la dottrina Shugendō [22], una combinazione di elementi taoisti, buddhisti e shintoisti. Gli yamabushi, noti anche con i nomi di kenja, kenza e shugenja, si addestravano in diversi tipi di arti marziali, soprattutto per difendersi dai banditi che infestavano i sentieri di montagna; ma svolsero una loro funzione anche come guaritori; e avevano inoltre il ruolo di sendatsu, cioè di guide materiali e spirituali per i pellegrini che percorrevano il Kumano Kodo verso il Kumano Sanzan [23]. Lo Shugendō (修験道; lett.: “la via del potere spirituale mediante l’ascesi”, da shu – pratica ascetica, gen – poteri spirituali, e dō – via, metodo) è una Scuola secondo la quale l’illuminazione consiste nel raggiungimento di un’unificazione mistica con i kami, in particolare con quelli che hanno a che fare con montagne, rocce e cascate. Si ritiene che il primo ad elaborare una dottrina dello Shugendō sia stato En no Gyōja, nato nel 634 d.C., a cui viene attribuito lo scritto non-canonico Sutra dell’infinita vita del Triplice Corpo. Nel 1613 (periodo Edo) si provvide a regolarizzare lo Shugendo associandone i templi a quelli delle Scuole del Buddhismo Shingon e Tendai [24].
Lo Shugendō, comporta durissime pratiche fisiche, e si richiama costantemente ad alcuni principi generali di matrice buddhista che in alcuni casi danno giustificazione teorica a tali pratiche. In particolare, lo Shugendō usa tre formule per connettere la realtà fisica del corpo ai contenuti della dottrina del Buddha:
1) sokushin jobutsu: accesso immediato del corpo alla natura di Buddha; 2) sokushin sokubutsu: identità del corpo fisico (in generale) e del Buddha; 3) sokushin ze butsu: identità del nostro corpo fisico e del Buddha [25].
Non è difficile notare come sia presente in queste formule una notevole assonanza con alcune tesi proprie del Buddhismo zen, quali l’immediatezza dell’illuminazione e l’identità dei contrari. Inoltre la centralità del corpo fisico sottintende, come nel Buddhismo chan e zen, la marginalità del sapere fondato sui testi scritti e sull’erudizione: “Il principio dello shugen non si stabilisce attraverso le parole, ma si trasmette solo da mente/cuore (shin) a mente/cuore; le spiegazioni dei Maestri s’appoggiano su dei testi, ma non è con delle frasi che si pratica questa Via (dello shugen) [26]”.
Uno dei rituali più duri previsti dallo Shugendō è quello della meditazione sotto la cascata (takishugyo o takigyo) [27]. A questo proposito sono da ricordare i significati simbolici che essa racchiude: in quanto costituita di acqua, ricorda l’elemento che, assieme alla montagna è alla base delle cosmologie shintō e buddhiste; è ovvio, poi, che il getto della cascata funziona, oltre che, materialmente, come sistema di radicale pulizia fisica, anche come sistema simbolico di purificazione mentale e morale; inoltre, il fatto che erompa dall’alto accentua il suo carattere di dono della natura agli esseri viventi; ma, nel contempo, sottomettersi alla sua forza di caduta significa riconoscere la superiorità della sua potenza attiva nei confronti delle forze umane, per non dimenticare mai che la natura è nostra signora e madre. In questa prospettiva uno degli scopi principali del takigyo sta nel misurare i limiti del proprio corpo: non solo in relazione alla capacità di sopportare la violenza del getto che investe il corpo dall’alto, ma anche e soprattutto in relazione alla capacità di resistere alla temperatura dell’acqua: il rituale, infatti, si svolge in prevalenza e di preferenza durante i mesi invernali, quando la temperatura dell’aria non supera i 5°. Dati i rischi di ipotermia che si possono correre, non è consigliato, soprattutto ai principianti, praticare il takigyo da soli: i compagni devono assistere ai vari gradi di avvicinamento alla cascata incoraggiando l’adepto con delle grida e restando pronti ad intervenire in caso di malori [28]. Un aspetto non solo fisiologico del takigyo coniste nel fatto che, per reagire alla violenta contrazione muscolare provocata dal getto d’acqua gelida, si è costretti ad attivare una respirazione più profonda possibile e, quindi, a rendersi massimamente attenti all’andamento del respiro, proprio come avviene, in condizioni meno ‘drammatiche’, durante la meditazione seduta (sanzen). Uno degli effetti più interessanti del takigyo è dato dal velo d’acqua che si forma e scorre davanti agli occhi: esso fa da filtro rispetto al mondo esterno e nel contempo da specchio in cui riflettersi; inoltre la cascata, come fosse un enorme braccio della montagna, sembra proteggere il corpo del praticante fino quasi a renderlo una sua parte integrante. In definitiva, nel takigyo si realizza una condizione quasi opposta a quella che si ha nella conquista della vetta: qui infatti non si intende in alcun modo ’possedere’ la montagna, ma ci sottomette ad essa e ci si lascia da essa incorporare. Sottomissione ed incorporamento che ribadiscono la radicale differenza di massa, di potenza e di valore che intercorre tra l’uomo e la montagna. Questa differenza non va mai dimenticata, anche se per lo Shugendō vi è una medesima