Presentazione del libro Tartarino sulle Alpi di Alphonse Daudet
di Gianluigi Montresor
(pubblicato su caitorino.it/montievalli il 19 febbraio 2021)
Alphonse Daudet pubblicò Tartarin sur les Alpes nel 1885 (Calman-Lévy, Parigi). In italiano è reperibile Tartarino sulle Alpi, edizione di CDA&Vivalda, Torino, 2007.
Ignorando le lamentele di Tartarino, le guide riescono con grande fatica a togliersi da quell’impaccio, tracannano il cognac che il nostro eroe offre loro e si rimettono in cammino e si congratulano col francese:
“Bravo… Bravo… franzose” disse Kaufmann picchiandogli sopra una spalla; e Tartarino col suo sorriso ironico: “Burlone! Burlone che non siete altro, lo sapevo che non c’era l’ombra di un pericolo”.
Pur tra mille fatiche la salita si conclude vittoriosamente, sventola la bandiera di Tarascona, salutata dalle detonazioni dalla valle davanti all’hotel, da parte dei suoi compari. Tartarino ritorna a valle acclamato come un eroe.
A questo punto non resta che tornare vincitore a Tarascona e con i compari si mette in viaggio. Ma ahimè il diavolo ci mette la coda. Mentre attraversa la Svizzera in treno, capitano due imprevisti. Il primo è l’arresto da parte della polizia svizzera, di tutto il gruppo, perché sospettato ingiustamente del tentato omicidio del famoso tenore italiano (in realtà una spia dello zar che Sonia e compagni avevano cercato di impiccare con la corda di Tartarino). Dopo una notte nella tetra prigione del castello di Chillon, vengono scagionati dallo stesso tenore e possono ripartire. Ma la seconda è ancora peggiore: giunge notizia che Costecalde, saputo della vittoria di Tartarino alla Jungfrau, è partito per Chamonix per batterlo sul tempo e salire il Monte Bianco.

A questo punto non resta al povero tarasconese che fare dietro front e recarsi immediatamente a Chamonix per precedere il rivale, seguito a malincuore dagli sfiniti compagni.
All’hotel Baltet di Chamonix scopre che fortunatamente Costecalde ancora non si è visto, ma in compenso trova l’amico Bompard (quello della falsa congiura svizzera della Compagnia), a cui propone di fare cordata comune verso il Monte Bianco.
Vale la pena leggere alcuni brani integrali dell’ultimo capitolo e dell’epilogo, degna conclusione di questo avventuroso personaggio e dove la penna di Daudet dà prova della sua assoluta padronanza sia della lingua letteraria sia delle tecniche alpinistiche dell’epoca.
La catastrofe. In una notte nera, senza luna, senza stelle, senza cielo, sul tremolante candore d’una china infinita di neve, una lunga coda si svolge lentamente, a cui sono attaccate in fila delle ombre piccolissime e timorose precedute a un centinaio di metri da una lanterna che rasenta il suolo producendovi una chiazza rossastra. Dei colpi di piccozza risuonano sulla neve dura, e il rumore dei blocchi distaccati che ruzzolano è il solo a disturbare il silenzio del nevaio sul quale si smorza ogni altro rumore della carovana. Di tanto in tanto un grido, un’imprecazione soffocata, la caduta di un corpo sul ghiaccio; e subito dopo una grossa voce risponde al fondo della corda: “Gonzaga, procurate di non cadere” (…).
Soffrire e tacere. Ecco il più mostruoso per un uomo di Tarascona. A un certo punto la carovana si ferma: si ode una discussione a bassa voce, dei bisbigliamenti animati: Tartarino si informa.
“E’ il vostro compagno che non intende venire avanti” risponde lo svedese (un altro componente della cordata, ospite dell’hotel, dall’assurde velleità suicida ndr). L’ordine di marcia è interrotto, quel rosario umano si allenta, ritorna sui suoi passi, ed eccoli tutti sull’orlo di un crepaccio enorme: “una rottura” come la chiamano i montanari. I crepacci precedenti sono stati superati ponendovi una scala a traverso e percorrendola bocconi, ma questa volta il crepaccio è troppo largo e l’altra sponda è più alta di quindici o venti metri; bisogna calarsi nel fondo della rottura, che va restringendosi, e per mezzo di scalini scavati colla piccozza risalire dall’altra parte. Bompard si rifiuta decisamente di continuare l’esercizio (…).

