Il patto tra la piccola isola che affonda di Nauru e la compagnia The Metals per estrarre cobalto dai fondali.
Le mani dell’industria mineraria sui fondali dell’Oceano Pacifico
di Monica Perosino
(pubblicato su lastampa.it l’11 gennaio 2022)
Lo scorso novembre 2021, alla conferenza sul clima di Glasgow, le parole dei delegati dei piccoli Stati insulari (Aosis), i primi condannati a scomparire a causa del riscaldamento globale, avevano commosso e colpito il mondo. Tutti ricordano l’appello di Simon Kofe, delle Tuvalu, Stato insulare polinesiano nell’Oceano Pacifico, che aveva inviato un videomessaggio al mondo con le gambe immerse nel mare fino alle ginocchia per denunciare i rischi legati al cambiamento climatico: «Per noi, per le piccole isole – aveva detto – si tratta di vita o di morte».
Oggi, proprio una di quelle piccole isole minacciate dall’azione dell’uomo sulla natura, potrebbe cambiare – in peggio – la storia. Nauru, un puntino di foresta e spiagge bianche nell’Oceano Pacifico meridionale, 20 chilometri di superficie e diecimila abitanti, sta per spostare ancora un po’ più in alto – meglio dire in basso – il limite di sfruttamento delle risorse naturali.

Il presidente di Nauru, Lionel Aingimea, che grazie a una clausola della convenzione Unclos ha il controllo esclusivo su 75mila chilometri quadrati di fondali nella zona nordpacifica di Clarion-Clipperton (tra le Hawaii e il Messico), ha deciso che era il momento di sfruttarli, questi fondali. E si avvia, con una sussidiaria di The Metals Co (ex DeepGreen), la Nauru Ocean Resources, ad avviare – secondo una complessa catena di richieste e permessi – il progetto mineriario entro 18 mesi. Se Nauru riuscisse, come sembra, a mettere in atto il progetto, enormi bulldozer potrebbero scendere nell’ecosistema più grande e ancora incontaminato del mondo, il fondale marino, con danni irreversibili all’ecosistema. L’unico stop potrebbe arrivare dall’Isa, l’autorità internazionale dei fondali marini, che ha 18 mesi, appunto, per completare il suo “codice minerario” e (che avanza estremamente a rilento) e bloccare il progetto, ma che in 30 anni non è riuscita a stabilire nemmeno le regole per le estrazioni in alto mare.
Dalle acque profonde si estrarrebbero cobalto, rame, nichel e manganese – materiali chiave delle batterie – da rocce delle dimensioni di una patata chiamate «noduli polimetallici» che si trovano sul fondo del mare a una profondità di 4-6 km, che verrebbero risucchiati usando enormi macchinari subacquei.
La piccola Nauru, sfruttata fino all’osso per l’estrazione di fosfati dalle potenze coloniali durante il ventesimo secolo, ora si è messa un gigante minerario che ha come unico fine quello del guadagno, anche se cerca di raccontare un’altra storia: The Metals Co ha affermato che l’estrazione in acque profonde sarebbe un modo più pulito per procurarsi i metalli delle batterie, perché produrrebbe meno rifiuti e meno emissioni rispetto all’estrazione terrestre. Le tecnologie di energia pulita come le batterie delle auto elettriche richiedono metalli, come il cobalto, che si trovano nei noduli in concentrazioni relativamente elevate. «Nauru fa parte di un’impresa pionieristica che potrebbe presto alimentare l’economia verde mondiale», si sente in un video prodotto dal governo di Nauru, mentre migliaia di firme si aggiungono ogni giorno alla moratoria contro lo sfruttamento dei fondali.
Ovunque, il male per a Terra e per tutti i Viventi viene dalla solita fonte: l’industria. L’intera civiltà industriale deve finire al più presto: ormai è diventata una speranza. Occorre gestire il transitorio verso modelli completamente diversi in modo da avere eventi meno traumatici possibile.