natura che accomuna gli esseri divini, i demoni, gli spiriti in genere, gli uomini e tutti gli elementi dell’universo: pertanto un singolo essere umano, partecipando della stessa natura dell’universo, può diventare un essere divino; ma, paradossalmente, lo può fare solo se azzera ogni riferimento a se stesso, anche a quella nobile parte di sé che aspira a diventare divina! Questa rinuncia radicale può essere effettuata solo a patto che ci si sottoponga ad un severo e prolungato tirocinio che comporta, tra le altre pratiche ascetiche (gyo), anche quella costituita da un periodo di ritiro in montagna (mineiri o nyūbu shugyō), al culmine del quale rinasce come Fudō Myōō [29]. Tale rinascita presuppone una morte rituale, processo scandito nelle dieci fasi previste dal pellegrinaggio rituale akinomine (“picco d’autunno”) [30], tuttora praticato verso la fine di agosto sulle tre montagne di Dewa (prefettura di Yamagata): il Gas-san 1984 m, lo Yodono-san 1504 m e lo Haguro-san 419 m. Oggi l’akinomine dura 9 giorni, ma una volta durava 75 giorni e comprendeva durissime prove fisiche e meditative che si svolgevano in stato di quasi totale astinenza da cibo e acqua. L’akinomine prevede l’ascesa fisica della montagna sacra alla quale corrisponde una progressione spirituale verso la conoscenza ultima. Ai diversi livelli meditativi – che comportano anche la recitazione di corrispondenti passi tratti da scritti sacri – vengono associati diversi stati di esistenza che corrispondono a diverse tappe del cammino: partendo dal basso si attraversano in successione (1) gli stati infernali, (2) il regno degli spiriti famelici, (3) il Regno degli animali, (4) il Regno degli asura (demoni), (5) il Regno degli uomini, (6) il Regno delle divinità, (7) il mondo degli shomon, quelli che hanno raggiunto l’illuminazione ascoltando direttamente le parole di Buddha, (8) il mondo degli engaku, quelli che hanno raggiunto l’illuminazione solo con le loro proprie forze, (9) il Regno dei bodhisattva [31], e infine (10) il nirvāna. I primi sei stadi costituiscono i regni dell’infinito ciclo delle esistenze (samsāra), mentre gli ultimi quattro costituiscono i regni dell’illuminazione. Il passaggio dai primi ai secondi viene evocato dal rito dello hitori-sumo [32], rappresentazione di una lotta contro le proprie illusioni e i desideri di onnipotenza che vengono mimati con i passi della ennenmai (danza dell’immortalità). Alla fine dell’akinomine si torna al punto di partenza e viene officiata la cerimonia finale detta genjutsu, che prevede la dimostrazione dei poteri ottenuti con l’ascesi, simili a quelli di Fudō Myōō [33].
Come si evince dal caso del pellegrinaggio rituale akinomine, anche nella tradizione giapponese– come in quelle dell’India e della Cina [34] – nelle pratiche previste dal culto della montagna si dà maggiore importanza e valore al percorso che all’ascesa. Per i monaci yamabushi lo scopo dell’andare in montagna non è la conquista della vetta, ma il percorso scandito in tappe che corrispondono a ‘stazioni’ dello sviluppo spirituale: il percorso può anche culminare nella vetta, ma la meta va pensata e vissuta come presente in ogni passo (“ad ogni passo c’è la meta”). Questo aspetto può essere spiegato ricordando alcuni elementi fondamentali della dottrina buddhista. Il primo riguarda l’importanza dell’attenzione a ciò che accade “qui e ora”, ad ogni momento presente e a tutto ciò che esso include; in particolare, osservando attentamente le cose presenti lungo il cammino (pietre, rami, nuvole, acque, ecc.), possiamo renderci conto che nessuna di esse è autonoma e isolata, ma ciascuna è in varie maniere collegata alle altre; ogni passo, cioè, ci svela la natura anattā (giapp. muga) di ogni realtà. Il secondo elemento riguarda l’importanza di prestare attenzione al carattere transitorio di ogni cosa: ogni passo ci svela la natura mutevole e impermanente (anicca; giapp.: mujo) di tutto ciò che percepiamo. Non solo: il camminare ci svela anche la natura ‘relazionale’ e provvisoria del nostro percepire. Pertanto il camminare diventa un esercizio particolarmente efficace per renderci conto della natura relazionale e provvisoria sia della realtà sia dell’esperienza che ne facciamo. In tal senso ogni ‘escursione’ diventa allora un pellegrinaggio che svela e rafforza questa natura fatta di elementi interconnessi e di momenti transitori. A questo proposito uno dei passi più significativi della letteratura buddhista che parla di montagne è sicuramente il Capitolo XXIX dello Shōbōgenzō di Dōgen, intitolato Sansuikyo (“Sutra di fiumi e montagne”) [35], dove si può leggere:
“Tanto nel passato quanto nel presente, le montagne sono la dimora dei grandi saggi. (…) Scorrono la terra e il cielo da cima a fondo, scorrono le anse di un fiume e così le pozze più profonde. Sopra le nuvole e sul fondo dei fiumi, tutte le cose fluiscono. (…) Così come le verdi montagne non sono né animate né inanimate, così siamo noi; comprendendo questo, non vi saranno dubbi sul movimento delle verdi montagne. Esse devono essere considerate in rapporto al mondo intero”.
