di Ugo Ranzi
Premessa
Fino all’inizio degli anni ’70 alla prima nevicata che copriva la Grigna abbandonavo l’arrampicata e passavo allo sci. La prima sciata si faceva nelle vacanze di sant’Ambrogio ma qualche volta anche prima, ricordo di aver sciato al monte Pora ai primi di novembre quando il giorno 4 a scuola era ancora vacanza. Nevicava presto e tanto, la mia stagione sciistica durava fino a Pasqua quando fino a mezzogiorno la neve portava bene anche senza essere stata battuta. Praticavo principalmente lo sci da discesa dove ero bravino, al Monte Bondone ero tra i pochi che facevano anche il Mugon che era di una ripidezza esagerata. Scialpinismo ne ho fatto poco ed è un peccato. Il fondo non mi piaceva, ho partecipato alla Marcialonga del 1973 ma solo per dimostrare a me stesso che a 30 anni non ero ancora vecchio (si può essere più scemi???).
Poi dopo Pasqua la neve se ne andava e ricominciavo con la roccia. Fino agli anni ’70 l’unica salita alle basse che sapevo fare era la Cassin al Medale. Poi scopersi che qualcuno aveva cominciato a tracciare vie anche a bassa quota e nomi come Angelone, Pizzo Boga, Rocca di Baiedo e così via mi diventarono famigliari. Non capisco perché quando si parla degli inizi del “Nuovo alpinismo” il Lecchese non sia mai considerato. Qui forse più che altrove la transizione da suola rigida a pedula è stata evidente, le prime vie difficili su Sasso d’Introbio e dintorni sono state salite ancora con gli scarponi. Di queste attività nel Lecchese ho letto solo qualcosa nelle prefazioni di qualche libro come La chiusa della Valsassina e Le Placche. Forse uno storico dell’alpinismo potrebbe dedicarci dell’attenzione. Al di là di queste mie considerazioni, la Valsassina diventò anche per me la roccia per tutte le stagioni e uno dei luoghi dove torno ancora anche se di anni ne ho molti più di trenta.
L’Angelone
Fino alla seconda metà del secolo scorso l’Angelone era stato solo un rilievo sopra la partenza della funivia dei piani di Bobbio, un’elevazione utile per piazzarci sopra un po’ di ripetitori per il piacere televisivo degli abitanti della vallata sottostante. Anche io ero più interessato a cercare possibili linee di salita sulle rocce delle Corna di Bobbio che fiancheggiano sulla sinistra gli ultimi metri della funivia prima dell’arrivo.
Poi negli anni ’70 arrivarono Don Agostino Butturini e i suoi giovani Condor e tutto cambiò. Le strutture di fondovalle conquistarono una loro importanza. Sull’Angelone e dintorni si scoprì una meravigliosa roccia compatta con erosioni, buchi, rigole che permettevano arrampicate da sogno. Ogni struttura ha il suo nome spesso ispirato alla creatività degli anni ’70. Così ai classici Primo, Secondo, Terzo, Quarto Sperone si affiancano Scoglio di Rugabella, Placche di Pietracalma, Sperone Frigidus e via discorrendo.

Ce n’è per tutti i gusti, dai monotiri alle vie di 300 metri sul Quarto sperone, possibilità di concatenamenti, bello quello tra la via di Foto di gruppo con signorine e la via Schiavi della Pietra. All’attacco delle vie ci arrivi in 10/20 minuti, discese normalmente in moulinette o doppia.
In giugno non è raro incontrare i gigli di S. Antonio che col loro vivo colore arancio ingentiliscono le asperità della salita. Data la bassa quota, dalla primavera all’autunno il verde della vegetazione da cui emergono le strutture rocciose potrebbe far sottovalutare le difficoltà: così non è, ci sono si salite di terzo grado ma anche di 7c.
La prima volta lo scoprii con Claudio, Emilio, Brunella, avevo comprato una guida che descriveva le vie dell’Angelone, Placca Condor, Sasso d’Introbio, Pala Condor e la bellissima Rocca di Baiedo dove, a quel tempo, erano ancora percorribili le vie a sinistra della Condor ‘80. La chiodatura era molto parca per cui ogni buco, cespuglio, clessidra era benvenuto per aggiungere tranquillità ai molti tratti in aderenza, tecnica a me poco gradita anche perché usavo ancora gli scarponi rigidi.
