(leggenda e realtà nei mari patagonici)
di Marcello Cominetti
(pubblicato su marcellocominetti.blogspot.com il 1 maggio 2018)
Molti anni dopo, in una locanda malfamata di Puerto Montt dove Antiguo Vidal si trovava per sbrigare i suoi traffici, ascoltò quasi per caso – ma esiste poi il caso? o è piuttosto la somma di avvenimenti ineluttabili che ci conducono a sbattere contro il nostro destino? – dalla voce di un marinaio accasciato lungo il bancone del bar, la storia che di lì a poco gli avrebbe svelato la verità sulla scomparsa di suo nonno avvenuta da quelle parti almeno un secolo prima. L’isola alla foce del Rio Baker, diceva il marinaio con la voce roca impastata dal rum e dal fumo, che sulle carte risultava senza nome, in verità un nome ce l’aveva, un nome che evocava una vicenda avvolta in un intrico di piante e di oblìo e testimoniata da cumuli di ossa e teschi cui nessuno mai aveva dato sepoltura. Poi, come per scacciare orribili pensieri, trangugiava il fondo del suo bicchiere prima di sbatterlo con un colpo secco sul banco.
A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento la maggior parte dei diritti di sfruttamento del territorio della Patagonia era di proprietà di poche Società Anonime costituite da coloni europei. L’attività produttiva si basava sulla produzione di lana di pecora nella secca steppa Argentina spazzata dal vento, e di legname, che invece abbondava sul territorio umido cileno che si affaccia sulle tempeste del Pacifico dove viene lambito dalla fredda corrente di Humboldt.
Proprietari di estensioni immense, i coloni dettavano le regole, forti del fatto di trovarsi lontano dal potere centrale assestato nelle capitali di Santiago e Buenos Aires dove le notizie di ciò che accadeva alla fine del mondo giungevano frammentarie e accomodate in modo favorevole rispetto a chi le inviava.
Contando sull’impunità, le ricche Società che facevano perlopiù capo alle famiglie Menendez-Bethy, Bridges, Nogueira e Braun si macchiarono di crimini orrendi a cominciare dalla sterminio sistematico delle popolazioni indigene per continuare con quelle dei “peones” che si ribellavano all’eccessivo sfruttamento nel loro duro lavoro. I tentativi di sciopero furono via via soffocati e la repressione culminò con le stragi del 1923, quando l’esercito argentino intervenne per schiacciare l’irredentismo capitanato dall’anarchico Antonio Soto e dal suo braccio destro El Toscano.
Tra tutti gli episodi tragici di quell’epoca quello cui faceva cenno il vecchio marinaio a Puerto Montt è davvero poco noto, ma a Caleta Tortel, villaggio cileno alla foce del Rio Baker solo da pochi anni raggiunto dalla Carretera Austral voluta dal dittatore Pinochet, Antiguo Vidal trovò non poche persone capaci di raccontare la storia che avvenne sull’isola, i cui particolari macabri variavano in funzione della quantità di Pisco bevuta nell’occasione.
Caleta Tortel sorge in una zona dove il clima è tra i più umidi della terra: basti pensare che piove una media di 345 giorni all’anno. Lì la foresta cilena deve la sua accessibilità al fatto che è percorsa dal Rio Baker, fiume dalla portata gigantesca che nasce dal lago Bertrand e si getta in un profondo fiordo del Pacifico dopo 250 km di tortuoso percorso. Questa via d’acqua venne da sempre utilizzata per la navigazione locale e per il trasporto del legname che veniva poi caricato sulle navi da cabotaggio che giungevano alla foce del Rio Baker dall’oceano.
Durante la più grande campagna di taglio di alberi che si ricordi nella zona, erano stati contrattati dalla Società che esercitava la sovranità terriera sull’area, un grande numero di operai che erano accorsi in massa dall’isola di Chiloè e da molte altre parti della Patagonia. Avventurieri e fuggiaschi vari trovavano in questi lavori a tempo determinato la loro fonte di sostentamento e quando la campagna ebbe termine si ritrovarono tutti concentrati nei baraccamenti costruiti sull’isola più grande, allora senza nome, alla foce del Baker.
Restavano solo da pagare quelle centinaia di braccia che avevano appena finito le loro fatiche e poi la maggior parte di loro poteva fare ritorno alle loro case e famiglie, se mai ce le avevano. I più in verità – gauchos e baqueanos, vagabondi senza fissa dimora – sarebbero stati pronti a partire verso nuove avventure.
A quel punto ai torvi amministratori della Società balenò un’idea tanto geniale quanto perversa. Se non avessero pagato i salari di tutti quegli operai i guadagni che avrebbero tratto dalla vendita del legname sarebbero stati netti. Ma come fare? Presto detto e fatto. L’ultimo rancio destinato a quei poveri diavoli che aspettavano di essere traghettati sulla terraferma dalle imbarcazioni della stessa Società, venne mescolato al veleno e fu a tutti fatale. L’isola alla foce del Baker venne così abbandonata al suo carico di morte e all’oblìo.