Note
(1) Cfr. Domenico Accorinti, La montagna e il sacro nel mondo greco, in La montagna cosmica a cura di Alessandro Grossato, Milano, Medusa, 2010, pp. 17-42.
(2) Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Diario di viaggio sulle Alpi Bernesi, tr. di Tomaso Cavallo, Pavia, Ibis 1990, p. 57.
(3) Su Nietzsche e la montagna cfr. Luisa Bonesio, La terra celeste in Id., La terra invisibile, Milano, Marcos y Marcos, 1993; ma, in particolare, Caterina Resta, Il Luogo del pensiero: Nietzsche e la montagna, in Antonio Stragà (a cura di), Oltre le vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna, Il Poligrafo, Padova, 2000, pp. 33-58. E’ noto che Nietzsche soggiornò in Engadina, a Sils Maria 1802 m tra il 1881 e il 1889.
(4) Cfr. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. di Mazzino Montinari, Milano, Adelphi, 1968, p.185: “Io sono un viandante che sale sui pei monti, diceva al suo cuore, io non amo le pianure e, a quanto sembra, non mi riesce di fermarmi a lungo”.
(5) Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 366, tr. Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1965, pp. 241-242. Cfr. Anche Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, tr. di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1970, p. 289: “Star seduti il meno possibile: non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento – che non sono una festa anche per i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra – l’ho già detto una volta – è il vero peccato contro lo spirito santo”.
(6) Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, cit., Prologo § 3, p. 266.
(7) Cfr. Giangiorgio Pasqualotto, L’immagine della montagna nelle culture orientali, in Antonio Stragà (a cura di), Oltre le vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna, cit., pp. 91-106. Tra i recenti contributi al chiarimento dei significati della montagna nel contesto dell’India classica e del sud-asiatico merita particolare attenzione quello di Claudio Cicuzza, Peculiarità dell’idea di ‘Sacro Monte’ e di ‘pellegrinaggio’ nel Buddhismo dell’India e del sud-est asiatico, in Religioni e sacri monti, a cura di Amilcare Barbero e Stefano Piano, Torino, Atlas, 2004, pp. 215-246 (8) Secondo una cosmografia consolidata il monte Meru ha una forma di tronco di cono con la base in alto che fa da piattaforma agli dei o ai Buddha (cfr. Tangka del Trongsa Dzong, Trongsa, Bhutan). Alla base del Meru è situato il continente Yambu Duipa formato da quattro regioni e circondato da sette territori concentrici ognuno dei quali è separato dall’altro da un oceano: il più interno di questi sette oceani – l’unico di cui gli esseri umani siano a conoscenza – è di acqua salata; gli altri, nell’ordine, sono di succo di canna da zucchero, di vino, di ghi (burro chiarificato), di cagliata, di latte e di acqua dolce. E’ interessante ricordare che il testo Suria siddhānta parla di un monte Meru posto al centro della Terra e di altri due monti, il Sumeru (Meru Buono) e il Kumeru (Meru Cattivo) posti ai due poli. Sui motivi per cui la forma del monte Meru potrebbe essere associata a quella di una gigantesca coscia, cfr. A. Grossato, Alcuni aspetti simbolici e morfologici del Monte Meru, in La montagna sacra, cit., pp. 91-96.
(9) A questo riguardo vanno tenute presenti le acutissime osservazioni svolte da Adone Brandalise a proposito dell’opera di Farid Ad-din Attar, Il verbo degli uccelli, a cura di Carlo Saccone, Milano, Adelphi, 1986, sviluppate in Monti analoghi, in Oltre le vette, cit., pp. 121-135; cfr., in particolare, p. 131: “In altri termini, possiamo guardare l’esercizio del salire come qualcosa di diverso dal tendere ad uno specifico obiettivo, come partecipazione invece ad una dimensione ulteriore, che però costituisce l’elemento essenziale di tutte le situazioni in cui noi siamo mentre stiamo salendo”.
(10) Pradakśina significa letteralmente “alla destra”.
(11) In Europa uno dei rari esempi di pratica della montagna coniugata ad un approccio buddhista che esime da ogni retorica alpinistica è quello di Engaku Taino, al secolo Gigi Mario, Maestro della Scuola zen Rinzai, che non a caso ha denominato la propria scuola “Scuola della montagna” e non “Scuola di alpinismo” in base alla scelta di insegnare a “partecipare senza essere condizionati dal vincere”, nella convinzione che “Lottare per vincere è lottare per sopraffare, e la sopraffazione non porta alla comprensione, alla comunicazione. Se noi lottiamo contro la montagna vuol dire che non riusciamo a comunicare con essa, e questa lotta è generata dal nostro desiderio d’ingrandire la nostra personalità, e più la nostra personalità si ingrandisce, più le cose che ci circondano non vengono viste, non si riesce a comunicare con la montagna, con le persone che ci circondano (Testo della conferenza ”Sull’andare in montagna e lo zen” tenuta al CAI di Bolzano il 1 ottobre 1976, raccolta in Engaku Taino, Il Libro di Scaramuccia, Scaramuccia, Associazione Zenshinji, 1978, pp. 134-136)”. Cfr. anche Engaku Taino, L’arte di arrampicare in roccia e lo zen (1965), in Le mani e i piedi di Buddha, Scaramuccia, Associazione Zenshinji, 1990, pp. 7-15.
