L’uso di tecnologia da parte di Tita Piaz nelle sue salite, fino alla sua salita del 1908 sulla parete ovest del Totenkirchl, nella catena del Wilder Kaiser.
Tita Piaz, guida ed esperto di fune
di John Middendorf
(pubblicato su bigwallgear.com il 17 settembre 2021)
Nota: le citazioni sono ritradotte dall’inglese, pertanto potrebbero non coincidere esattamente con i testi originali in italiano.
Tita Piaz e Ugo De Amicis
Dopo aver dedicato la Guglia De Amicis al suo autore irredentista preferito (Edmondo De Amicis), Piaz inviò le foto della guglia a Ugo De Amicis, figlio di Edmondo, che aveva arrampicato attivamente sulle Alpi Occidentali. Ugo si mise subito in contatto con Piaz e pianificò la bizzarra salita della Guglia De Amicis per la stagione estiva del 1907. Ugo conosceva la reputazione di Piaz come “uno degli scalatori più audaci e di successo che si rompono le unghie sulle demoniache e sublimi montagne dolomitiche e per farlo hanno muscoli di ferro”, e quando si incontrarono a Trento, si ritrovarono grandi amici fin da subito nella loro comune passione e iniziarono a fare cose assieme.

La Guglia Edmondo De Amicis. Foto: da Guido Rey, Alpinismo Acrobatico. La guglia di sinistra si chiama Campanile Misurina e ha un percorso facile fino alla sua vetta. E’ da lì che inizia la “tirolese”.

Ugo de Amicis ha scalato con molte delle migliori guide, e fece molte vie con Guido Rey: il Cervino, il Petit Dru, l’Aiguille du Grépon e molte altre tra le vie di arrampicata su roccia più dure delle Alpi Occidentali dell’epoca. Le sue prime salite nelle Alpi Orientali furono con Tita Piaz. Era figlio dell’autore irredentista Edmondo de Amicis, al quale Piaz aveva dedicato la Guglia Edmondo De Amicis (nome completo della guglia), con la prima salita tramite traversata alla “tirolese” (allora indicata semplicemente come “ponte di corda” di “traversata a fune”).
Piaz e Ugo iniziarono von il Campanile di Val Montanaia. “Finora nessun altro aveva osato scendere il tratto di discesa in corda doppia più lungo delle Alpi”, Ugo scrive,“Ti devi calare in uno strapiombo di 40 metri nel vuoto, a pochi metri dalla parete, girando lentamente mentre le montagne ti svoltano intorno. Devi avere dita sicure, come anche la testa. Poi hanno tentato una nuova traversata di corda tra due cime del gruppo del Toro, ma dopo sei ore di lanci di palline di piombo collegate da una corda sottile senza successo si sono arresi e si sono diretti verso l’impresa più importante.
Quando giunsero alla Guglia De Amicis, la bandiera biancorossa che Piaz aveva lasciato in vetta l’anno prima sventolava ancora; Ugo considerava quella vista un “saluto e un buon augurio”. Hanno scalato il vicino Campanile Misurina, e questa volta Piaz ha effettuato con successo il lancio di piombo di 20 m subito al primo tentativo: e in breve la corda di sostegno è stata tirata sopra la vetta e ancorata alla base dall’altra parte.
“Ora era il nostro turno” Ugo scrive, pieno di dubbi e di paura,“chissà se il portatore, che conoscevamo appena, avesse ben legato la fune (alla base della torre)”; “Penso che la corda sia troppo elastica, molto sottile”; e “e se non potessi più muovermi avanti o indietro in mezzo a questa corda e rimanere lì per sempre, come una mosca catturata nella tela di un ragno?” Nel frattempo Piaz passa rapidamente in rassegna l’accrocchio:“Fa oscillare le gambe sulla corda e si allontana velocemente appeso con la testa bassa e le gambe girate verso di me. La seconda metà della traversata va quasi orizzontale, Piaz la fa velocemente, per ergersi poi ritto e trionfante sull’alto piedistallo… Piaz mi chiama a venire. Oh, innovatori dell’alpinismo, in quali luoghi proibiti osiamo alzare la nostra bandiera anarchica!”
