Ritorni

di Renzo Bragantini

Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna (Italo Svevo, La coscienza di Zeno, cap. III)”.

A ognuno, credo, sicuramente anche a me, è capitato di non percepire che il filo sottile della vita stava per spezzarsi, vicino a lui. Ma il 7 marzo del 1980, che fosse sul punto di troncarsi realmente l’ho capito eccome. Allora insegnavo Letteratura italiana all’Università di Macerata. Stavo tornando a casa in macchina la sera attorno alle 19.30; il giorno dopo era previsto che si partisse per sciare in Dolomiti con mio fratello Stefano, mia cognata e mio nipote. Non avevo mangiato né bevuto, per essere più lucido. All’uscita da uno svincolo che mi doveva permettere l’ingresso nella superstrada per Roma, non so cosa sia successo. Ricordo solo che ero per terra, la mia Fiat 127 nuova di zecca sfasciata contro un muro; poi, che un’autoambulanza, seguita da una volante della polizia, si preparava a portarmi a tutta velocità verso l’ospedale di Ancona. Vedevo solo da un occhio, il sinistro, ma non ero agitato come si può pensare, né in quel momento sentivo dolori particolari; domandai al barelliere che mi stava accanto se sarei rimasto sfigurato, e perché da un occhio non vedevo nulla. L’uomo, intelligente e sensibile, mi disse che non dovevo avere quel timore, e, per quanto riguardava l’occhio, si sarebbero presi subito cura di me.

Renzo (a sinistra) e Salvatore Bragantini in vetta al Corno Grande, Vetta Centrale, dopo aver salito la via dei Pulpiti alla parete nord-ovest, agosto 1972. Autoscatto.

Una volta entrati al pronto soccorso, fui portato di corsa nel reparto degli interventi urgenti. Per prima cosa chiesi di poter parlare con mio fratello per tranquillizzarlo. Chiesi a un poliziotto della volante di formare il numero. Per innocente sbadataggine, o forse perché temeva che la mia situazione fosse effettivamente assai seria, e suggerisse di preparare i miei parenti al peggio, il poliziotto disse a mia cognata che avevo avuto un grave incidente. Sentii dall’altra parte della cornetta mia cognata chiamare mio fratello e scoppiare a piangere. A quel punto afferrai il telefono e dissi a Stefano che ero vivo, di non preoccuparsi, piuttosto, di avvisare tutta la famiglia che sarei stato impossibilitato a mettermi in contatto con chiunque; a quell’epoca, dei cellulari neanche l’ombra. Venne il medico del pronto soccorso, una persona cui non potrò mai essere sufficientemente grato. Mi fece alcune domande, anche per capire con che tipo di paziente aveva a che fare. Poi mi disse, con tono pacatissimo ma deciso, che non avrebbe potuto utilizzare alcun tipo di sedativo per rimettermi l’occhio, attaccato per un filo, nell’orbita da cui era uscito; qualsiasi antidolorifico avrebbe rischiato di farmi entrare in un coma forse irreversibile. Mi disse anche che avrebbe fatto il possibile per ridurre i tempi, ma che dovevo far ricorso a tutta la mia forza. Di quell’ora passata sotto i ferri (non so quanti punti sotto l’arcata sopracciliare, parecchi nella parte posteriore del cranio) non posso dire altro che si è trattato del dolore più insopportabile che abbia mai provato, cui ho fatto fronte come ho potuto, mordendo qualcosa che mi avevano messo tra i denti, mentre, per lo sforzo di resistere, ero madido di sudore. Rimasi in prognosi riservata per una settimana.

Risultò poi che avevo sbattuto frontalmente contro il muro della corsia opposta, fortunatamente a velocità bassa (uscivo da uno svincolo pronunciato), ed ero stato sbalzato, per mia somma fortuna, dal lunotto posteriore dell’auto, sfondando il vetro e urtando col cranio contro l’asfalto. Ci fosse stata una persona con me, sarebbe morta sul colpo. Se avessi utilizzato la cintura di sicurezza (a quell’epoca non ancora obbligatoria), poiché ingranaggi del motore erano usciti violentemente dalla loro sede e si erano conficcati nel sedile del guidatore, sarei rimasto paralizzato, nella migliore delle ipotesi, dalla cintola in giù. Nella sfortuna, avevo avuto una bella dose di buona sorte. La diagnosi comunque fu: trauma cranico grave, frattura del bacino e sfondamento dell’acetabolo.