(12) Questi modi tradizionali di intendere il rapporto con la montagna sono assai diversi da quelli più consueti nella cultura alpinistica occidentale che ha sempre privilegiato la scalata come conquista, e la ‘relazione’ dell’impresa come essenziale alla gloria di chi l’ha compiuta; in particolare, questi modi tradizionali sono opposti a quelli rappresentati dal cosiddetto ”alpinismo eroico” che in Italia venne praticato da Comici (cfr. Emilio Comici, Alpinismo eroico, Milano, Hoepli, 1942) e venne in seguito pervertito nell’esaltata visione razzista e maschilista di Evola (cfr. Julius Evola, Meditazioni delle vette, La Spezia, Edizioni del Tridente, 1971). Su alcune implicazioni ideologiche dell’alpinismo eroico in ambito tedesco ed austriaco cfr. Ronald Lutz: Triumph des männlichen Willens, Helden, Kampf und Krieg im Bergsport, in “Forum Wissenschaft“, 2/2002.
(13) Il monte Kailash (Kailāśā Parvata) è una montagna dei monti Gangdisê che fanno parte dell’Himalaya nel Tibet occidentale. Dal Kailash nascono e scendono alcuni dei fiumi più lunghi dell’Asia: l’Indo, il suo affluente Sutlej, il Brahmaputra, e il Karnali, un affluente del Gange. Sul Kailash e sulla sua importanza dal punto di vista spirituale, si vedano in particolare Anagarika Govinda (Ernst Lothar Hoffman), La via delle nuvole bianche, tr. Riccardo Salierno Prats, Roma, Ubaldini, 1981; Robert A. F. Thurman – Tad Wise, La montagna sacra, tr. Giovanna Albio, Milano, Neri Pozza 2000; Olga e Arnaud de Turckheim, Au pays des pierres qui parlent: Voyage dans l’Himalaya du mont Kailash à Kathmandu, Arles, Actes Sud, 2006; Rosa Maria Cimino, Kailash, la montagna degli dèi. Pellegrinaggio in Tibet sulle orme di Giuseppe Tucci, Roma, IsIAO – De Luca Editori d’Arte, 2006; Milena Carrara Pavan – Raimon Panikkar, Pellegrinaggio a Kailasa, Sotto il Monte, Servitium, 2006; Bruno Baumann, Kailash: Tibets heiliger Berg, Munich, Piper 2010; Thubron Colin, Verso la montagna sacra. Il monte Kailash. Un pellegrinaggio in Tibet, tr. Alessandro Peroni, Firenze, Ponte alle Grazie, 2011.
(14) Più precisamente, il Kailash è venerato come montagna sacra 1) dai tibetani seguaci della religione pre-buddhista Bön, secondo i quali sul Kailash discese dal cielo Thonpa Shenrab, il fondatore della loro religione; 2) dagli indū, i quali considerano il Kailash dimora di Shiva e della sua compagna Parvati; 3) dai buddisti, per i quali il Kailash è la dimora della divinità tantrica Chakrasamvara e della sua compagna Vajravarahi; 4) dai jainisti, i quali lo adorano come Monte Ashtapada, il luogo dove ricevette l’illuminazione Rishabanatha, il venerato saggio fondatore della loro religione.
(15) Sulle principali interpretazioni alla ricerca di tale corrispondenza cfr. Riccardo Fracasso, Visioni del Kunlun: axis mundi e giardino edenico, in La montagna cosmica, cit., pp. 99-125.
(16) Dove viene associato all’organo cuore e all’emozione gioia. Per un’ottima sintesi dei significati di shen cfr. Attilio Andreini, Categorie dello “spirito” nella Cina pre- buddhista in Maurizio Pagano, Lo Spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture, Milano, Mimesis, pp. 71-107.
(17) Su Shitao si veda Marcello Ghilardi (a cura di), Shitao. Sulla pittura, Milano, Mimesis, 2009.
(18) Cfr. i resoconti di Xu Xiake (徐霞客,1587-1641), Peregrinazioni in luoghi sublimi, tr. Giovanna Baccini, Milano, Rizzoli 1997.
(19) Tra tutte queste manifestazioni una delle più interessanti è senz’altro il suiseki, in particolare il tennen kiseki, ossia la disposizione – su un vassoio riempito di acqua o cosparso di sabbia fine – di una pietra che richiami la forma di una montagna o di una catena montuosa. Sul suiseki ci siamo soffermati in Giangiorgio Pasqualotto, Figure di pensiero, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 131-139.
