I Cavalieri dell’Est

Vietato ogni mezzo artificiale, anche la magnesite. Le migliaia di strutture rocciose della Boemia richiedono un’arrampicata super-atletica, all’insegna di un’etica severa che nasce da una selezione spietata. Ma per un italiano la dimensione e il gusto del rischio diventano spesso inaccettabili.
(Da notare che l’anno di pubblicazione di questo articolo, 1984, è precedente alla divisione della Cecoslovacchia nei due paesi di Repubblica Ceca e Slovacchia).

I Cavalieri dell’Est
di Paola Mazzarelli e Jiří Novák
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 61, marzo 1984)
Foto di Jiří Novák

Da alcuni anni sembra prevalere dappertutto l’arrampicata libera, o free climbing. Spesso si dimentica che questa forma moderna di alpinismo nacque nelle località di arenaria dell’Europa centrale quasi cent’anni fa. Negli ultimi anni del secolo XIX, infatti, gli alpinisti della Sassonia e della Boemia effettuarono le prime ascensioni in stile «free». Poiché non usavano chiodi di assicurazione tra le soste, ma solo cordini e fettucce, la loro arrampicata era anche «clean», pulita (secondo le norme che regolano oggi l’arrampicata in queste zone, NdR). Ci è sembrato quindi interessante attirare l’attenzione sulle vaste zone di arenaria della Germania e della Cecoslovacchia, benché questo tipo di roccia si trovi anche in altri posti del mondo.

II massiccio Falkenstein è iI simbolo dell’alpinismo in Sassonia.
Sassonia: nella zona di Affensteine, la torre Nonnengärtner, via Heisse Herzen

Se non fosse per le barriere e i fili spinati del confine, non sapremmo di essere in Cecoslovacchia. Gli stessi campi, paesaggi di prati e di boschi e colline nella luce del mattino, ma diventati all’improvviso leggermente opprimenti, quasi vi fosse qualcosa nell’aria a renderli estranei. Scrutiamo la gente nei campi per vedere se è diversa da noi. Ma è solo dopo qualche chilometro che ci accorgiamo che nel paesaggio sempre uguale sono cambiati i segni dell’uomo. II nitore ordinato dell’Austria, meno ossessivo che in Svizzera, quasi fosse qui più naturale e più consono alla dolcezza del paesaggio, oltre il confine cede impercettibilmente, nel muro scrostato di una casa, nelle tracce di un lavoro interrotto lungo la strada, con sacchi di cemento abbandonati sul ciglio, nel traffico sempre più rado, segni che non si notano subito, ma entrano negli occhi lungo tutto il percorso fino a Praga. E insieme, la sensazione di estraneità che suscita in noi la lingua all’improvviso sconosciuta e il senso di impotenza di fronte ai funzionari della dogana incomprensibilmente arbitrari. E Praga, domenica mattina, ha l’aria di una città abbandonata, con rari passanti frettolosi spersi nel fasto antico e decadente dei palazzi e delle piazze deserte. Ha un fascino, certo, anche questo silenzio, forse perché dal vuoto emergono più vivi i fantasmi della tradizione mitteleuropea, scrittori e musicisti e poeti, e l’inevitabile memoria della grandezza absburgica.

Su Pavouci Cesta (VIIIb) alla Torre Dràb (Paradiso di Boemia).
Sulla torre Amor (Boemia Est, Andrspach) lungo la Richtrova Spàra, una via «rotpunkt» (1) valutata VIIb.

Circa 100 milioni di anni fa la Boemia e la Sassonia erano interamente ricoperte dal mare. Successivamente la formazione dei potenti strati di sedimenti marini che nel periodo mesozoico emersero in seguito al ritiro delle acque diede origine a questi territori. Questa lastra di sedimenti venne in seguito frantumata dagli imponenti sconvolgimenti tellurici del terziario. L’azione dell’acqua e del vento intervenne a compiere il lavoro di rifinitura.
L’arenaria è una roccia costituita da grani di quarzo legati tra loro da una sorta di cemento calcareo. Il processo di sgretolamento e la conseguente formazione delle torri dipende dalla resistenza della roccia, che varia a seconda del grado di coesione, determinato dalla struttura dei granuli e dalla composizione del cemento che li unisce. L’arenaria che presenta una struttura con poco spazio tra i granuli offre la resistenza più alta, mentre dove lo spazio è maggiore, la resistenza è più bassa.