Ugo ce la fa e lì pianificano un’altra impresa audace: la prima corda doppia dalla vetta della Guglia De Amicis. Ugo continua: “Piaz torna al Campanile Misurina sulla fune orizzontale per recuperare le corde e i ferri necessari alla discesa. Si dondola nel vuoto come su un’amaca, lasciando andare una gamba e un braccio, e guarda con calma in tutte le direzioni. Piaz mi manda gli importanti arnesi e le abbondanti vettovaglie nel suo zaino per mezzo della corda di servizio, poi torna anche lui, scimmiottando le scimmie, e recupera la corda che univa le due punte, perché ci serviva per la difficile discesa. Ora siamo completamente isolati dal resto del mondo e abbiamo tagliato la via del ritorno. E se la discesa fosse ora impossibile? Mi vedo già lassù con Piaz, due pilastri dell’alpinismo, per il resto della nostra vita”.
Solo uno scalatore deciso come Piaz poteva recuperare le corde per ritrovarsi del tutto dipendente dall’attrezzatura (corde e tecnologia di ancoraggio) in quel momento per poter scendere.
Piaz “fissa il primo anello di corda sulla punta, ci fa passare dentro la doppia corda, si mette in tasca martello e chiodi e poi scende di circa 10 m”. Quindi, assicurato da Ugo, Piaz costruisce con martello e scalpello un ancoraggio sul bordo. Ugo“sente Piaz parlare tra sé e poi scalpellare a lungo, e poiché so che quella roba dovrebbe tenere le nostre riverite persone (quanto è “sacro” l’uomo in tali luoghi), spero che scalpelli molto e bene.
Con l’ancoraggio in posizione, Piaz manda Ugo per primo lungo la doppia strapiombante con l’ordine di fermarsi su un piccolo terrazzino visibile 20 m più in basso. Mentre Ugo sta cercando di capire come stare un po’ più in sicurezza in quella minuscola posizione esposta, Piaz si unisce rapidamente a lui. La corda si blocca e deve essere abbandonata. Preparano la seconda doppia con l’ultima corda, e ancora Piaz abbassa Ugo su un’altra minuscola posizione sul lato dell’esile guglia. Ugo suggerisce di allestire l’ultima doppia su una scaglia di calcare naturale, come spesso si faceva nelle Alpi Occidentali sul granito, ma Piaz risponde laconicamente: «Io vorrei vivere ancora qualche giorno. E tu?. Poi martella un terzo chiodo. Piaz e Ugo finalmente ce la fanno: dopo un’epopea di corde bloccate, scariche di sassi e l’ultima ariosa discesa in corda doppia alla base. Ugo termina:
“Ci sono volute sei ore per attraversare questa cima di ottanta metri. Mentre siamo sulla via del ritorno, ci voltiamo ad ammirare l’ardito obelisco, e se non vedessimo la corda appesa lassù, quella che abbiamo dovuto abbandonare, dubiteremmo di aver fatto la discesa. Il tempo, con gentilezza paterna, vuole darci un leggero castigo per la nostra follia, e sotto un violento temporale ci rifugiamo in albergo”.
In contrasto con le discese relativamente sicure lungo i territori conosciuti perché saliti in precedenza (che erano la norma dell’alpinismo dell’epoca), la discesa verso l’ignoto con gli strumenti adeguati di Piaz e Ugo dalla Guglia De Amicis diventa esemplare per le future strategie alpine di ascensione. Anche con attrezzature moderne, sei ore sono ancora un buon tempo per attrezzare una “tirolese” e impostare una via di discesa lungo una guglia di tre lunghezze. Negli anni a seguire Piaz salì molte altre vie con Ugo, spesso con Guido Rey, tra cui un classico tour dolomitico Torre-Parete-Camino offerto da Piaz (Torre del Vajolet-Parete sud della Marmolada-Piz da Cir). Piaz era avventuroso con i clienti quanto lo era con i suoi amici e compagni di arrampicata.
Nota. Tutte le citazioni sono tratte da Ugo de Amicis, 1908.
Guido Rey scrive nel 1914, rafforzando il talento prolifico e lo spirito avventuroso di Piaz: “Non soddisfatto di aver salito trecento volte le Torri del Vajolet, sotto il sole o con la pioggia, volle tentarle di notte sotto le stelle; perciò persuase una signora americana ad unirsi a lui, e presto, nel cuore di una bella notte d’estate, si poté vedere la sua lanterna brillare, una stella appena creata, sul pinnacolo più alto”.

