La decima puntata della nostra storia ha come oggetto ciò che il libro di Kelly Cordes The tower, a chronicle of climbing and controversy on Cerro Torre (Patagonia, 2014, edizione italiana con Cerro Torre, 60 anni di arrampicate e controversie sul Grido di Pietra, Versante Sud, maggio 2018) riporta di interessante (e almeno in parte nuovo) sulla vicenda di Maestri ed Egger al Cerro Torre.
Abbiamo scelto di riprendere 7 capitoli.
Corpo del reato
Inizialmente, i dubbi espressi sull’ascensione del 1959 non potevano che essere di natura teorica: il Cerro Torre sembrava semplicemente troppo difficile, troppo avanti, rispetto agli standard del tempo. Astronomicamente avanti, considerando lo stile e la velocità riportati da Maestri. Ma nessuno aveva mai ripetuto quello che lui diceva di aver scalato, e il corpo di Egger non era mai stato trovato. Non c’erano prove schiaccianti, solo la parola di Maestri e la fedele corroborazione dei fatti offerta da Fava.
Tutto questo cominciò a cambiare con due spedizioni attorno alla metà degli anni Settanta.
All’inizio del novembre 1974, gli alpinisti americani John Bragg e Jim Donini si trovavano ai minimi termini: erano alla fine della strada, e del cibo. Erano giunti in Patagonia dopo un giro tortuoso. Donini era arrivato poche settimane prima assieme a un altro amico che, dopo un po’ di maltempo, si era svicolato con la scusa di “problemi con la ragazza”.
Bragg era in bolletta sparata, viaggiava con mezzi di fortuna, e incontrò Donini una volta arrivato lì. Bragg aveva legato con un inglese fuori di testa. “‘Tiger’ Mick era indubbiamente uno degli esseri umani più strani che avessi mai conosciuto, ed era anche un incredibile dongiovanni”, racconta Donini. A riprova di questo, assieme a “Tiger” Mick Coffey viaggiava la sua nuovissima fidanzata, che presto non sarebbe stata troppo contenta della piega degli eventi. La coppia aveva conosciuto Bragg a New York, dove si erano procurati un viaggio gratis fino a Miami recapitando una Cadillac di un’anziana coppia a una loro residenza di lusso al caldo e al sole. Da Miami avevano trovato un volo per venticinque dollari fino a Bogotà, in Colombia. Da lì, erano saltati su una serie di autobus per Quito, Lima, il lago Titicaca, un posto da qualche parte che Bragg non si ricordava, e poi La Paz. Erano riusciti ad arrivare a Buenos Aires con un paio di trasferimenti in treno e, finalmente, a Rio Gallego.
Dopo una serie di spostamenti in autobus, caldi da squagliarsi o freddi fino al congelamento, un numero interminabile di hotel sordidi e un mese di viaggio infernale, lo spostamento da Rio Gallego sarebbe stato una passeggiata: bastava chiedere un passaggio al furgone del postino. Il postino si recava due volte al mese in quella che noi oggi chiamiamo El Chaltén. La cittadina vera e propria sarebbe arrivata una decina d’anni dopo, ma il servizio postale raggiungeva alcune caserme dell’esercito mezze in disuso. Il viaggio di cinquecento chilometri richiese due giorni, in parte per via delle vecchie strade, di ghiaia o sterrate, in parte perché il postino si doveva fermare a ogni estancia. Alla fine, Bragg riuscì a raggiungere Donini.
Passarono del tempo sui monti, ma presto esaurirono le provviste e tornarono indietro, guadando il fiume e ritrovandosi alla fine della strada. Nuvole fredde si stendevano basse, velando la terra in una coltre di grigio. Il vento sferzava la prateria, con delle gocce intermittenti di pioggia. Bragg e Donini trovarono un passaggio sul cassone di un camion di un gaucho diretto alla guarnigione militare.
Avevano dato al postino una lista della spesa, e lo avevano pagato perché portasse nuove scorte di cibo. Il giorno stabilito, alla caserma c’erano i soldati. Nessuna traccia del postino – o delle provviste. E così si misero ad aspettare. Passò una settimana, poi dieci giorni. Ovviamente nel frattempo il tempo era migliorato, rivelando delle perfette condizioni per scalare. Esaurite le ultime briciole, si incamminarono sullo sterrato lungo il Lago Viedma, voltandosi di tanto in tanto per dare delle occhiate strazianti alle guglie che svettavano sullo sfondo del cielo terso. Erano diretti a Tres Lagos, un piccolo avamposto con un negozietto di alimentari ad appena centoventi chilometri.
“Stavamo camminando da venticinque o trenta chilometri, e di colpo vediamo un furgone Volkswagen. Il disgelo era stato straordinario, e un tratto di strada di un centinaio di metri si era trasformato in una palude. Ecco perché il postino non era arrivato. Dall’altra parte della palude c’era questo furgone con dentro due persone”, racconta Donini.