Nella carta, gli affioramenti di arenaria in Sassonia e in Boemia. A • Elbsandsteingebirge, l’arenaria dell’Elba (Sassonia). B • Labské Pískovce, la più importante località a nord della Boemia. C • Paradiso di Boemia, Český Ráj i cui centri maggiori sono: 1 • Příhrazy e Drábské světničky; 2 • Suché Skály; 3 • Hruboskalsko; 4 • Prachov. D • Est di Boemia, con i gruppi 1 • Adrspach; 2 – Teplice.

Alla sensazione di noto e insieme di estraneo che abbiamo percepito oltre il confine e fino a Praga, come se i boschi e le colline e i palazzi della città appartenessero a un passato che conosciamo bene ma non ricordiamo di aver mai vissuto, si aggiunge ora, nel cuore della Boemia, lo stupore di una campagna familiare in cui all’improvviso emergono tra il verde dei boschi fantastiche architetture di pietra, come antiche città dimenticate. Si va per stretti passaggi tra torrioni enormi e incombenti, su un soffice pavimento di sabbia, segno dello sgretolamento progressivo e costante. Nani dentro le fortezze dei giganti. Viste di qui le torri sembrano altissime e ostili, lisce pareti verticali e muri strapiombanti che si ergono tutt’intorno a nascondere la luce del sole. Ci guardiamo intorno trattenendo il fiato, oppressi da quel sovrastare di pietra fredda e nerastra, aspettandoci quasi di scorgere per un attimo, al fondo di un camino o dentro una fessura o forse laggiù, oltre l’ultimo torrione, la figura inquietante di uno degli spiriti, gnomi o coboldi, che certo abitano questa città e ne conoscono tutti gli anfratti segreti e gli infiniti malvagi tesori nascosti. E invece, dove le torri si aprono un poco, e la luce confortante del sole penetra a illuminare di chiaro la pietra, gli stessi spigoli arrotondati, le stesse pareti verticali, hanno l’aspetto benevolo di antiche mura che il tempo ha colmato di storie. E mentre si cammina, da una torre all’altra, le prospettive mutano, e nella varietà dei giochi di luci e di ombre, appaiono forme che evocano immagini già note alla fantasia, e le torri hanno un nome, ed ecco, diventano figure sorprendenti, persone e animali ed oggetti, un mondo strampalato che l’incantesimo di una mano potente ha pietrificato per sempre. Ed è rimasto così, immerso nel bosco, con canti di uccelli tutt’intorno e la pace assorta dei pini.

Le torri Blosstock (a sinistra) e Kreuzturm ad Affensteine in Sassonia.

Sulle torri di arenaria vennero realizzate ascensioni già nel Medioevo ma naturalmente non per motivi alpinistici. Alcuni blocchi di roccia venivano usati come punti di osservazione o postazioni di vedetta, su altri furono costruiti i castelli. Certo, l’accesso era sempre artificiale. Con lo sviluppo dell’alpinismo sulle Alpi, soprattutto gli alpinisti tedeschi cominciarono a salire le numerose torri di arenaria che si trovano in Sassonia vicino al fiume Elba. Le ascensioni di tipo sportivo risalgono dunque alla metà del secolo XIX, ancora però con un certo impiego di mezzi artificiali, ad esempio scalette e gradini di metallo che facilitavano il superamento dei passaggi difficili. Erano quasi delle «vie ferrate». Alcuni alpinisti tuttavia cominciarono presto a salire senza fare uso di mezzi artificiali. Si ricorda ad esempio la prima salita del Münchstein nel 1874 ad opera di Otto Ewald Ufer e H. Frick e quella del Nonnenfels nel 1888 di Hermann Fischer, H. Kurze e T. Lierke.
Nel 1890, soprattutto per influenza del grande Oscar Schuster, che introdusse le scarpette con suola di canapa, l’alpinismo sportivo ricevette un grande sviluppo in senso moderno. In quel periodo quasi tutte le vie percorrevano camini e larghe fessure.

A prima vista ci sembra assurdo salire. La pietra ha forme inusitate e lascia negli occhi un’impressione di linee curve: spigoli smussati, sommità tondeggianti, fessure dai bordi svasati, stranamente contrastanti con il profilo slanciato delle torri e le spaccature diritte dei camini che le dividono. E poi, salire per dove?

