Campanile Basso di Brenta
di John Middendorf
(pubblicato su bigwallgear.com il 3 settembre 2021
Gli “ultimi grandi problemi” dei primi del ‘900
Poco dopo la salita da parte del team Tomasson della parete sud della Marmolada nel 1901, un’altra avventurosa e spettacolare via in libera fu completata dalle sorelle baronessa Ilona e Rolanda Eötvös di Budapest, con Antonio Dimai, Giovanni Santo Siorpaes e Agostino Verzi (tre delle guide più famose e talentuose dell’epoca). La loro via sulla parete sud di 700 m della Tofana di Rozes ha comportato un’arrampicata libera esposta di 5.6 e un’intricata ricerca dell’itinerario. Se questo genere di vie sono fatte con i clienti, è sempre necessario trovare buone soste ed essere sempre preparati a reggere gli strappi di eventuali loro cadute. Decenni dopo la prima salita di questa parete, secondo la tradizione guida padre-figlio, il figlio di Antonio, Angelo Dimai da Cortina ha ripetuto una difficile direttissima della Tofana di Rozes con Miss Fitzgerald (Fonte: Domenico Rudatis). Dopo l’apertura della parete sud della Tofana di Rozes il ritmo della ricerca sulle pareti più grandi rallentò e il fulcro degli “ultimi grandi problemi” degli anni successivi nelle Dolomiti si spostò su guglie più snelle.



Torri mai immaginate scalabili, accessibili solo agli uccelli, stavano diventando possibili nella mente di alpinisti come Tita Piaz, disposti a “provarci” usando l’abilità di arrampicata ginnica in situazioni assai esposte. Per 50 anni, dai tempi di Whymper, di mano in mano che la roccia diventava più ripida, l’attenzione per una linea su roccia verticale si concentrava principalmente nei camini, cioè le fessure lunghe e profonde che al loro interno presentavano buoni posti di sosta, ma gli alpinisti stavano scoprendo che anche le pareti di roccia dolomitica straordinariamente lisce erano possibili con un’audace tecnica di arrampicata libera, quella che Guido Rey ha chiamato “Alpinismo acrobatico”. La pionieristica salita di Georg Winkler della fessura Winkler (Winklerriß) sull’omonima Torre del Vajolet nel 1887 aveva aperto gli occhi degli scalatori su quella possibilità.
I primi del ‘900 videro le prime ascensioni di alcune delle guglie più spettacolari delle Dolomiti. Una guglia che meglio caratterizza l’epoca è il Campanile Basso. Proprio come nello Yosemite, iniziata tre decenni dopo sulla gemella Higher Cathedral Spire, l’esperienza di scalare torri precedentemente inaccessibili ha portato agli strumenti e alle tecniche che hanno permesso di scalare le pareti più grandi della zona in modo più elegante di quanto si pensasse possibile.
Campanile Basso di Brenta
Alla fine del secolo XIX il Campanile Basso divenne uno dei crogioli di arrampicata libera delle Dolomiti. La guglia era considerata un “ultimo grande problema” ed era chiamata anche il “Dente del Gigante delle Alpi Orientali” (Hans Barth). Il gruppo del Brenta è uno spettacolare sottogruppo delle Alpi Calcaree meridionali in Trentino, area frequentata dalla locale società alpinistica, più orientata verso i sentimenti italiani (SAT), in quello che allora era l’estremo meridionale dell’impero austro-ungarico. Il Campanile Basso è per lo più nascosto alla vista dalle valli sottostanti, quindi la visione di questa selvaggia torre di 300 m appare per la prima volta a distanza ravvicinata, e attira gli sguardi bramosi di tutti gli scalatori – spesso con paura – verso la sua cima alta e drammaticamente solenne.