(20) Per lo Shintoismo il monte sacro per antonomasia è il Monte Fuji 3776 m (富士山, Fuji- san o Fujiyama), il più alto del Giappone. E’ previsto che un buon fedele faccia nella propria vita almeno un pellegrinaggio sulle sue pendici. La montagna è tanto celebre che è stata oggetto di infinte rappresentazioni artistiche, tra le quali vanno ricordate le 36 vedute di Utagawa Hiroshige (歌川 広, 重1797 – 1858) e quelle di Katsushika Hokusai (葛飾北斎; 1760 –1849).
(21) La Scuola Shingon (Shingon–shū) fu fondata nell’anno 806, durante il periodo Heian (794-1185) dal monaco Kūkai (774-835) che fondò anche il tempio Kongōbuji sul monte Kōyasan, nella provincia di Kii (prefettura di Wakayama). Kūkai, autore, tra l’altro, di un “Trattato sui dieci stati della mente” (Jūjūshinron), va ricordato anche per aver fondato a Kyoto una delle prime istituzioni scolastiche popolari, lo Shugei shuchiin.
Particolarmente interessante è la parte del suo insegnamento dedicato all’“analisi in profondità” (jūhangyō) che distingue i dieci stati della mente (jūjūshin) che spesso vengono tenuti presenti come altrettante tappe nei pellegrinaggi rituali in montagna:
1) “la mente del profano e di chi è simile ad una pecora” (Ishōteiyōshin): la mente di chi desidera appagare esclusivamente i propri istinti;
2) “la mente del bambino sciocco che si astiene” (Gudōjisaishin): la mente di chi si attiene ai precetti morali in modo meccanico. Questo livello corrisponde alla via dell’azione sociale predicata soprattutto dal Confucianesimo;
3) “la mente con la temerarietà di un bambino” (Yōdōmuishin): la mente di chi segue la via della venerazione degli dei predicata e praticata soprattutto dall’Induismo e dal Taoismo religioso;
4) “la mente che comprende la Non-Esistenza del Sé e l’Esistenza degli Aggregati” (Yuiunmugashi): la mente di chi è consapevole di esistere come insieme di aggregati contingenti e relativi; è questo il livello in cui si comprendono le Quattro Nobili Verità;
5) “la mente in cui i semi del Karma sono sradicati” (Batsugōinshushin): la mente di chi comprende la teoria di coproduzione condizionata. Essa corrisponde all’ideale dell’arhat previsto dal Buddhismo Hīnayāna;
6) “la Mente del Mahayāna che desidera il Bene degli Altri” (Taendaijōshin): la mente di chi non cerca la liberazione solamente per sé ma anche per gli altri. Ad essa corrisponde il primo livello del Buddhismo Mahāyana e l’ideale del Bodhisattva che fa voto di non entrare nel nirvāna fino a quando tutti gli esseri senzienti non siano salvati;
7) “la Mente Conscia della Verità che la Mente non è Prodotta” (Kakushinfushōshin): la mente di chi non separa più soggetto ed oggetto;
8) “la Mente dell’Unica Via della Non-Azione” (Ichidōmui): la mente di chi coglie la non-nascita, la non-estinzione, la non-cessazione, la non-permanenza, la non- uniformità, la non-diversità, il non-arrivo, la non-partenza;
9) “la Mente che realizza l’Assenza della Natura del Sé” (Gokumujishōshin): la mente che comprende realtà fenomenica e realtà assoluta si compenetrano reciprocamente;
10) “la Mente Adorna dei Misteri” (Himitsushōgonshin): è la mente di chi segue la Scuola Shingon. A questo livello si utilizzano non solo esercizi meditativi ma anche pratiche corporee che implicano gesti rituali (mudrā), vocalizzazioni (mantra) e visualizzazioni (mandala).
Sulla Scuola Shingon cfr. Philip Kapleau, I Tre Pilastri dello Zen, tr. Nazareno Ilari, Roma, Ubaldini Editore, 1981; Gauri Devi, Esoteric Mudrās of Japan, New Dheli, Goel for Aditya Prakashan, 1999; Henry van der Veere, Kōgyō Daishi Kakuban, Leiden, Hotei Publishing, 2000.
(22) Attualmente i templi più importanti dello Shugendō sono il Kinpusen-ji (provincia di Yoshino) associato alla Scuola Tendai, e il Daigo-ji (Fushimi ku, Kyoto) associato alla Scuola Shingon. Tradizionalmente tra i praticanti dello shugendō (shugenjia) si annoverano, oltre agli yamabushi, gli ubasoku, monaci non ordinati; gli hijiri, viandanti solitari; e anche musicanti ciechi, esorcisti, eremiti e sciamani.