Ancora nel Paradiso di Boemia, la cordata Folprecht-Havlikovà impegnata sulla Leteckà (VIIIa) nell’Hruboskalsko.

Alla base tracce di muffa verdastra invadono la pietra. La roccia è fredda, quasi umida. Ma in alto invita il chiaro del sole. Si sale a fatica, arrampicata dura di incastro, nelle fessure da cui spira un’aria fredda, come se dal ventre della roccia scaturisse il respiro di un oscuro animale addormentato. Ma poi la fessura si allarga in angusto camino che si apre più in alto con l’azzurro del cielo, e strisciando lentamente si esce sulle lisce placche sommitali, quasi a liberarsi dell’oscurità della terra di mano in mano che l’ombra del bosco cede alla luce del giorno. Dall’alto si scorgono altre torri, e la foresta intorno, e forse più in là il verde riposante dei campi e radi paesi affogati tra gli alberi.

Ma se, più raramente, si sale per le pareti, allora è più evidente la strana consistenza della roccia, come solida sabbia rappresa, striata da increspature leggere o lavorata dall’erosione in una molteplicità di forme, sporgenze e buchi, conche, vaschette e clessidre. Ma sempre resta quell’impressione di tondo e alla fine del giorno la sabbia nei capelli e negli occhi.

La prima formulazione delle «regole dell’alpinismo in Sassonia» risale al 1913 ad opera di Rudolf Fehrmann. Con queste regole veniva vietato l’uso di mezzi artificiali per la progressione. Alcune ascensioni compiute all’inizio del secolo hanno grande valore sportivo ancora oggi. Ad esempio la via dell’americano Oliver Perry-Smith sulla Teufelsturm (1905) ha difficoltà valutate VII b sulla scala di arenaria cioè VI- secondo la valutazione UIAA; la via del famoso Emanuel Strubich alla Wilder Kopf (1918) comporta ancora oggi difficoltà di VIIIa, cioè VI+ della scala UIAA e la via Rostkante dello stesso Strubich sulla torre Hauptwiesenstein (1922) presenta difficoltà valutate VIIIb, oggi di VII grado UIAA. Le regole dell’arrampicata su arenaria vennero in seguito sviluppate ulteriormente. Oggi vi sono piccole differenze tra Cecoslovacchia e Germania, ad esempio su come sistemare i chiodi fissi delle soste durante la prima ascensione o su come fare la piramide. Queste sono tuttavia differenze marginali.

La meravigliosa parete della torre Höllenhund (Sassonia, Rathen) su cui la cordata Smìd-Belica sta salendo la via Direkte Herrenpartie valutata VIIIc nella scala per l’arenaria.

Norme fondamentali dell’arrampicata su arenaria:
– La salita deve essere effettuata solo con l’aiuto di mezzi naturali (appigli e appoggi) e con le sole forze dell’alpinista. Ogni mezzo di progressione artificiale (chiodi, staffe, ecc.) è vietato. È ammessa tuttavia la piramide umana.
– Non si possono usare chiodi per l’assicurazione. Vengono però piantati chiodi fissi ai punti di sosta durante la prima ascensione. Questo è un diritto del primo salitore.
– È consentita solo l’assicurazione dal basso, sia durante la prima ascensione, sia durante le ripetizioni. Una salita con corda dall’alto rappresenta una grave contravvenzione delle regole sportive e non è mai «valida».
– Per l’assicurazione tra le soste (segnate dai chiodi fissi cementati nella roccia) possono essere usati solo cordini e fettucce.
– L’uso della magnesite e l’assicurazione con chiodi, cunei, stopper, ecc. sono vietati, non solo per motivi sportivi, ma anche per proteggere la roccia che è abbastanza tenera. Un nodo di corda in una fessura lavora molto meglio di un cuneo di metallo.

Non è solo il paesaggio insolito che ci stupisce. Come ogni posto anche questo ha un’anima e vi abitano spiriti che vanno placati, certo immaginati dalla mente dell’uomo, ma non per questo meno reali. Già la roccia ha esigenze precise e vuole delicatezza, pur nella rudezza a volte brutale che impone a chi sale. E questa volontà della roccia, codificata in regole caparbie, si impone come etica e non ammette trasgressioni. Dunque, non si usano chiodi. Ma forse nessuno di noi ne ha con sé. È facile pensare che i chiodi abbiano fatto il loro tempo, come già gli scarponi in palestra e le corde di canapa di una volta. Ma i blocchetti… come, non si usano neppure i blocchetti? E ai friend è ancora più difficile rinunciare, vanto elitario di chi li possiede, i friend che ci portiamo in giro, chi uno, chi due, chi tanti, segno del nostro stare al passo coi tempi e coi miti della grande arrampicata americana. I friend li vogliamo usare. E la magnesite.