A proposito di chiodatura, dopo la nascita di Matteo, mio figlio, la mia mentalità verso l’assicurazione era cambiata drasticamente. Prima se c’erano chiodi bene, se non c’erano passavo lo stesso confidando nel mio buon rapporto peso/potenza (al liceo ero l’unico della mitica quinta F del Leonardo da Vinci, classe purtroppo solo maschile, che in palestra saliva la corda con le sole braccia e le gambe a squadra, in latino non ero un gran che ma in educazione fisica…). Nel 1973 nacque Matteo e da allora almeno ogni 5 metri cercavo un’assicurazione, qualunque cosa andava bene chiodo, spit, clessidra, spuntone, nut, friend, albero. Penso di essere stato un precursore del concetto di “via plaisir”.

La mia prima via fu la Jorghe Jorghenson sul Primo Sperone, oggi si considera con questo nome solo un tiro iniziale, al tempo invece continuava seguendo quella, credo, che oggi chiamano via del Verme e poi si saliva fino in cima allo sperone per scendere, camminando, sul versante opposto. Non fu facilissimo seguire la giusta via, pochi chiodi, molta fantasia, comunque la roccia splendida mi entusiasmò.
Dopo la richiodatura del 1998 ho percorso decine di vie, molto spesso da solo autoassicurato e ogni volta è stato bello. Ci sono stato in tutte le stagioni, un autunno ho raccolto anche delle mazze da tambur (fungo) sul sentiero d’avvicinamento, credo non occorresse il permesso. Qualche volta mi prendevo mezza giornata di ferie e riuscivo a fare una quindicina di tiri su tre o quattro Placche o Speroni diversi. Mi è capitato anche di dovermi appendere ad uno spit per una telefonata di lavoro di mezzora. Il cellulare è stata un’invenzione utile in molti casi ma quante volte ne avrei fatto a meno!
Alcune vie le ho ripetute tantissime volte. Con Massimo ho salito una decina di volte Foto di Gruppo e le vie del Primo Sperone. Con Claudio sono andato spesso alle Placche di Sherwood, Con Alessandro, tra le altre, ho salito Schiavi della Pietra e con Maurizio oltre alle vie del Primo Sperone ho salito i tiri di Anabasi fino al passaggio chiave, qui una vipera dispettosamente posizionata proprio lì ci ha fatto rinunciare e magari ci ha evitato una brutta figura.
L’unico difetto dell’Angelone, secondo me, è che molte vie si assomigliano e quindi nei miei ricordi rischio di fare un po’ di confusione. Però quelle che hanno una loro caratteristica come Schiavi della Pietra, Anabasi con i suoi bei diedri iniziali o la fessura ad arco di Foto di Gruppo, via aperta da Gogna, Guerini, Savonitto e altri importanti alpinisti degli anni ’70, io me le ricordo bene, ricordo anche la Lumaca di Vetro ma perché l’ho trovata proprio difficile.
La placca Condor
Una cava dismessa di fronte a Baiedo al di là del torrente Pioverna, alle pendici dell’Angelone è diventata uno dei luoghi più affollati della zona. Nei giorni festivi si fa fatica a trovare uno spazio libero su questa liscia placca spittata dovunque e con l’aggiunta di tre linee di prese artificiali. Alla base, auto parcheggiate in ogni spazio parcheggiabile e qualche decina di persone, una folla eterogenea. Ci sono climber muscolosi, famiglie con bambini alle loro prime esperienze assicurati da padri orgogliosi e guardati da madri preoccupate, anziani arrampicatori che non riescono a smettere, giovani climber che cercano l’ammirazione delle ragazze che li accompagnano, giovani ragazze che qualche volta arrampicano meglio e più elegantemente dei climber che le accompagnano.