Segue una lunga discussione tra Tartarino e Bompard per convincere l’amico a proseguire. Nel frattempo lo svedese inscena fantasie di un suicidio spettacolare nel crepaccio…
“Coraggio, coraggio Gonzaga, sotto ! Coraggio!” E abbassando la voce cerca di risvegliarne il senso dell’onore sopito: invoca Tarascona, la bandiera, il Carosello, il Club delle Piccole Alpi…
“Sì bravo, il Club… Me ne infischio bene io del vostro Club, io non appartengo al Club” risponde l’altro cinicamente. Allora Tartarino gli spiega pazientemente che dalle guide gli verranno posati i piedi uno per uno al loro posto, e che la cosa diverrà facilissima.
“Per voi può darsi ma non per me”.
“Per me? O se mi dite di averci fatto l’abitudine oramai…”.
“L’abitudine. Io ne ho molte di abitudini, ho quella di mangiare e di bere, di dormire e di fumare…”
“E di mentire soprattutto” interruppe gravemente il PCA.
“Di esagerare, se mai, di esagerare un pochino” rispose Bompard senza prendersela (…).
La situazione si fa vieppiù confusa. Passato faticosamente questo ostacolo, la marcia prosegue con altri guai assortiti, finchè le guide fanno presente che la nuvoletta che copre la cima del Bianco preannuncia una tormenta imminente e propongono di rinunciare. E’ a questo punto che lo svedese si rifiuta rimandando alla cima le sue mire suicide e tacciando le guide di vigliaccheria. Ma queste, risentite e punte nell’orgoglio professionale, decidono allora di continuare nonostante l’imminente sopraggiungere del maltempo.
E’ quindi con grande sollievo che sia Tartarino sia Bompard decidono invece di ridiscendere, staccandosi dalla carovana… Ma la tormenta arriva improvvisa, ed i due, arrivati nuovamente al grande crepaccio, non possono far altro che scavare una buca nella neve che è scesa copiosamente ed attendere un miglioramento. E’ in questa situazione estrema, mentre tuonano tutt’attorno le valanghe, che i due amici finalmente hanno un soprassalto di sincerità…
“Perdonatemi Gonzaga, vogliate perdonarmi… Io vi ho strapazzato qualche volta, trattandovi da bugiardo…”.
“E che cosa vuol dire, che cosa me ne importa?”.
“Io non ne avevo il diritto, io meno di ogni altro avevo il diritto di rivolgervi quel rimprovero, perché anch’io… anch’io durante la mia vita ho mentito molto, sì, purtroppo, ho mentito… spesso e in questa ora suprema sento il bisogno di aprirmi, di vuotarmi, di denunziare pubblicamente le mie menzogne”:
“Delle menzogne, voi? Che dite mai?”.
“Io…io… non ho mai ucciso dei leoni”.
“Ciò non mi stupisce minimamente, e vi dirò di più, che voi non mi avete ingannato né punto né poco giacché io non ci avevo mai creduto che voi aveste ucciso dei leoni” rispose Bompard tranquillissimo. “E’ necessario lamentarsi tanto per così poco? E’ il nostro sole che ci porta a questo, si nasce con la bugia sulle labbra… Prendete esempio da me: io dacchè sono al mondo non ho detto la verità una volta soltanto. Non appena apro bocca, il sole del Mezzogiorno mi mette un certo pizzicore sulla lingua… non so che cosa sia…” (…)

Nel frattempo sopraggiunge qualche schiarita. I due decidono allora di continuare la discesa aggirando il famoso crepaccio con una lunga deviazione.
“Mi raccomando Gonzaga, quello che abbiamo detto resti qui”.
“Non ci siam visti”.
E pieni di nuovo ardore si ripongono in cammino, affondando fino al ginocchio nella neve caduta allora e che ha sepolto con la sua ovatta ogni traccia della carovana(…).
La tormenta riprende, la bussola impazzisce…
“Vanno avanti con la sola speranza di poter scorgere la roccia oscura dei Grands Mulets nel bianco uniforme, silenzioso, in picchi, guglie e gobbe fresche fresche che li circondano accecandoli, e anche li spaventano non poco, potendo nascondere sotto i loro piedi i più terribili crepacci (…).
Camminano da più di due ore, allorché nel bel mezzo di una cresta di neve, molto difficile da superare, Bompard esclama spaventato: “Tartarino, ma questa strada va in su”.