«No magnesium» ci urla Igor da sotto. Ma l’imperativo ha il suono gutturale di una lingua sconosciuta: no mag-nesium. Non ci pare neppure la stessa polvere amica a cui ricorriamo automaticamente prima di ogni passo, a prescindere dalla sua efficacia in quelle date condizioni e su quel dato tipo di roccia, perché anche la magnesite è ormai assurta a simbolo e il farne uso è un gesto che vale come rituale ed è scongiuro ed atto propiziatorio. Ma i cecoslovacchi si impuntano: qui la magnesite è mezzo di progressione artificiale e va messa al bando.

A tutte queste regole sottostiamo riluttanti, per dovere di ospiti. Sorgono però le inevitabili contestazioni. Se i friend e i blocchetti non sono ammessi come mezzo di assicurazione, perché allora sono ammessi gli anelli di fettuccia, i cordini nelle clessidre, i rinvii con grossi nodi da incastrare nelle fessure? E se anche è facile convincerci che qui i chiodi servirebbero a poco e così pure i friend e i blocchetti, strutture troppo rigide per la consistenza sabbiosa dell’arenaria, ci sono pur sempre i fittoni delle soste cementati nella roccia a dimostrare che l’apparente razionalità delle norme non è che la manifestazione dell’arbitrarietà da cui nasce ogni sistema di convenzioni. Ma, in fondo, già arrampicare è di per sé segno dell’arbitrario. E se il gioco non è sempre lo stesso è perché, come tutti i giochi, anche questo rivela qualcosa dell’intima natura di chi gioca e le regole trapassano da convenzione a rito iniziatico. Il gioco infatti assume qui una serietà che ci sconcerta. Severi, i cecoslovacchi ci controllano nei gesti e nell’attrezzatura. No magnesium non è solo una regola, è tutta la loro diversità, la fierezza e il vanto di una tradizione che nella diseguaglianza rivendica la sua superiorità, un confrontarsi che è essenzialmente un giudizio di valore: voi avete tecnica e strumenti, scarpette, corde nuove, attrezzi e magnesite, noi abbiamo le pareti e la determinazione, il coraggio, la forza; voi superate le difficoltà ricorrendo a mezzi esterni, noi alle nostre qualità morali e interiori. Accettare le regole dell’arrampicata cecoslovacca non ci è difficile. Difficile è farle nostre. Che a noi quel coraggio pare temerarietà, quella determinazione brutalità, quella forza mancanza di eleganza. Li guardiamo salire, dieci metri di sesto senza rinvii, un’arrampicata che evoca la violenza selvaggia e sprezzante del pericolo di antichi giochi di vita e di morte. Noi seguiamo, da secondi, commentando il nostro buon senso e la loro pazzia. Ma pazzia non è. È un’altra anima e il confronto non è quasi possibile.

«L’arrampicata estrema è bella sì, ma anche faticosa» fa notare Novák, presentando questa fotografia di un passaggio su El Condor pasa (VIIIc) alla torre Rektorky nel Paradiso di Boemia (Zona Prachov).

L’incontro con i cecoslovacchi è tutto sotto il segno della diversità. Hanno invitato con la formula dello scambio un gruppo di alpinisti italiani, e ora ci accompagnano, fieri. Sono uomini della squadra nazionale, orgogliosi di incredibili imprese, immaginate e programmate con quella sistematica ricerca dell’«ancora da fare» che sembra non conoscere ostacoli. Dove vanno, forti del loro essere squadra, compiono prodezze in serie. Li distingue un’accesa competitività che assume sfumature a noi estranee, dove l’orgoglio personale si fonde in una fierezza di gruppo. Anche noi conosciamo le lusinghe della competizione, chi lo negherebbe? Ma per noi più bravo e meno bravo valgono nel confronto diretto con gli amici con cui andiamo ad arrampicare e restano un fatto sostanzialmente privato, legato al carattere e allo spirito con cui ognuno affronta la roccia. Per loro, le capacità individuali si misurano in rapporto a categorie nazionali e comportano un riconoscimento pubblico che garantisce privilegi altrimenti non raggiungibili. Così, sulle pareti di arenaria della Boemia, si confrontano i talenti che dovranno poi esplodere sulle montagne del mondo e la selezione severa non tollera cedimenti né rilassatezze. Forti di questa loro necessaria competitività, i cecoslovacchi ci spronano, quasi ci trascinano, instancabili, cercando di suscitare in noi la stessa tenace volontà di misurarsi su difficoltà sempre maggiori, dove il problema puramente tecnico è amplificato da una dimensione di rischio che noi spesso giudichiamo inaccettabile.