L’attrezzatura dello shugenjia è costituita da 1) Tokin: copricapo cilindrico nero; 2): Suzukake: mantello di canapa; 3) Yuigesa: quadrato di stoffa da mettere sulle spalle; 4) Hora: conchiglia per suonare la sveglia o l’adunata; 5) Irakata)nenjyu: rosario a 108 grani; 6) Shakujō: bastone con in cima degli anelli; 7) Kai noo: cordoni appesi alla conchiglia: uno di 15 cm simboleggia il Buddha come “corpo di conoscenza” (chi tai jo butsu); l’altro, lungo 112 cm, simboleggia il Buddha come “corpo della ragione innata o Assoluto” (ri tai soku butsu); 8) Hokikan: scatola portaoggetti; 9) Hisen: ventaglio per attizzare il fuoco; 10) Yatsumewaraj: sandali di paglia; 11) Tekō : bracciali; 12) Hisshiki: quadrato di pelle di daino per sedersi; 13) Kyahan: gambali. Sullo Shugendo cfr. Renondeau, Le shugendo, histoire, doctrine et rites des anachorètes dits yamabushi, in “Cahiers de la Socieé Asiatique”, XVIII; e Miyake Hitoshi. The Mandala of the Mountain: Shugendō and Folk Religion. Tokyo, Keio University Press, 2005.
(23) Kumano Kodo è un itinerario attraverso una serie di luoghi sacri delle montagne dello Yoshino che hanno il loro luogo più importante nel Kumano Sanzan costituito da tre montagne con i relativi santuari: Kumano Hayatama Taisha, (prefettura di Wakayama, Shingu), Kumano Hongu Taisha (prefettura di Wakayama), e Kumano Nachi Taisha (prefettura di Wakayama, Nachikatsūra), collegati da un sentiero chiamato “Kumano Sankeimichi”.
(24)1 La Scuola Tendai (Tendai-shū ) è un’importantissima Scuola giapponese del Buddhismo Mahāyāna. Fondata da Saichō, discende dalla Scuola cinese Tiāntái conosciuta anche come Scuola del Sutra del Loto fondata da Zhìyǐ nel VI secolo. I primi insegnamenti della Scuola Tiāntái furono portati in Giappone intorno alla metà dell’VIII secolo dal monaco cinese Jiànzhēn (688-763). Nell’805, il monaco giapponese Saichō ritornò dalla Cina con ulteriori insegnamenti cinesi della Scuola Tiāntái e fece del tempio Enryaku-ji, sul Monte Hiei, il centro della Scuola Tendai. Nel primo periodo della sua storia la Scuola, anche grazie alla protezione da parte della famiglia imperiale, fu determinante per tutto il Buddhismo giapponese: gran parte delle Scuole buddhiste giapponesi ancor oggi esistenti furono fondate da monaci che provenivano dalla Tendai: Nichiren (1222-1282), fondatore della Nichiren shū, antesignana della Soka Gakkai; Hōnen (1133-1212), fondatore della Jōdo shū; Shinran (1173-1263), fondatore Jōdo shin-shū; Eisai (1141-1215), fondatore della Zen Rinzai- shu e Dōgen (1200-1253), fondatore della Zen Sōtō shū. La Scuola Tendai divenne talmente potente che il tempio Enryaku-ji sul monte Hiei si trasformò in un centro non solo religioso ma anche politico e militare, al punto che nel 1571 Oda Nobunaga (1534-1582), l’iniziatore dell’unificazione del Giappone, lo distrusse ed eliminò i monaci guerrieri (sōhei). Il tempio fu poi ricostruito ed ancor oggi è il più importante della Scuola Tendai. Gli insegnamenti della Scuola si basano soprattutto sulla teoria della Triplice verità (enyū santai), un’elaborazione della dottrina del grande pensatore indiano Nāgārjuna (II sec. d.C.) per la quale vi è una Verità assoluta (sans.: paramārtha-satya ; giapp.: kūtai) che ci mostra che ogni realtà è vuota di sostanza propria e impermanente; ma anche che tale Verità assoluta si basa su una Verità convenzionale (sans.: saṃvṛti-satya, giapp.: ketai) che ci fa apparire le singole realtà come autoconsistenti e permanenti. La sintesi di queste due Verità sta in una Verità detta “verità di mezzo” (sans.: mādhya-satya, giapp.: chūtai). La Scuola Tendai sostiene, inoltre, che tutti gli esseri, essendo espressioni della natura di Buddha (sans.: buddhatā; giapp.: busshō), possono realizzarla mediante l’Illuminazione (sans.: bodhi, giapp.: bodai) nel loro corpo e nella loro vita. Secondo la Scuola Tendai anche le divinità della tradizione shintoista (Kami) sono manifestazioni della natura di Buddha, e persino molte attività profane (arti, mestieri, pratiche del corpo, ecc.) possono far giungere all’Illuminazione. In particolare, la Scuola Tendai si basa su alcune dottrine specifiche: 1) la dottrina dell’ichinen sanzen (“tremila mondi in un istante di vita”) contenuta nel Sutra del Loto, secondo la quale in un solo pensiero vi sono tremila, per non dire infinite, condizioni esperibili: le 10 condizioni di esistenza (“Dieci mondi”, giapp.: jùkai) – da quella infernale a quella di Buddha – vanno moltiplicate per se stesse in quanto ciascuna implica le altre nove. Queste cento condizioni di esistenza vanno poi moltiplicate per le 10 ‘talità’ (sans.: tathātā; giapp.: nyoze jissō) che consistono in: caratteristiche, natura, essenza, forza, azione, causa, condizione, retribuzione, frutto ed equivalenza di ciascuna rispetto alle altre nove. Queste mille realtà (dharma) vanno poi moltiplicate per i tre mondi (sans.: loka; giapp.: se): quello dei cinque aggregati (sans.: pañca skandha; giapp.: goun); quello degli esseri (sans.: sattva; giapp.: shūjō) costituiti dai cinque aggregati; e quello costituito dai luoghi in cui essi vivono (sans.: talima; giapp.: ji). Si raggiunge così il numero di tremila mondi (sans.: tri-sāhasra; giapp.: sanzen). Ciascuno di questi mondi è vuoto di sostanza propria ed impermanente. 