“Eh, lo vedo bene anch’io che questa strada va in su” risponde il presidente sul punto di perdere la flemma.
“Secondo la mia idea si dovrebbe andare in giù”
“Lo so anch’io che dovrebbe andare in giù; e che cosa volete che ci faccia? Chi sa che non discenda dall’altra parte”.
Infatti dall’altra parte la via discende, ma discende terribilmente, in un accavallamento di nevai e ghiacciai a picco, e proprio in fondo a quell’ammassamento di una bianchezza spaventosa sorge una capanna (sono arrivati sulla cresta spartiacque del Dôme du Goûter, affacciandosi sul versante italiano, ndr).
“Prima di tutto, voi non mi abbandonerete, non è vero, Gonzaga?”
“E voi neppure, non è vero, Tartarino?”
Si scambiarono questa suprema raccomandazione senza nemmeno potersi vedere, separati da una cresta dietro la quale Tartarino è scomparso avanzando: l’uno per salire e l’altro per discendere, con lentezza e terrore. Non si parlano neanche più, concentrando ogni loro superstite energia nella cura di evitare un passo falso e di non sdrucciolare.
D’un tratto, essendo giunta oramai a un metro dalla cresta, Bompard ode un grido terribile del suo compagno e al tempo stesso la corda dà uno strappone violentissimo, seguito da scosse violente e disordinate… Tenta di resistere e di puntellarsi per trattenere il suo compagno sull’orlo dell’abisso. Ma la corda, che è senza dubbio una corda molto vecchia, dopo qualche momento di quella tensione, si rompe: “Cacchio!”
“Corpo!”
Questi due gridi si incrociano sinistramente, lacerando il silenzio e la solitudine; quindi una calma grandiosa, una calma di morte che nulla più riesce a turbare nella vastità delle nevi immacolate.
Verso sera, un uomo che somigliava vagamente a Bompard, un’ombra dai capelli ritti, sparuto, disfatto, fangoso e grondante, giunge all’albergo dei Grands Mulets dove gli viene subito operato un massaggio, quindi, riscaldato e nutrito, viene messo a letto prima che abbia potuto pronunziare altre parole che queste, intramezzate da lacrime e da pugni verso il cielo: “Tartarino… perduto… la corda… rotta…”, ma sufficienti per lasciar comprendere la grande sciagura accaduta (…).
Bompard, rimasto inebetito, non poteva fornire nessun indizio preciso né sul dramma né sulla località dove esso era avvenuto.
Solamente, al Dôme de Goûter fu rinvenuto un pezzo di corda rimasta in una frattura del ghiacciaio. Ma quella corda, cosa stranissima invero, era stata tagliata ad entrambi i suoi capi da una lama: tutti i giornali di Chambéry ne dettero una riproduzione.

Epilogo. Così si intitola l’ultimo capitolo, che vede uno strano personaggio percorrere stancamente le assolate e polverose strade della Provenza, entrare in Tarascona furtivamente, rasentando i muri, quasi a volersi nascondere. Chi è e come mai si comporta in questo modo? Il lettore smaliziato ha già capito: si tratta proprio di Tartarino.
Per spiegare la sua presenza furtiva a Tarascona, sarà bene ritornare per un momento sul Monte Bianco, fino al Dôme de Goûter, al momento preciso quando i due amici si trovarono l’uno da una parte, l’altro dall’altra del suddetto Dôme, e Bompard sentì a un certo punto la corda tirare, e dimenarsi in fondo furiosamente il peso come di un corpo che vi fosse ciondoloni. In realtà la corda era rimasta fra due blocchi di ghiaccio, e Tarantino sentendo dalla sua parte il medesimo strappo e il medesimo tragico ciondolamento nel vuoto, credette anch’egli che il suo compagno fosse perduto e avesse finito col trascinarlo seco. Allora, in quel momento supremo… come potrei dire?…non sono cose tanto facili a dirsi, mio buon Dio!… nell’angoscia della paura e dello smarrimento, tutti e due allo stesso tempo, dimentichi della santità del giuramento fatto all’Hotel Baltet, con un gesto sommamente istintivo tagliarono la corda, Bompard da una parte col proprio coltello, e Tartarino dall’altra con un colpo di piccozza. Subito dopo, inorriditi del proprio delitto, coscienti entrambi di avere sacrificato il compagno, si dettero a scappare in opposta direzione.