Il rischio non è però qui fonte di quell’ebbrezza essenzialmente individualistica e quasi anarchica che si riconosce nelle avventure e nello stile di tanti forti dell’arrampicata contemporanea e che si configura come superamento ribelle e sprezzante delle virtù borghesi della sicurezza e della prudenza, ma è piuttosto il campo in cui i temperamenti individuali si confrontano con i valori del gruppo. Non si tratta dunque della sfida che distingue e caratterizza l’eroe di stampo romantico nella sua orgogliosa individualità, ma anzi di un rito comune, quasi la prova finale del coraggio e della forza che ammettono il singolo a far parte della comunità. E questa diversità di atteggiamento davanti a una situazione che a tutti è ugualmente nota si percepisce nell’aria.

I cecoslovacchi vengono con numeri e tabelle a indicarci il grado di difficoltà che siamo riusciti a superare e vorrebbero spingerci su vie sempre più difficili, approfittando a volte della confusione che nasce dal fatto che neppure in Boemia a gradi uguali corrispondono sempre difficoltà uguali. Noi, che delle valutazioni e soprattutto della loro ostinata temerarietà poco ci fidiamo, guardiamo le vie dal basso e spesso decliniamo l’invito a salirle, giudicandole troppo rischiose. Certo, devono pensare che non siamo molto rappresentativi. Ma noi in Boemia ci siamo venuti così, come in vacanza, chi poteva, chi voleva, chi sapeva. Non siamo i migliori. Magari ci piace pensarlo, ma ci smentisce comunque l’inesistenza di una struttura nazionale a cui fare riferimento. Migliori di chi? Quanti, che non conosciamo neppure, sono più bravi di noi? Ma poco ci importa saperlo. Salvo per chi arrampica di mestiere, la fama per noi è una gratificazione puramente personale. E ci piace anche starcene pigramente al sole e guardare quelli che salgono. O magari non guardare neppure.

Così ci accorgiamo che di fronte alla ferrea, severa volontà dei cecoslovacchi, sottilmente emerge in noi, forse per contrasto, il desiderio di rivendicare il diritto al non aver voglia, al disimpegno e alla paura, la libertà di considerare «valida» anche una salita con la corda dall’alto. Ma noi, qui, non rappresentiamo nessuno e non facciamo parte di nessun gruppo.

Paradiso di Boemia (Zona Prachov), torre Dràzdanskà Vez, sulla via Sicì Stroj (VIIIc).

Le zone di arenaria in Germania
Come dice il nome tedesco di Elbsandsteingebirge (montagne di arenaria del fiume Elba), l’arenaria è concentrata in Germania vicino al fiume Elba, in una zona chiamata «Svizzera di Sassonia». Vi sono 12 gruppi principali, che ricordano come forme la Pietra di Bismantova, attorno ai quali si trovano numerose torri staccate. La roccia è generalmente abbastanza sana. In tutto si contano circa 1100 torri che arrivano fino ai 100 metri di altezza, percorse da più di 9.000 vie. I punti di partenza sono i paesi di Schmilka, Bad Schandau, Königstein, Wehlen.

Tra le zone più famose, Rathen, favorita anche dagli escursionisti, dove il più grande specialista attuale di arenaria, il tedesco Bernd Arnold ha compiuto alcune delle sue imprese più clamorose (via Superlative, alla Wehlturm, prima via di difficoltà IX e via Schallmauer, alla Amselspitze, prima via con difficoltà valutate Xa); Schrammsteine, dove è situato un blocco sulle cui pareti sono state tracciate più di 30 vie di ogni difficoltà; Affensteine, una zona di blocchi giganti, caratterizzata da roccia sana, con fessure e camini che richiedono un’arrampicata molto atletica; Schmilka, alla frontiera con la Cecoslovacchia.