Fisicamente non me la passavo bene; moralmente, neppure. Mia moglie aveva voluto separarsi, e non mi era rimasto che accettare la sua decisione, malgrado vedere col contagocce mia figlia, di appena quattro anni, mi pesasse in maniera insopportabile. Dopo due anni ricominciai lentamente ad arrampicare a comando alternato, naturalmente su difficoltà assai ridotte, soprattutto con mio fratello Salvatore, col quale avevo fatto, ai bei tempi, gran parte delle mie salite più belle. Fui in seguito anche in grado, con Enzo Camilleri e con Betto Pinelli, come me ex istruttori alla Scuola di alpinismo della SUCAI Roma, di fare alcune vie lunghe di maggiore impegno, per le quali ho sempre avuto particolare interesse. Arrampicare non era un problema, anche se la gamba sinistra non mi concedeva che una spaccata molto ridotta; lo era invece camminare, soprattutto in discesa. La sinistra mi procurava dolore, e per evitare di aumentarlo dovevo ricorrere a continui spostamenti del corpo.

Renzo Bragantini in arrampicata sulla via dei Pulpiti (Gran Sasso, Corno grande, Vetta Centrale, parete nord-ovest), agosto 1972. Foto: Salvatore Bragantini

Dovetti comunque tenere un ritmo blando per un pezzo, limitandomi a poche salite l’anno, mordendomi le mani dalla rabbia; l’incidente mi era capitato a 34 anni, quando ero in piena forma fisica. Nel frattempo mi ero sposato una seconda volta, vivendo a Venezia, e insegnando prima lì, poi a Udine.

Dicono che esista un dio delle occasioni. A Roma, a un incontro del cosiddetto popolo viola (quello che chiedeva alla sinistra di allora di farsi avanti coraggiosamente) rivedo un mio vecchio amico, poi divenuto a me carissimo, Lucio Cereatti, nato a Roma ma di origini friulane. Lo saluto con piacere, ma rimanendo sulle mie. Dopo un po’ di tempo (siamo, credo, al 2004) mi dice che sta tenendo dei corsi di Scienze motorie a Gemona, e mi chiede se mi va di tornare ad arrampicare. Gli rispondo subito di sì.

Anche il mio secondo matrimonio è nel frattempo andato in fumo, e questa volta sono io che decido di separarmi, sentendomi letteralmente derubato. Il ritorno in montagna su vie che negli anni precedenti non mi sarei sentito, con le mie menomazioni, di affrontare, è un momento esaltante. Lucio e io facciamo, in alcuni anni, molte belle salite insieme. Ma su una di queste, la Gadenz alla Cima del Coro, nelle Pale di san Martino, che abbiamo attaccato il 4 luglio del 2009 in due cordate, mio fratello Salvatore e Mario Benassi, Lucio e io, per disattenzione e stanchezza (ero appena uscito da una settimana di estenuanti esami all’Università) faccio un volo di 10 metri, trattenuto perfettamente dal mio compagno. Risultato: frattura di due vertebre e della scapola sinistra. Altro stop, ma neanche paragonabile al precedente. Alla fine di quell’anno muore nostro fratello Stefano; si chiude un altro periodo doloroso. Decido alla fine, spronato da mio fratello Salvatore, di farmi operare all’anca sinistra; il dolore in effetti cresce sempre di più ed è ora di provare. L’operazione riesce perfettamente, e da allora la montagna è tornata a occupare molto del mio tempo libero. Camminare non mi fa più alcun male, e, oltre ad arrampicare, torno anche a sciare d’inverno.

In cima al Monte Argentario, dopo la via delle Canne d’organo. Da sinistra, Lucio Cereatti, Claudia Franceschini, Anne Robin, Renzo Bragantini. Foto: Claudia Franceschini.

Sentimentalmente sono libero da tempo, ma trovo una mia antica amica, con la quale inizio una relazione che all’inizio, e per lungo tempo, sembra promettere bene. La mia nuova compagna è una persona intelligente e colta, ama la vita all’aria aperta, e tutto sembra procedere per il meglio. Ma, una settimana dopo aver ottenuto da me, parte in prestito parte in dono, una somma di una certa consistenza per sue necessità, mi dice che, pur volendomi molto bene, non crede che la nostra storia possa durare. Il mondo mi crolla addosso. Allora insegnavo da tempo a Udine, vivevo a Venezia, e l’idea di non aver più terreno solido sotto i piedi sembrava gettarmi in un periodo nero.