Tecniche della guida: il “sacco di farina”
Nella sua biografia Mezzo secolo d’Alpinismo e nei primi diari, ci sono molte storie divertenti di Tita Piaz alla guida di dure salite. Piaz spesso accompagnava i clienti su salite ben al di sopra delle loro capacità; anche il talentuoso alpinista delle Alpi Occidentali Guido Rey si è ritrovato a sperimentare un Piaz del genere, su un tratto difficile delle Torri del Vajolet: “Con un movimento veloce Piaz sale e scompare. Immediatamente mi è stato ordinato di seguirlo, obbediente come uno scolaro, ho imitato come meglio potevo i movimenti che avevo visto, poi è scoppiata una lotta feroce tra me e la roccia, brancolando qua e là con mani e piedi. Mezzo soffocato, chiedevo consiglio e non ricordo se fu grazie ai consigli di Piaz o alla corda, mi trovai presto faccia a faccia con Piaz: fu allora che imparai davvero a conoscere Tita.
Le guide alpine dell’epoca chiamavano l’aiuto con la corda al cliente “tecnica del sacco di farina” (Mehl-Sacktechnik); in pratica le prime manovre di frenata ad attrito su corda che alla fine si evolvono in metodi di assicurazione standard. Se il terreno era troppo ripido per la discesa, far scendere un cliente generalmente comportava l’abbassamento con la corda legata intorno alla vita. Senza imbragature o particolari abilità di discesa in corda doppia, ci sono state molte storie di soffocamento immaginario, sospesi appunto come sacchi di farina.
Nel suo capitolo “La conversione di un nemico“, Piaz racconta la divertente storia di un uomo, fortemente critico nei suoi confronti, in un rifugio alpino bavarese. L’uomo conosceva Piaz solo di reputazione e non sapeva che Piaz si trovava nelle vicinanze; senza svelare chi fosse, Piaz invita l’uomo a salire con lui il giorno successivo su una difficile via d’allenamento strapiombante, e racconta:
“Dopo una magnifica caduta, rimane sospeso in aria, compiendo disperatamente quei movimenti che diedero a Galileo l’idea del pendolo. Invano si aggrappa alla roccia. ‘Tieni, tieni, non ce la faccio più, soffoco!’” Uno scalatore sotto grida ‘Tira, Tita, tira!’ E Tita tira, tira come tre buoi, poi quattro buoi. Alla fine lo scalatore supera lo strapiombo; con uno sguardo frastornato, l’uomo realizza finalmente che sta arrampicando con Tita Piaz, che prosegue:“Gli sorrido con il mio miglior sorriso e gli dico: ‘Coraggio, amico, che la vita è bella e continua ancora oggi!’. Non ha risposto al mio sorriso un po’ malvagio, ma ha allungato la mano e mi ha detto, con gli occhi lucidi di lacrime: “Tita, mi perdoni?” Ed eravamo amici”.
Oggi è diventato “sacco di sabbia”. Un altro esempio viene da un articolo dello Swiss Alpine Journal del 1911, Eight Days in the Dolomites. L’autore assiste a un cliente che lotta lungo la via Delago sulle Torri del Vajolet, con Piaz che letteralmente “tira su un anziano, ohh, issa, proprio come si fa nel sollevare una grande balla di cotone”. Piaz una volta ha tenuto una caduta a pendolo di 30 metri di uno dei suoi clienti: l’uomo era praticamente svenuto all’inizio di una traversata difficile. Piaz racconta come è riuscito a trattenere la caduta, nonostante la perdita di pelle delle mani, “il che in verità non è molto, in confronto alla vita (dell’uomo)”.
Per le avventure di arrampicata di Piaz, erano essenziali gli ancoraggi sicuri. Sul punto chiave della via Winkler all’omonima Torre del Vajolet, Piaz scrive di un cliente che chiede maggiore tensione di corda, dopodiché però la corda si allenta:
“‘Aiuto! sono slegato! Aiuto!’ In un lampo ho fissato la corda a un chiodo, … sono scivolato giù e l’ho trovato perfettamente slegato, aggrappato a malapena alla presa problematica con la testa penzolante nel vuoto… pochi secondi lo separavano dalla fine. Per legare qualcuno in una situazione del genere, avresti bisogno di almeno tre mani e io dalla mia nascita ne avevo solo due. Come l’ho legato, ancora oggi è per me un mistero. A volte nella vita accadono cose inverosimili e inspiegabili, che il credente chiama miracoli”.