Un famoso tentativo del 1897 condotto da Carlo Garbari con due compagni aveva comportato un’intricata ricerca del percorso e un’audace “free-climbing”. La cordata vi ha aperto molti tiri su roccia esposta e difficile, mentre salivano a spirale sulle pareti sud, est e ovest. Dopo 300 m di dislivello, sono stati fermati da un muro liscio di 20 m appena prima della vetta. In corrispondenza di una piccola cengia, poi chiamata Pulpito Garbari, una delle guide, Nino Pooli, salì coraggiosamente in libera la parete bianca, ma non riuscì a superare gli ultimi passaggi difficili e sprotetti verso gli ultimi metri più agevoli.
Probabilmente degno di nota per chi non conosce l’alpinismo è come funzionava allora la guida. Le guide erano al vertice di quel genere di professione e spesso esploravano e facevano incursioni su territori inviolati, quindi “vendevano” la “prima salita” ai clienti paganti. Generalmente veniva assunto anche un “portatore” per avventure (Nino era effettivamente un portatore in quell’avventura al Basso, e Piaz fu un portatore per molti anni prima di diventare guida ufficiale nel 1907). Capitò anche che alcuni clienti determinassero l’obiettivo, come probabilmente è stato il caso di Garbari sul Basso, poiché uno dei suoi obiettivi principali era la rivendicazione della conquista della vetta per gli italiani. Il compito principale della guida era la sicurezza del cliente tramite una buona assicurazione con la corda. Per la maggior parte delle ascensioni era sufficiente una guida, ma se c’erano complesse traversate su roccia verticale ce ne volevano due. Le migliori guide alpine di allora erano, e lo sono tuttora, meritatamente considerate delle figure eroiche.
La gestione delle tecniche di corda in una cordata si è evoluta, soprattutto nelle Alpi Orientali, dal metodo “alpino” con il quale più persone salivano assieme collegate da una corda, pronte a sostenere qualsiasi scivolata di un elemento del gruppo, al sistema che prevedeva una cordata da due, con uno scalatore in testa e uno “da secondo”: questi era ben posizionato al posto di sosta e teneva la corda stretta in mano, forse avvolta attorno al braccio per maggiore attrito. A quel tempo, sul Campanile Basso nel 1897, senza solidi ancoraggi sulla piccola cengia, una caduta di 10 metri sulle corde statiche di manila avrebbe generato enormi forze (oggi diciamo una caduta di fattore 2). Questo carico di energia, anche se non si fosse verificato un taglio della fune su qualche spigolo affilato, avrebbe comunque quasi certamente determinato la rottura della corda.
In altre parole, senza un ancoraggio sulla piccola cengia rocciosa, se Nino fosse caduto e fosse rimbalzato, il che era probabile, il trio legato insieme sarebbe caduto e sarebbe precipitato a morte certa. Nel suo libro Mezzo secolo di alpinismo, Piaz racconta una storia esilarante di come, tutto rannicchiato tra i sassi della cengia, Garbari avesse minacciato le sue riluttanti guide con una pistola per costringere la cordata a raggiungere la vetta con qualsiasi mezzo. L’azione, se vera, “ha salvato Garbari per sempre dall’essere infastidito da guide disoccupate”, osserva ironicamente Piaz. Ma inutilmente: non era ancora il momento e la cordata si ritirò.