Dopo un breve soggiorno a Caleta Tortel e tante bevute al Rey de los Cipreses, Antiguo Vidal decise di andare a verificare di persona le storie che aveva qua e là raccolto e che messe insieme potevano svelare il mistero intorno alla scomparsa di suo nonno. E fu lui a trovare mucchi di ossa disseminati lungo la spiaggia e impigliati tra le fronde della foresta pluviale cresciuta rigogliosa a prova del fatto che la vita è sempre più forte della morte.
Successivamente una congregazione religiosa guidata da un prete italiano si prese cura di costruire sull’isola un cimitero per dare degna sepoltura a quei poveri disgraziati che oggi solo il nome dell’isola ricorda. Si chiama infatti semplicemente Isla de los Muertos, l’Isola dei Morti.
Il tempo trasformò la storia in diverse leggende ricche di ulteriore orrore attorno all’Isla de los Muertos di cui venni in parte a conoscenza in maniera decisamente fortuita – o forse no – mentre facevo un giro in bicicletta da quelle parti.
Quando partii insieme a mia moglie per quel viaggio non lo sapevamo ma nel novembre del 2003 veniva inaugurato il tratto di strada che collegava via terra Caleta Tortel al resto del mondo. Prima di allora il villaggio di boscaioli poco distante dalla foce del Rio Baker, era raggiungibile solo per via fluviale o marittima e ora quei 25 km di strada sterrata che perforavano letteralmente la foresta venivano inaugurati proprio mentre noi passavamo da quelle parti.
La digressione a Tortel fu di quelle epiche, perché ci trovammo coinvolti nella cerimonia inaugurale dell’avvenimento, come i primi ciclisti a percorrere quel tratto di strada, assieme alle autorità del posto, tra le quali figurava perfino il Presidente della Repubblica Lagos. Questi aveva lo stesso cognome di mia moglie (e a questo punto mi viene da dire che non poteva essere un caso) e ci volle sul palco delle autorità mentre la banda intonava l’inno nazionale e tutti gli abitanti, sì e no un centinaio di persone, stavano seri con il petto gonfio e lo sguardo inebetito.
Pioveva forte e i festeggiamenti furono trasferiti sotto un gran tendone dove vino rosso e Pisco, un distillato simile alla grappa, scorrevano a fiumi. Fu lì che conobbi Paulo, intraprendente e giovanissimo impresario del luogo, dedito a ogni tipo di attività: dall’allevamento alla pesca, dal taglio degli alberi alla costruzione di barche fino al turismo. La sua famiglia possedeva un “campo” attaccato al ghiacciaio Jorge Montt, lembo settentrionale dello Hielo Continental Sur, che si raggiungeva in 5 ore di navigazione dal villaggio e dove vivevano i suoi vecchi genitori, qualche suo fratello e poche vacche temprate dal duro clima del luogo dove Paulo portava circa 10 turisti l’anno, tra i quali anche noi.
Dopo qualche bicchiere, Paulo si fece serio e ci raccontò dell’Isla de los Muertos con aria tutt’altro che leggera, tanto da farmi venire davvero i brividi e pure dei dubbi sulla veridicità di una storia tanto terribile. Così il giorno dopo salpammo in un’alba veramente da morti con la sua scricchiolante “chalupa” in profumato legno di Cipres de las Guaitecas alla volta dell’Isola.
L’estuario del Rio Baker era enorme, l’acqua già da qualche miglio era diventata marrone e il motore faceva una gran fatica a risalire la corrente costellata di resti di tronchi galleggianti che sembravano scheletri. Pioveva, come da copione, il cielo era nero e grosse nuvole stazionavano a pochi metri dal suolo. Era l’atmosfera adatta per quel viaggio, pensavo, mentre le montagne apparivano e scomparivano tra le nubi mostrando i loro ghiacciai pensili come in una sinistra favola gotica.
L’approdo fangoso si aprì subito sull’infinità di croci senza nome diligentemente allineate e riparate da steccati di legno marcio che occupavano l’intera superficie dell’isola. Su alcune di esse era stato incastrato un teschio umano e muoversi a piedi tra le tombe significava affondare nel fango almeno fino a metà tibia. Altre ossa erano ammucchiate qua e là e gli unici fiori erano quelli degli arbusti che crescevano ovunque tra i faggi megellanici.
La leggenda era dunque una storia vera.
Racconto intenso e bellissimo. Mi è sembrato di essere lì, tra le umide strade, in mezzo alla foresta pluviale, sulle rive del fiume. Vedo Paulo con il suo bicchiere e ascolto le storia di chi ci ha preceduto. Onore a quei morti e onore a chi li ricorda. Che posto deve essere la Patagonia e i suoi abitanti! Grazie per averlo scritto. Roberta
Bello e coinvolgente. Mi sembra un ottima traccia per farne un film, magari con regista Fulvio Mariani