Piaz ha attrezzato le vie con ancoraggi a chiodi per consentire tali miracoli; per Piaz era un uso delle corde di buon senso per consentire il nuovo tipo di audace arrampicata libera – l’Alpinismo Acrobatico – che era caratteristico del nuovo stile di arrampicata dolomitica, quello che gli alpinisti venivano da ogni parte per sperimentare. Piaz, noto per essere sicuro e forte, era la prima scelta tra le guide e uno dei massimi esperti di ancoraggi di sicurezza.
Lo specialista delle guglie
Piaz ha scalato molte prime ascensioni di guglie con i clienti, attrezzandole – “inchiodando la parete” – e rendendole sicure per salite e discese guidate. Dal DuÖAV:
La salita diretta dal rifugio Vajolet sul fianco sud-est della Torre Est del Vajolet è stata tentata più volte, ma sempre senza successo. L’intera impresa può essere descritta come estremamente interessante per la sua varietà di requisiti tecnici e il suo fascino alpino. Su suggerimento e guida di G.B. Piaz, l’ingegnere qualificato Ernst Kronstein (di Vienna) e il giudice distrettuale Karl Müller (di Monaco di Baviera) il 18 agosto 1907 hanno scalato il fianco sud-est. Il ripido gradino più basso è solcato da un camino nero notevolmente profondo, reso possibile solo dall’eccezionale abilità e bravura di Piaz e dalla sua pazienza nella chiodatura in parete. In particolare, laddove un blocco incastrato rende necessario uscire dal camino e risalire una parete quasi priva di appigli in completa esposizione, la difficoltà e il pericolo si combinano a tal punto che il percorso può essere utilizzato come allenamento per altre ascensioni ancora più impegnative.
Nota. Fu probabilmente la prima salita della parete sud-est della Torre Principale del Vajolet (18 agosto 1906) con il berlinese George Christophe a mettere nei guai Piaz con le guide di Fassa, in quanto all’epoca era ancora ufficialmente solo un ‘portatore’. In quel periodo era anche abusivo facendo la guida sulla parete sud della Marmolada.
Dall’autunno 1905 Piaz iniziò un anno incredibile di prime ascensioni con Bernard Trier, un ricco industriale tedesco e bravo alpinista. In una sola giornata fecero tre nuove guglie nelle Alpi Carniche (non distante dal Campanile di Val Montanaia, nelle Alpi Orientali). In quell’occasione Piaz assunse la portatrice scalza Teresa, alla quale Piaz dedicò un intaglio, la Forcella Teresa. Piaz scrive di lei: “Una ragazza molto simpatica, che portava pesi fenomenali, d’enorme importanza vista l’assoluta mancanza di rifugi in quella zona. I portatori-donna sono un’usanza locale. Dal momento che non mi è mai piaciuto il termine ‘portatore’, veniva con noi ad arrampicare con ‘cibo, corda, chiodi e gli altri attrezzi del mestiere’, come direbbe Preuss”.
Piaz ha fatto in quell’anno oltre una dozzina di prime ascensioni di guglie con Trier (tra cui il Campanile di Val Montanaia e la Guglia de Amicis già descritti), culminando con una spettacolare salita della parete nord-est del Campanile Toro, una temibile guglia e probabilmente la via più difficile sulle Alpi nel 1906. “Fu la via più imponente della mia vita da alpinista, forse più per le condizioni e le circostanze specifiche”, scrive Piaz, “della quale feci la prima salita con mezzi artificiali”. Dopo la dotazione di ancoraggi, è logico che le successive ripetizioni siano più facili: come è ovvio, anche questa fu presto “svalutata” nel DuÖAV del 1907 da Nieberl, uno dei massimi alpinisti del Nord Tirolo, che “valutava la ‘fessura storta’ (il tiro chiave) un po’ meno difficile”.
Nota. Il secondo salitore scrive: “Ci saranno pochi posti così vertiginosi come la punta di diamante del Campanile Toro”. Il percorso è in diagonale lungo la guglia sempre più ripida, e questo significa che una caduta è sempre nel vuoto. Piaz annota una successiva salita fatta 25 anni dopo dai famosi fratelli Schmid di Monaco (prima salita della parete nord del Cervino, per la quale ebbero una medaglia d’oro), che ne confermarono la difficoltà di “5° grado”. Rudatis, in un pezzo di storia degli anni ’30, osserva che i fratelli “salirono con purezza di stile, senza fare uso di chiodi”.