Due anni dopo, nel 1899, gli austriaci Otto Ampferer e Karl Berger seguirono il percorso di Garbari fino alla cengia e anche loro furono scoraggiati da quell’ovvia via diretta. Perciò riscesero un tratto e fecero senza paura una traversata cieca ed esposta attorno all’esposto spigolo nord-ovest, trovando così un punto debole al centro dell’imponente parete nord verso quella celebre vetta, “un ampio pianoro con un altare a blocchi nel mezzo”. La vetta della Guglia di Brenta (denominazione preferita dagli austriaci) era stata vinta e la salita diventò sensazionale notizia per tutta la comunità alpinistica europea. Nel bollettino austro-tedesco del 1899, la cordata austriaca riportò il percorso, annotando l’uso dei chiodi per la discesa.


L’aggiunta dei chiodi
Le successive salite hanno aggiunto molti chiodi alla via. Hans Barth nel DuÖAV del 1907 scrive: “Liscia come un serpente, la torre di roccia selvaggia si erge per circa 300 m. È bello che gli alpinisti moderni abbiano abbastanza rispetto per questi orgogliosi mostri di roccia da non ucciderli completamente con funi metalliche, scale e ringhiere, segnando solo i suoi punti vulnerabili con qualche “perno” di ferro e qualche cordino“. Da notare che già nella seconda salita, due alpinisti di Monaco avevano segnato alcuni di questi “luoghi vulnerabili” con chiodi. In seguito fu anche ritrovata una corda fissa. Durante la terza salita di Barth nel 1901 con Alfred von Radio-Radiis (che nome!), egli racconta di aver portato per la salita affilati chiodi d’acciaio e di aver notato, guardando dalla base, uno “sbalzo giallo-rosso ornato di anelli di corda e chiodi”). Più tardi, incerto su dove continuasse il percorso, vede “Un gancio! Quindi deve essere di qua!”. Su una piccola cengia osserva: “I nostri predecessori avevano ancora una volta infisso le loro armi nel corpo di questa montagna selvaggia, noi li abbiamo ringraziati per questa facilitazione”.
Ma c’è di più: su un tratto a metà, dove la via esce da un camino e si sposta su una parete esposta, “I primi arrampicatori hanno nuovamente domato la roccia ostinata con un gancio, sì da essere un poì più tranquilli nell’affrontare quel pilastro”. Per quest’ultima audace scalata dietro lo spigolo nord-ovest fino al muro finale, scrive: “un’alcova con ganci arrugginiti, sopra di essa uno sperone fragile con un chiodo martellato e con un vecchio anello di corda di canapa che sembra ancora reggere”. Nota: la parola tedesca che Barth usa è “Stift” (in inglese pin/pen/pencil/peg), probabilmente simile all’uso britannico della parola, “peg”, termine generico usato per tutte le cose martellate, cioè i chiodi. Insomma, alla terza salita del Campanile Basso la via aveva un buon numero di chiodi aggiunti e soste più sicure. Con l’aumento della sicurezza in soste precarie ed esposte con ancoraggi artificiali (chiodi) legati con corda, si potrebbero rischiare brevi cadute in verticale e oscillazioni sugli ancoraggi. Pooli in seguito ritornò alla “sua” via, riuscendo a passare, presumibilmente grazie a una sosta resa più sicura a chiodi. Tutti i chiodi utilizzati sono stati generalmente lasciati al loro posto e, man mano che la via è diventata più popolare, il Campanile Basso ha aperto molti occhi sulle più ampie possibilità del mondo verticale, ingigantendo l’immaginazione degli alpinisti disposti ad adottare i nuovi strumenti.
Ad ogni modo, per quell’epoca era ancora un percorso audace e pericoloso: nel 1911 viene segnalato un incidente mortale. “Il sig. Eugen Prosch di Würtzburg cadde fatalmente dalla Guglia di Brenta… attraversando lo spigolo nord-occidentale al cosiddetto ‘Garbarikanzel’. Fermi dietro lo spigolo, i compagni udirono un urlo, contemporaneamente uno strappo della corda, che poi si mollò. Il corpo è stato tagliato in due da una roccia appuntita. Si dice che Prosch sia caduto per circa 200 m (1911 Mitteilungen)”.

Altre note e immagini del Campanile Basso (e del Brenta)








Bel racconto, molto interessante.
La via normale al campanile Basso è estremamente affascinante.
Ricordo quando da ragazzo ci ho portato mia sorella e mio papà, entrambi con pochissima esperienza di arrampicata.
Mi avevano seguito piu che altro per farmi un piacere, per assecondare la mia passione. Ero riuscito nel mio intento ma con una serie di errori grossolani. Avevamo fatto il camino Scotoni allo stradone, in alto abbiamo evitato l’albergo al sole per arrivare al terrazzino del re del Belgio e, visti dei chiodi, avevamo preso la variante Platter.
Praticamente un V sostenuto invece di un paio di passaggi di IV+.
C’è una bella differenza tra stringere una presa da IV, una da IV+ o una da V-. Questa differenza la vedono solo le guide o chi vede in questo mezzo grado la possibilità di salire o l’esigenza di scendere.
Dopo tante ripetizioni ci si rende conto dei dettagli, nel camino a Y per esempio, passare a sinistra o a destra non è la stessa cosa.
La cosa più bella è riuscire a ripercorrere esattamente l’originale, il più facile. Cercare il facile nel difficile non passerà mai di moda.
Molto interessante. Fantastica ricerca.
Relazioni storiche che mi hanno rievocato i lunghi periodi che ho trascorso tra il gruppo di Brenta, rif. Brentei è salito più volte il Basso.