Non mi ricordo dove ho letto, molto tempo fa, che la fortuna bisogna anche sapersela meritare. A me pare un contraddizione in termini. Fatto sta che due giorni precisi dopo quella sconfortante separazione vengo chiamato da Roma. Dall’altra parte del filo mi si dice che hanno deciso di chiamarmi a insegnare Letteratura italiana alla Sapienza, e mi si chiede se accetto. Naturalmente, dico subito di sì.

In cima all’Aguglia di Goloritzé, marzo 2008. Lucio Cereatti (a sinistra) e Renzo Bragantini. Foto: Gianni Battimelli.

Così, finalmente, lascio Venezia (città dove sono nato, ma che non ho mai particolarmente amato) e torno, 25 anni dopo il mio esilio lagunare, alla città dove mi sono, anche sul piano alpinistico, formato. E succede quello che non mi sarei mai aspettato. Rientrare nell’ambito degli arrampicatori romani, grazie una volta di più all’inseparabile Lucio, è la cosa più naturale. Mi aggrego al gruppo dei cosiddetti “mercoledì dei pensionati”, che si organizza per uscite regolari in falesia; ne fanno parte tante vecchie conoscenze, tra le quali spicca l’intramontabile Chiaretta Ramorino, che a 83 anni suonati, e oltre, è ancora in grado di arrampicare, sia pure in moulinette, su difficoltà piuttosto elevate.

Ma ritrovo anche Gianni Battimelli, Bombepo Martellotti, Paolo Cutolo, e tanti altri. In più ho modo di conoscere nuovi compagni di cordata; con alcuni di loro (Fabio Cappon, Piero Pagliani), oltre che con Lucio, mi riesce ancora di fare salite interessanti e abbastanza impegnative, soprattutto nelle Dolomiti orientali, da me negli anni giovanili meno frequentate che le occidentali, dato che in ferie andavamo sempre a Pozza di Fassa. Mi rendo conto così che, per difendermi dai lunghi anni in cui l’incidente mi aveva privato della frequentazione della montagna, mi ero allontanato dalla montagna stessa, e dalle persone con cui l’avevo vissuta. L’amicizia che i miei compagni di cordata hanno riannodato con me è stato un dono che mi ha salvato davvero nei momenti più duri.

E l’amore? È tornato anche quello, quando da tempo non ci pensavo più.

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3 Comments

  1. says: Carlo Crovella

    Nella storia. Una delle tante conferme che andare in montagna è salvifico e sana le ferite. Sia quelle del corpo che quelle dell’anima.

  2. Caro Renzo Bragantini,
    sto leggendo “Il Decameron e il Medioevo rivoluzionario di Boccaccio”, ma non le avrei scritto se non fossi capitata in questa pagina.
    Leggendo ho capito l’aria triste che ha nelle foto e anche la punta di dolore che si sente quando nel libro mette e a fuoco quanto Boccaccio avrebbe meritato e meriterebbe un’attenzione ben diversa e maggiore.
    Lavoro da quarant’anni da psicoanalista, professione che ho scelto partendo da una precoce passione per la mitologia greca, passando per la letteratura e la filosofia, trovando nel lavoro e nella ricerca Psi la misteriosa costruzione di un’identità che non dipenda dalle gerarchie più di quanto sia indispensabile.
    Trovo sentieri e vie maestre in questa direzione in Boccaccio, che ho letto integralmente pochi anni fa e che non dimentico mai. La ‘intendenza’ dei suoi personaggi, che grazie a questa escono dai peggiori incidenti e dai peggiori aguzzini, ha un corrispettivo nelle fiabe, a partire da quelle incluse nella sua raccolta da Straparola, continuando con il Cunto di Basile, e poi seminando, germogliando, rinascendo e fiorendo prima in Europa, poi negli US, poi in tutto il mondo. Mi appassionano anche gli echi delle Mille e una notte in Boccaccio.
    Credo che Boccaccio, soprattutto per il Decameron, sia stato determinante per la diffusione delle fiabe, che hanno una storia incessantemente intrecciata fra letteratura e narrazione popolare, in entrambe le direzioni.
    Ringraziandola del suo lavoro e di questo diario, le mando i miei più cordiali saluti e tanti auguri,
    Adalinda Gasparini

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