Sono tante le storie epiche delle vie di Piaz, tante le leggende, non solo delle salite originarie, ma anche delle successive salite e dei tentativi falliti. Oltre alle doppie più lunghe, Piaz ha subito uno dei voli da capocorda più lunghi (sopravvissuti, ovviamente) sulle corde e sull’attrezzatura di quell’epoca. Fu una caduta mentre guidava George Christophe sulla parete sud della Marmolada nel 1907, uscendo da un camino,“su un vuoto di cento metri… ad un certo punto sono volato e sono caduto perpendicolarmente nel vuoto per una decina di metri, finché un forte irrigidimento della fune attorno alle costole mi ha detto che la mia vita sarebbe continuata come prima”. Fortunatamente è stato trattenuto dal suo “compagno salvavita”, ma successivamente ha avuto incubi per quella caduta e per le sue potenziali conseguenze per se stesso e per il suo cliente. Piaz si giurò che non sarebbe mai più caduto, e pare abbia mantenuto la promessa.
Qui, ci siamo concentrati principalmente sul rapporto di Piaz con la tecnologia per stabilire una maggiore chiarezza della padronanza di Piaz su corde e chiodi per consentire salite più dure e più lunghe. Piaz si stava unendo ai ranghi di un gruppo d’élite di guide (Dimai, Rizzi, Bettega, Siorpaes, Verzi, cioè guide conosciute in tutta Europa) e, usando le sue abilità e il suo talento alpinistico, avrebbe presto stabilito un nuovo standard di arrampicata su una big wall del Nord Tirolo.
Ulteriori letture
L’atteggiamento di Piaz verso il numero accettabile di chiodi e il suo atteggiamento verso il rischio diventano più chiari leggendo i suoi ricordi, così come le sue dichiarazioni pubblicate durante la famosa “Disputa sui chiodi” del 1911-1913. In poche parole, Piaz sentiva che la vita era più importante della spavalderia, e si rammaricava profondamente della morte di Preuss, così come di molte “doppie cadute” (quando un leader che cade porta con sé alla morte anche l’assicuratore). Si può leggere una versione ben tradotta e illustrata di Randolph Burks dei dibattiti sui chiodi qui. L’eccellente riassunto di Jim Erickson qui.
Riflessione
Nessuno sa davvero che tipo di chiodi utilizzasse Piaz in questo primo periodo. Il termine “anello di corda” è visto come un congegno piantato direttamente nella roccia con un martello, e talvolta scolpito, come nel caso del primo ancoraggio di discesa dalla Guglia De Amicis. Altre descrizioni portano anche a congetturare che forse il chiodo e l’anello di corda fossero legati insieme; in altre parole, un chiodo con un occhio al quale si poteva collegare una corda. I chiodi ad anello sono talvolta citati in modo specifico nel contesto degli ancoraggi da discesa in corda doppia, ma non spesso. Non è noto alcun hardware di Piaz sopravvissuto prima del 1910, anche se forse esiste ancora qualche resto non identificato in qualche museo locale della curiosità. Forse usava solo delle semplici punte; altri alpinisti tedeschi si riferirono all’uso da parte di Piaz di Mauerhaken, un termine usato generalmente per qualsiasi tipo di ancoraggio metallico a quel tempo, ma ci sono forti indizi che stesse usando qualcosa di diverso da una punta a forma di “L”. Piaz è stato anche molto coinvolto nel soccorso alpino, con oltre 100 operazioni nella sua carriera e noto per le sue complesse manovre che richiedono corde sicure e tecniche di ancoraggio istantanee. Altrove, nell’Elbsandsteingebirge, ci sono prove che tra il 1900 e il 1910, chiodi/fittoni di diverse dimensioni furono realizzati su misura per l’arrampicata, con un occhiello in linea per attaccare una corda, piuttosto che un anello: indagherò in seguito gli sviluppi tecnologici in questa regione. Ciò che è chiaro è che presto i chiodi si sarebbero evoluti nei chiodi Fiechtl, sottili chiodi piatti in acciaio con occhio sfalsato, per consentire sistemi di sicurezza leggeri sempre più efficienti. E’ chiaro pure che, nel corso della sua carriera, Piaz si è servito di tutti gli strumenti di arrampicata più innovativi.