Le zone di arenaria in Cecoslovacchia
Le zone di arenaria in Cecoslovacchia hanno generalmente caratteristiche diverse dalle zone di arenaria in Germania. In Boemia mancano i tavolati rocciosi, e le torri sono sparse nei boschi, come nel Paradiso di Boemia, o sono concentrate una accanto all’altra in valli profonde, come nella zona di Adrspach. In Sassonia l’arenaria si trova in un territorio abbastanza limitato, mentre in Cecoslovacchia le varie località si dispongono nella vasta zona della Boemia settentrionale e orientale.

Nel nord della Boemia si contano quattro località separate con un totale di circa 1.000 torri disperse tra i boschi e distanti le une dalle altre. La roccia è generalmente sana.

Nella Boemia centro-settentrionale vi è la maggiore concentrazione di gruppi compatti. Esistono ben otto raggruppamenti caratteristici con diverse torri indipendenti, dalle 50 alle 600 unità, di altezza fino a 70 metri. Qui l’arenaria è abbastanza friabile e per questo motivo non si può arrampicare dopo la pioggia e in inverno. Tutta la zona è conosciuta come Český Ráj, Paradiso di Boemia. Punti di partenza sono le città di Turnov e Jičín, distanti circa 80 km da Praga.

Un’altra vasta zona con vari raggruppamenti per un totale di circa 1.300 torri si trova nella Boemia orientale. Qui l’arenaria è piuttosto compatta e le torri raggiungono l’altezza di 120 metri. Le vie si svolgono in prevalenza su pareti povere di appigli che richiedono grandi doti di aderenza o in camini e fessure. Adrspach e Teplice sono le località più note della zona.

Classificazione delle difficoltà nell’arrampicata su arenaria
Esiste una scala delle difficoltà usata nelle zone di arenaria. Attualmente ha dieci gradi che si esprimono in numeri romani e dal grado VII esiste la divisione a, b, c. Le vie più difficili hanno difficoltà Xa e Xb. La tabella confronta la scala di arenaria con la scala UIAA, la scala americana in vigore a Yosemite e la scala francese.

Note
(1). Una via su arenaria viene detta Rotpunkt (punto rosso) quando la salita viene effettuata per un’intera lunghezza di corda di 40 metri senza cadute e senza resting. In questo caso la scala di arenaria deve essere considerata due o tre sottogradi più alta. Così un IXc Rotpunkt di arenaria corrisponde a IX+ UIAA, un Xa Rotpunkt a un X- UIAA, ecc.

(2). Nel confronto offerto dalla tabella si perde un po’ la dimensione psicologica del problema delle difficoltà. Nelle zone di arenaria infatti ogni chiodo di sosta è perfettamente sicuro ma tra un chiodo e l’altro è possibile cadere anche di 15-20 metri. Si può fare un esempio concreto a questo riguardo: sulla via Aspettando il sole (6c scala francese) a Monte Cucco (Finale Ligure) i chiodi sono alla distanza di un metro l’uno dall’altro. Nelle zone di arenaria su vie della stessa difficoltà una caduta può comportare un volo anche di 10-15 metri.

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5 Comments

  1. says: Antonio Migheli

    Bellissimo articolo, anche perché coglie perfettamente lo spirito del tempo e della società dell’allora “Europa dell’Est”, con i difetti e i tanti pregi ormai cancellati.

  2. says: Luciano Regattin

    A mio modesto avviso uno dei migliori articoli apparsi sulla RdM, che conservo ancora gelosamente!

  3. says: antoniomereu

    È così!Luciano leggere queste righe scritte da favola faceva venir voglia subito di andarci ,nonostante l’ inconsistente qualità rocciosa, ma poco importava la magia boema sa pareggiare i conti.
    Non vedo la foto della via Condor Pasa e un problema mio?

  4. says: Luciano R

    “Non vedo la foto della via Condor Pasa e un problema mio?”
    Antonio, credo di sì, ma non ti perdi nulla. Siamo agli antipodi rispetto a climbingprn: un omaccione spettinato vestito con una camicia a quadri che fa una smorfia mentre allunga la mano destra alla ricerca di una presa, il tutto ripreso dall’alto.

  5. says: antoniomereu

    Ha ha ora è comparsa dopo la tua descrizione dettagliata sono scrollato su e devo dire molto precisa: fatica immensa con allungamento alla…ceka direi.

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