Quando lo spettro di Bompard giunse ai Grands Mulets quello di Tarantino giungeva all’osteria della Visaille (a metà della Val Veny, versante italiano, ndr). Come? Per quale miracolo? Dopo quante capriole e sdruccioloni? Chi lo sa? Il Monte Bianco soltanto potrebbe dircelo (…).
Non appena gli fu possibile si fece trasportare a Courmayeur, che è la Chamonix italiana. All’albergo ove venne ricoverato per farlo rimettere un po’, non si parlava che di una grande catastrofe avvenuta sul Monte Bianco, sorella gemella di quella sul Cervino, illustrata dal Doré. Un altro alpinista inghiottito per la rottura della corda.
Convintissimo che si trattasse di Bompard, il povero Tartarino si sentiva divorare dal rimorso, non osava più raggiungere la delegazione né ritornare al proprio paese.
Leggeva già su tutte le labbra e negli occhi di tutti: “Caino, dov’è tuo fratello?”. Ma la mancanza di denaro e di biancheria per potersi cambiare, e la fine di settembre oramai giunta vuotando tutti gli alberghi, lo decisero a mettersi in cammino. Infine… nessuno lo aveva veduto commettere il delitto… Chi gli impediva di inventare chi sa quale arzigogolo? (…).
Il lieto fine è alle porte. Non prima di un’ennesima pantomima… Bompard, rientrato con la delegazione a Tarascona e narrata, secondo la sua versione, la tragedia vissuta, diventa il regista dell’estremo saluto all’amico Tartarino. Le esequie si svolgono nella Chiesa parrocchiale, tra lacrime e discorsi, la banda cittadina, tutti i negozi chiusi per il lutto del PCA. Ma è al Club delle Piccole Alpi che si svolge il saluto solenne, alla presenza delle autorità, del clero, dell’esercito, della nobiltà, dell’industria e del commercio.

“Per più di trenta volte, o signori, ma che dico trenta, per più di novanta volte, o signori, ho esplorato l’abisso, senza poter arrivare dove era giunto il nostro sublime martire e infelice presidente, forse a quest’ora al centro della Terra sicuramente, e della cui caduta io potrei ben immaginare la traiettoria dai punti dove rinvenni questi frammenti”.
Così dicendo egli pose sul tappeto un pezzettino di mandibola, un dente, due bottoni e un pezzetto del panciotto, una fibbia delle bretelle, alcuni peli della barba (…).
Si aprì una piccola porta nel fondo del salone, il cui cigolare fece voltare gli astanti che videro apparire un uomo come un fantasma. Quell’uomo o quel fantasma era Tartarino, pallido e muto.
“Guarda chi c’è… Tartarino!”
“ Guarda chi c’è… Gonzaga!” (…)
“Andiamo dunque, presto, ragazzi!” disse Tartarino alleggerito e raggiante, posando la mano sulla spalla dell’uomo che credeva di aver ucciso (…)
Tutti ridevano, si stringevano la mano, si abbracciavano, si davano buffetti e pizzicotti, mentre la fanfara ancora all’oscuro di questo colpo di scena seguitava imperterrita la sua marcia funebre dolce e straziante in onore del PCA.
Con questa ennesima beffarda annotazione si chiude il romanzo di Alphonse Daudet. Personaggi caricaturali, certo, avventure paradossali e inverosimili, ma inserite in un contesto molto aderente alla realtà.
La falsità, la gelosia e la menzogna, oltre all’esibizionismo, all’alterigia e talora alla violenza, come connotati abituali tra personaggi che si muovono nell’ambiente immacolato delle vette, può urtare la nostra sensibilità e suscettibilità. Ma basta pensare a molte note vicende della storia dell’alpinismo per modificare questa impressione e ridimensionare i miti romantici.
A partire dalle falsità che accompagnarono la prima ascensione del Monte Bianco da parte di Jacques Balmat contro il dottor Paccard, all’affaire Bonatti/Desio/Compagnoni nella vicenda del K2, solo per citarne due celeberrime, non si può certo imputare al povero Tartarino la patente di slealtà e di ipocrisia.
La realtà storica di decine di esempi di fandonie, accettate come vere per decenni, ha dimostrato che il paradosso non sta nella fantasia di Daudet, ma nelle debolezze della natura umana tout court, che anche nelle terre alte albergano né più né meno come a livello del mare di Provenza.