E’ una placca inclinata con una bella fessura sinuosa centrale in mezzo a lisciumi preoccupanti, una zona più abbordabile a sinistra, un diedro strapiombante sulla destra, una larga fessura, una zona con prese artificiali e all’estrema destra una zona liscia ma con un po’ di protuberanze che permettono di salire con una aderenza più umana. Le varie linee, lisciate e levigate dall’uso, richiedono principalmente l’arrampicata in aderenza. La recente richiodatura a fix permette di salire senza i rischi e le preoccupazioni affrontati dai primi salitori, Don Butturini e i suoi ragazzi, ancora al tempo degli scarponi rigidi.
Da parecchi anni un problema familiare non mi dà la possibilità di arrampicare dove vorrei, per cui spesso, pur di muovermi sulla roccia, anch’io frequento la Placca Condor. Mai di sabato e domenica, non mi piace esibirmi e mi innervosisce essere osservato. Le vie con prese artificiali le considero un po’ diseducative perché in roccia gli appigli li devi cercare, intuire, provare; quelle prese ti dicono già che lì ti ci puoi attaccare o appoggiare e tutta la parte psicologica e creativa dell’arrampicata decade. Però quando devo rinforzare gambe e braccia le uso anch’io sia in salita che in discesa. Delle altre vie salgo solo le vie meno difficili e un po’ appigliate, l’aderenza non è proprio il mio genere preferito. Quella che considero più bella è la fessura centrale, la Via degli Amici è purtroppo un po’ scivolosa per l’alta frequentazione. E’ anche una via che indica il mio stato di forma. Se in uno degli ultimi passaggi in alto arrivo al fix senza utilizzare il rinvio particolare che serve come rampino vuol dire che sono in buona forma.

Il Sasso d’Introbio
Arrivando dallo stradone, poche centinaia di metri prima della Placca Condor, si alza una parete alta una settantina di metri. Roccia bellissima, qualche buco qua e là, parca spittatura, verticalità assoluta. Come abbiano fatto Don Butturini e company a tracciare quelle linee, ancora con gli scarponi rigidi, resta per me un mistero. Non so quante altre falesie, oltre al Sasso d’Introbio e alla Placca Condor, distino dall’auto meno di 10 metri. Qui è tutta un’altra storia, le salite sono tutte molto impegnative e alla base invece di famigliole ci sono climber agguerriti.

Io sono riuscito a salire solo il primo tiro della via Francesca e mi sono anche tirato su qualche spit. Per una pagina pubblicitaria di una delle ditte di cui ero dipendente ho usato, su una rivista dedicata all’elettronica, una delle belle foto che mi ha fatto mia moglie su questa via.

Pala d’Introbio
Così è stata chiamata la parete destra del Sasso d’Introbio. Li è tutta un’altra musica, le linee tracciate sono meno difficili, c’è addirittura la Equinozio di 3° grado. Alla sua destra ci sono linee di difficoltà crescente fino all’ultima a destra la via Nera.
Le ho salite tutte esclusa la Nera che ho provato ma o era troppo difficile per me o non ho capito come farla.
I monotiri sono tutti belli e ben appigliati, quella che mi ha dato più soddisfazione è stata la via dei Draghi tracciata dalla solita ditta Don Butturini&C. Non c’erano i draghi ma dopo i primi 10 metri ho incontrato una vipera sdraiata al sole che sembrava un cordino, per lo spavento ho tracciato una variante di ventesimo grado per evitarla. La via è di tre tiri, mi sono tirato su un chiodo, il resto l’ho fatto secondo i dettami dell’arrampicata libera. Molto bello e non facile l’aereo traverso al termine del secondo tiro.
Muro d’Introbio
Se poi dalla base della Pala si sale costeggiando le rocce a destra, percorse ogni 4/5 metri da linee spittate, al termine di questo muro ci sono alcune salite veramente belle. Paula ridens, Primavera e il gioiello La Lama, sono dei monotiri di 20/25 metri a cui vale la pena dedicare un po’ di tempo. Peccato siano brevi, perché la roccia è ben abbigliata, ci sono delle “buche da lettera” un tipo di appiglio che mi piace molto; ricordo la buca da lettera al termine del “traversino” della Cassin al Medale, così profonda che gli infilavo tutto l’avambraccio. Grazie Don Butturini per aver scoperto la Lama!