2) La dottrina dell’hongaku (illuminazione originaria) la quale sostiene che ogni cosa possiede un’illuminazione intrinseca, originaria (giapp.: hongaku), che non va mai opposta agli aspetti oscuri e negativi, pena il cadere in una visione dualistica della realtà, già criticata da Nāgārjuna. Pertanto l’illuminazione non avviene in un mondo a venire e superiore, ma può realizzarsi in ogni cosa ed in ogni momento di questo mondo. La dottrina dell’hongaku venne ripresa da Dōgen, fondatore della Scuola Zen Sōtō. 3) La dottrina del taimitsu consiste nel credere che l’efficacia delle pratiche esoteriche sia equivalente a quella della meditazione. Questo consentì alla Scuola Tendai di diventare assai più popolare della Scuola Shingon. 4). La pratica dello shikan si rifà alla tecnica meditativa indiana del śamatha-vipaśyanā che permetterebbe di penetrare la Triplice verità e di raggiungere l’illuminazione senza rinviare a qualche divinità trascendente e senza rinunciare agli impegni della vita quotidiana. Lo shikan prevede che meditazione e riflessione vadano attivate assieme «come le due ruote del carro e le due ali di un uccello. Praticarle parzialmente è male».
Sulla Scuola Tendai cfr. Paul L. Swanson, Foundations of T’ien-T’ai Philosophy: The Flowering of the Two Truths Theory in Chinese Buddhism, Fremont (Ca.), Asian Humanities Press, 1989; Jacqueline Stone, Original Enlightenment and the Transformation of Medieval Japanese Buddhism, Honolulu, University of Hawaii Press, 1999; Brook Ziporyn, Evil and/or/as the Good: Intersubjectivity and Value Paradox in Tiantai Buddhist Thought, Harvard, Harvard University Press, 2000; Id., Tiantai School in Encyclopedia of Buddhism, R. E. Buswell (ed.), New York, McMillan, 2004.
(25) In altri termini, si tratta 1) del principio che l’Assoluto esiste in potenza in ogni determinazione relativa (rigu jobutsu); 2) del principio secondo cui l’illuminazione può ottenersi usando le giuste parole per ricevere la benedizione (kaji) del Buddha; 3) del principio secondo cui anche i profani possono ottenere l’illuminazione facendo emergere e nutrendo i ‘semi’ della loro natura di Buddha (kentoku jobutsu).
(26) Masahiro Asada (a cura di), Shugen-sanjusantsu-ki e Shugen-shuyo hiketsu-shu, Yokohama, Okurayama Oriental Research Institute,1990, pp. 225-247. E’ evidente l’assonanza si queste parole con la celebre formula cara alla tradizione del Buddhismo zen: “I shin-den shin (以心伝心): “con un cuore/mente comunicare ad un (altro) cuore/mente” o, più semplicemente, “comunicare da cuore a cuore”.
(27) Gyo sono chiamate quelle tecniche che permettono di liberarsi dai comportamenti condizionati del corpo e della mente. Oltre alla meditazione sotto alla cascata, esse comprendono pellegrinaggi e diverse forme di dieta: astensione dalle carni (nikudachi); astensione dai cibi salati (shiodachi); astensione dai cinque cereali, (kokudachi: riso, frumento, miglio, orzo e avena). Particolarmente dura è la “dieta delle tre essenze” (mokujiki) che prevede di poter sopravvivere nutrendosi solo di nocciole, cortecce tenere e pinoli. Agli asceti di montagna che riuscivano nell’impresa veniva attribuito il titolo di mokujiki shonin (“Santi dei tre elisir”). Ma la forma di dieta estrema è quella praticata dai shokushimbutsu” (Buddha mummificati) che programmavano una serie di digiuni progressivi fino al digiuno totale e poi alla morte. A coloro che praticavano questa forma di suicidio rituale (daniki) veniva riconosciuto, dopo la morte, la condizione di nyugio, stato di sospensione della vita in attesa del Buddha del futuro Maitreya. Questa forma di suicidio rituale è ancor oggi praticato – col nome di sallekhana – da qualche seguace del jiainismo, come testimonia il drammatico resoconto che ne fa William Dalrymple, Nove vite, tr. Svevo D’Onofrio, Milano, Adelphi 2009, pp. 23-54. Una terribile testimonianza del rispetto accordato dalla tradizione giapponese alla montagna è data dalla pratica dell’obasuteyama, ossia dell’abbandonare un anziano in una grotta di montagna. Pare che tale pratica si sia limitata in passato a pochi casi e solo durante periodi di siccità o di carestia, ma segnala il fatto che la montagna veniva assunta come luogo privilegiato dove morire. (Su questa pratica si veda lo stupendo film di Shôhei Imamura, La ballata di Narayama, Narayama-bushi-ko, del 1983.