Don Butturini
Il grande merito dello sviluppo dell’arrampicata nelle zone comprese tra la Rocca di Baiedo e l’Angelone va senz’altro attribuita all’intuito e alle attività di Don Agostino Butturini col gruppo dei Condor da lui creato. Oggi è normale pensare a falesie, spit, salite di fondovalle ma negli anni ’70 l’idea della vetta era ancora predominante. Don Butturini è stato uno dei precursori della nuova filosofia d’arrampicata e grazie a lui gioielli di vie come la Lama, Solitudine, Anabasi sono a disposizione di tutti gli appassionati di arrampicata. Ho incontrato spesso su quelle pareti arrampicatori stranieri provenienti da vari paesi europei, quelle salite sono conosciute anche all’estero. Ho avuto solo una volta l’opportunità di incontrare Don Butturini, abbiamo fatto due chiacchere sulla sosta del secondo tiro della Solitudine, poi un dispettoso temporale ha interrotto il colloquio e l’arrampicata. Nel 2019 ha compiuto 80 anni, spero che le istituzioni locali gli tributino il riconoscimento da lui meritato per la valorizzazione della zona.
Una placca da sogno sulla Rocca di Baiedo
Per anni gli arrampicatori l’hanno vista solo come una elevazione boscosa a sinistra della chiusa della Valsassina con una storia di antiche fortificazioni risalenti a prima del 1500. Poi alla fine degli anni ’70 arrivarono i Condor, nome di un gruppo di ragazzi capitanati dal sacerdote Don Agostino Butturini e quella ex rupe fortificata diventò un’attrazione irresistibile per gli appassionati della roccia. E’ rimasta ancora boscosa ma sulle sue solide rocce che si insinuavano tra gli arbusti nacquero bellissime linee di arrampicata e tra i cespugli ora si vedono luccicare gli spit.
Ci sono molto affezionato, ho cominciato a salirla dalle vie semplici, quelle sulla sinistra che ormai da molto tempo non sono più frequentabili perché il proprietario dei terreni sottostanti ne ha vietato l’accesso. Si chiamano Orion, Antares e Clessidriana, il nome di quest’ultima è tutto un programma, adoro assicurarmi alle clessidre. La Popa deve essere bellissima ma ne è stato proibito l’accesso prima che io la salissi, ogni tanto mi viene la tentazione di trasgredire questo divieto. Ho fatto anche Necropolis, Navayo, Folletto e lo Sperone.
Quelle che mi sono piaciute di più sono la Condor ‘80, poco frequentata ma molto bella, la via del Tuono resa ancora più bella con la modifica del primo tiro con la recente richiodatura e poi c’è lei, la Solitudine, la più bella di tutte, un vero capolavoro con al quarto tiro una delle più belle placche che io conosca, inizia contornata dalla vegetazione e poi si allarga, una specie di triangolo rovesciato. Peccato siano solo una cinquantina di metri! E’ così bella che un paio di volte l’ho ridiscesa in doppia per salirla di nuovo.

La prima volta la Solitudine l’ho salita in alternata con Claudio, io usavo ancora gli scarponi rigidi, lui aveva le scarpette. Arrivato da primo a un certo punto della placca c’era un passaggio di aderenza obbligatorio. Avevo sempre considerato con sufficienza il training autogeno ma in quel frangente fu probabilmente risolutivo. Mi isolai completamente e cominciai a pensare e a dirmi cose strane del tipo “io sono la roccia, la roccia è me” e dopo un po’ riuscii a passare. Non ho più applicato quella tecnica e quindi non ho avuto modo di verificare se il merito fu veramente del training autogeno o degli “allora ti muovi” dell’impaziente Claudio.
Se proprio si vuol godere appieno la giornata invece di scendere in doppia si sale in cima e si scende, in un ambiente idilliaco, con i sentieri tracciati in mezzo ai prati di Nava tornando al punto di partenza; si attraversano le ultime propaggini del paese di Baiedo e c’è anche una provvidenziale fontana lavatoio dove rinfrescarsi dopo la fatica. E’ bellissimo farlo nel tardo pomeriggio quando la quiete della sera si avvicina.

La Cascata dietro la Rocca di Baiedo
Cascate ne ho viste parecchie ma questa è diversa da tutte le altre che conosco. Si trova, subito dopo la Chiusa della Valsassina nel lecchese, lungo la bella ciclopedonale che collega Pasturo a Prato San Pietro. Il nome ufficiale è Cascata dello Sprizzotolo. Non ci si aspetti lo Zambesi o il Niagara, la cascata è alta una cinquantina di metri e larga sette/otto. La sua particolarità sta nell’infinità di rigagnoli che, scorrendo paralleli, richiamano alla mente un ricamo, un pizzo, una filigrana.
La ciclopedonale segue l’andamento del torrente Pioverna, di tanto in tanto lo attraversa su dei bei ponti di legno massiccio. Da Pasturo alla Chiusa sono un paio di Km che godono della costante visione di Grignetta e Grignone; questa prima parte è soleggiata anche d’inverno. Dopo la Chiusa il panorama cambia totalmente, i primi 3/4 km sono boscosi e, a seconda della stagione, si possono trovare in quantità fragoline, more, nocciole, castagne.
La parte successiva è affiancata dalle imponenti pareti del Pizzo della Pieve. Il percorso totale è di circa 15 Km, mai faticoso, sempre pianeggiante con la possibilità in estate di rinfrescarsi nel torrente. D’inverno la cascata diventa un arabesco ghiacciato.

Il sole ridea calando “davanti” al Resegone
E’ certo il monte più conosciuto dagli studenti a causa dello svarione geografico del Manzoni. Nulla di regale nell’origine del nome, visto da Lecco le sue punte ricordano proprio i denti della sega che in dialetto lombardo viene chiamata “rèsega”.
Con l’eccezione della Torre Elisabetta e di qualche tentativo sulla Bastionata ho frequentato il Resegone principalmente per le sue ferrate. Mi sarebbe piaciuto percorrere d’inverno il canalone Bobbio, attraente linea nevosa che si insinua tra due ali rocciose. Purtroppo non ho per ora avuto l’occasione e la preparazione per salirlo, la neve in salita non è il mio forte, invece con gli sci in discesa sul ripido me la cavo bene.
Ho salito una volta sola la ferrata Silvano e la impegnativa Gamma2. La ferrata del Cinquantenario l’ho salita alcune volte prima che fosse rifatta all’inutile ricerca della difficoltà fine a se stessa.

Molte volte ho invece salito la Gamma 1 ai piani d’Erna, con i suoi circa 1000 metri di sviluppo costituisce un ottimo allenamento. L’ultima volta ho avuto uno spiacevole incontro con una vipera che mi ha morsicato una mano, per fortuna aveva finito il veleno in precedenza e tutto si risolse con 24 ore in osservazione all’ospedale di Niguarda. Da allora sulla Gamma1 non ci sono più tornato.
Con poche eccezioni, la roccia del Resegone non è delle più attraenti, per cui d’abitudine ho privilegiato la Grigna lì di fronte. La Bastionata e la Torre Elisabetta sono le due eccezioni che io conosco. Sulla Bastionata non ho concluso niente: un tentativo alla via Bonatti interrotto per mia incapacità dopo poche decine di metri e i primi due tiri della bellissima Nuovi Orizzonti abbandonata per un principio i tendinite, avevo usato troppo le mani e poco i piedi.
La Torre Elisabetta si nota poco perché è sovrastata dalla più appariscente Torre CAI di cui sembra solo un contrafforte. Peccato perché la sua salita, purtroppo di soli tre tiri, è molto appagante soprattutto per la roccia solida e appigliata.
La prima volta ci andai con Claudio, avevo salito da primo i trenta metri iniziali con un attacco leggermente obliquo ma non particolarmente difficile. Quando toccò a Claudio non riuscì neanche a fare i primi cinque metri, dopo mezz’ora di suoi tentativi infruttuosi mi decisi a scendere e ad abbandonare. Mentre sconsolati riempivamo gli zaini per il ritorno mi venne un’illuminazione: sia io che Claudio abitualmente arrampicavamo da primi, io da secondo salivo peggio che da capocordata, e se anche Claudio…? Lui non molto convinto dal mio ragionamento ci provò e salì tutto il tiro senza esitazioni.