(28) Prima di andarsi a mettere sotto la cascata si eseguono alcuni esercizi di riscaldamento: torifune, movimenti simili a quelli di chi rema stando in piedi, accompagnati dal grido “Ei!!! / Oh!!!”; furitama, scuotersi l’addome con entrambe le mani; otakebi, pronunciare a gran voce, rivolti verso la montagna, il nome di un kami (“haraedo no kami!!!”).
(29) I Myōō, in origine divinità hindū, sono guerrieri e divinità irate che rappresentano il potere del Buddismo di dominare le passioni. Cinque Myōō sono considerati emanazioni dei Cinque Buddha della Sapienza (sans.: Dhyani Buddha; giapp.: jina) che stanno a guardia delle quattro direzioni cardinali e del centro. Introdotti in Giappone nel IX sec. dalla Scuole buddhiste Shingon e Tendai, il loro ruolo è fondamentale nel Buddhismo esoterico giapponese (Mikkyo 密 教). Fudō Myōō, il Myōō più importante, protettore degli yamabushi, nei mandala è sempre posto al centro come personificazione di Dainichi Nyorai (equivalente del Buddha Vairocana nel Buddhismo indiano e tibetano). Il suo compito è di trasformare la rabbia in salvezza: per questo è sempre raffigurato col volto furioso, con la mano destra che tiene una spada per indicare la saggezza che taglia l’ignoranza, e con la mano sinistra che tiene una corda per catturare e legare i demoni; talvolta è rappresentato con in mezzo alla fronte un terzo occhio che vede tutto, e seduto su una roccia, per indicare la solidità della sua fede.
(30) Cfr. il film-documentario Shugen – Hagurosan Akinomine (2004) del regista Kitamura Minao che mostra per la prima volta il rituale del ritiro completo akinomine.
(31) Letteralmente: “essere (sattva) illuminazione (bodhi)”.
(32) Letteralmente: “combattere da soli”.
(33) Altri modi per identificarsi con Fudō Myōō si possono praticare nei rituali shintō dedicati ai kami, e durante i matsuri (feste) per il sole, la luna, le stelle: in particolare, nel rituale kuyōhō, lo yamabushi invita Fudō a scendere sull’altare e ad entrare nel proprio corpo. E’ interessante notare che l’altare viene inteso alla stregua di una montagna, come dimora delle divinità e come ponte tra il mondo umano e quello divino.
(34) Anche in Giappone alcuni pellegrinaggi (mine iri) sono molto lunghi (dai 170 ai 360 km) e richiedono un notevole periodo di tempo per essere compiuti (da un mese fino a tre mesi). I principali sono 1) quello dei primi di aprile, denominato on to hiraki no mine, “apertura delle porte”; 2) quello di fine aprile-primi di maggio denominato go kegu no mine, ”pellegrinaggio dell’offerta di fiori”; 3) quello di fine maggio-primi di giugno denominato go eigu no mine, “pellegrinaggio dell’offerta alle immagini sacre”; 4) akinomine, “pellegrinaggio d’autunno”. Il pellegrinaggio più impegnativo è quello di Shikoku, che include ottantotto templi sparsi sull’isola di Shikoku, e che è lungo circa 1200 km. (Per una dettagliata descrizione dei pellegrinaggi in Giappone cfr. http://www.onmarkproductions.com/html/pilgrimages-pilgrims-japan.html).
(35) Dōgen, Shōbōgenzō, tr. a cura di Kosen Nishiyama e Sergio Oriani, Isola del Liri, Pisani,2003, pp. 277-287. Eihei Dōgen (永平道元禅師, 1200 – 1253), fondò la Scuola buddhista giapponese Zen Sōtō. Su Dōgen cfr. Kim Hee-Jin, L’essenza del buddhismo zen. Dōgen, realista mistico, a cura di Marcello Ghilardi, tr. di Massimo Barbaro, Milano, Mimesis 2011.
FONTE: www.zenshinji.org
Grazie per questo interessante articolo che ho letto con molto piacere.
Penso che affrontare una montagna “a tu per tu” non significhi necessariamente sfidarla, prepararsi a uno scontro, a una battaglia. Per me significa andare a incontrarla, a conoscere “occhi negli occhi”, a tu per tu, appunto. Percorrere una montagna-tastarla, osservarla, annusarla-ha una ripercussione interiore: l’esperienza della montagna suscita moti d’animo e di coscienza, come qualsiasi dialogo coinvolgente. Porta “a tu per tu” con sé stessi e in questo caso sì, può talvolta portare a uno scontro con sé stessi, di nuovo, però, propiziando un incontro, incoraggiando riconoscimento, comprensione.