Un’altra volta ero con Maurizio, arrivati in cima si accorse che aveva dimenticato il discensore. Gli diedi il mio tanto io potevo scendere “alla Piaz”, come ai vecchi tempi, avvolgendomi la corda attorno al corpo. Non avevo pensato però che ai vecchi tempi l’abbigliamento era diverso: pantaloni di robusto velluto, maglione fatto dalla mia mamma che, per essere sicura che non prendessi freddo, aveva abbondato con la quantità di lana e sopra a quello una giacca a vento a prova di sfregamento. La discesa fu una sofferenza, l’abbigliamento “nuovi tempi”, pantaloni leggeri di cotone e maglietta non era proprio adeguato.
Zuccone di Campelli
Sulla destra della Valsassina, sopra Barzio, si trova una zona molto bella ma non frequentata quanto meriterebbe, probabilmente perché l’impianto che sale da Barzio non funziona in tutti periodi. Quando è chiuso, per gli arrampicatori arrivati alla base dell’ovovia tra l’alternativa del paio d’ore per salire alle cime sopra il rifugio Lecco e le poche decine di minuti per l’Angelone, la tentazione per quest’ultimo è troppo grande.
Lo Zuccone Campelli è al centro del ferro di cavallo di un anfiteatro contornato da belle pareti a sinistra lo Zucco Barbisino, a destra lo Zucco di Pesciola. Io ho salito molte delle vie a destra, tutte belle con roccia perfetta, in tanti anni non ho mai trovato un appiglio o un sasso mobile. L’ambiente è solitario, il silenzio è interrotto solo dai fischi delle sentinelle delle marmotte, d’estate è tutto un fiorire di rododendri. Sullo Zuccone Campelli ci sono parecchie vie, la più conosciuta è una via del 1930 aperta da Cassin, Comici, Dell’Oro e Mary Varale: visti i nomi degli apritori mi aspettavo una bella via, invece sia io che i miei amici quando l’abbiamo salita negli anni ’60 siamo rimasti delusi (Forse negli anni ’60 la via era ancora da “ripulire”: oggi è semplicemente magnifica, NdR).

Per molti anni sono tornato ai piani di Bobbio solo per sciare, solo una volta sono riuscito a fare la pista Italia, quella che scende fino alla partenza dell’ovovia. Ormai, visto il poco innevamento degli anni 2000 credo non la si potrà più fare.
Qualche volta sono salito sullo Zuccone Campelli d’inverno, se c’era già una traccia la salita era divertente, altrimenti la fatica era tanta.
Poi uscì il libro Le trenta vie più belle, scritto da Ivo Mozzanica, purtroppo scomparso di recente (novembre 2020) per causa del malefico virus CoViD-19, con tutte le vie descritte accuratamente e mi fece scattare la voglia di conoscerle. Sullo Zucco di Pesciola ho salito la via Bramani, un diedro molto bello, la via dei Bergamaschi, la via Casari, la via Gasparotto, tutte belle e di soddisfazione. Si può scendere in doppia ma è più gratificante salire in cima allo Zuccone Campelli per terminare in bellezza.
Oltre a queste vie c’è la classica cresta Ongania, da molti paragonata alla più conosciuta cresta Segantini in Grignetta, e la via ferrata Rebuzzini che vi corre parallela.
Al ritorno conviene fermarsi al rifugio Lecco, sperando non sia cambiata la gestione, per mangiare l’ottima torta fatta in casa e per ammirare gli occhi della signora che ha fatto la torta.
Bellissima, secondo me, è la visita alla valle dei Mugof, che inizia a sinistra esternamente all’anfiteatro. L’ambiente è vario, panoramico e ancor più solitario. Ricordo il bello spettacolo di un gruppo di piccoli di marmotta che giocavano per nulla intimoriti dalla nostra presenza. Anche le sentinelle ci avevano considerati inoffensivi. Chi si preoccupò di noi invece fu una grossa vipera che, terrorizzata, schizzò un centinaio di metri più a valle in un batter d’occhio.
il sole ridea calando dietro il Resegone. Svarione involontario di Giosuè Carducci. Poesia il Parlamento da ‘La canzone di Legnano’. Memorie scolastiche…sarebbe corretto col Resegone visto da Vedeseta o Morterone. Mi scuso per la precisazione, comunque complimenti per aver pubblicato questi bei ricordi, che leggo con piacere.