“Stavamo cercando di aggirare il pantano, e abbiamo visto quei due capelloni che facevano autostop”, ricorda Brian Wyvill. “Eravamo molto lontani dalla civiltà e ci siamo chiesti se sarebbe stato prudente prenderli su, quando uno di loro, Donini, ha infilato la testa nel finestrino aperto e ci ha salutato: ‘Ehi, guarda un po’! Brian Wyvill e Ben Campbell-Kelly!’ “
Si erano conosciuti a Yosemite un paio di anni prima e avevano anche scalato assieme, ma i due inglesi inizialmente non avevano riconosciuto Donini. Wyvill e Campbell-Kelly erano arrivati in nave a Buenos Aires con il loro Volskwagen Kombi e si erano messi alla guida per cinque giorni, in direzione della fine della strada. Ci avevano messo cinque settimane a coprire quattordicimila chilometri, e avevano un sacco di cibo. Passarono il resto della giornata a costruire una passerella improvvisata per superare con il furgone il tratto allagato. Bragg e Donini erano di nuovo alla fine della strada, ma questa volta con il cibo.
Il gruppo appena formato guadò il Rio Fitz Roy e si trovò ben presto nella faggeta. Raggiunsero il Ghiacciaio del Torre e passarono la notte in una grotta scavata nella neve ai piedi delle guglie. Il giorno dopo salirono una manciata di tiri sul Cerro Standhardt, che non era ancora stato conquistato da nessuno.
Poi arrivò il momento delle classiche tormente patagoniche. “Una tempesta senza fine, con molto vento, si scatenò per tre settimane. Il livello dell’innevamento scendeva sempre più in basso, verso le pampas, e noi restavamo lì, frustrati, infreddoliti, impazienti. Ogni tentativo di tornare alla valle veniva respinto dal vento che ci sbatteva di peso a terra, e in occasione delle effimere schiarite vedevamo pareti incrostate di ghiaccio, come se fossero state appena tirate fuori da un gigantesco freezer”, scrive Campbell-Kelly.
Le tre settimane si prolungarono fino a un mese, con solo pochi momenti di requie. Durante le brevi schiarite tra tempeste e nuvole, si dedicarono a ricognizioni e tentativi fin troppo ambiziosi prima di doversi ritirare al loro campo base nella faggeta. Durante uno di questi tentativi, sulla parete Est dello Standhardt, in teoria “al riparo” dagli elementi, trovarono vento fino a centocinquanta chilometri all’ora. La vita al campo base, al di sotto della linea degli alberi, era più rilassata.
Campbell-Kelly riassume così le montagne russe emotive causate dal meteo della Patagonia, allora del tutto impossibile da prevedere:
“Purtroppo le giornate di bel tempo sono così rare che siamo obbligati a continuare a provare, piuttosto che aspettare per una finestra favorevole che potrebbe non arrivare mai. È una situazione che ti demoralizza, e non porta altro che a marce infinite dentro e fuori la Valle del Torre, che come unico risultato hanno una serie di vesciche. Finiamo per essere grati alle vere e proprie tempeste, almeno in quel caso sappiamo che non possiamo nemmeno provarci, e non ci resta che rilassarci e riposare. Tutte le storie che si raccontano sul vento di qui sono sicuramente vere. In diverse occasioni abbiamo sperimentato come diventi impossibile restare in piedi sul ghiacciaio, e le terrificanti raffiche di ghiaccio portate dal vento sono simili alle tempeste di sabbia del deserto. Arrampicare in parete è impossibile, non solo per via della forza del vento, ma per il fatto delle continue raffiche. Sono state queste raffiche a distruggere le nostre tende da bivacco [antesignano dei portaledge, ma con molto più acciaio, pesanti fino a venticinque kg], colpendole ripetutamente fino a romperne il telaio, facendo entrare torrenti d’acqua nonostante l’impermeabilità dei teli“.
Il 26 dicembre Bragg partì per un tentativo in solitaria sul Poincenot (non andò molto lontano), mentre Donini si unì agli inglesi per un’incursione sul ghiacciaio, in direzione dello Standhardt. “Cazzo, non crederai a quello che abbiamo trovato!” esclamò uno di loro al ritorno di Bragg al campo base.
Sul ghiacciaio ai piedi del Cerro Torre, poco prima, avevano scorto una volpe che stava rosicchiando qualcosa. Quando si avvicinarono, la volpe scappò. “C’è uno scarpone!” Dalla vecchia linguetta di cuoio spuntava la parte inferiore di una gamba umana, per lo più ossa, ma con qualche pezzo di carne intatto – conservata per quasi sedici anni nel ghiaccio.
“Indubbiamente la storia della slavina raccontata da Maestri è vera. Assieme ai resti che abbiamo trovato c’era una gran quantità di rocce, che avrebbero potuto provenire soltanto da una frana o da una valanga di ghiaccio e neve”, avrebbe annotato poco dopo Campbell-Kelly. “Tra i resti abbiamo trovato uno spezzone di corde di nylon. Mezze corde, ma usate in parallelo, come se fossero una singola. Un’estremità era completamente sfilacciata, come se si fosse strappata durante la caduta”.
Come potevano essere sicuri che si trattasse di Egger? Innanzitutto, ai tempi ben poche persone si avventuravano fin lì. Si sapeva bene chi andava, e ancora meglio chi non ritornava. Inoltre, come osserva Donini, “Non avevamo dubbi sul fatto che si trattasse del corpo di Toni, per via della posizione e dell’attrezzatura, soprattutto gli scarponi, una marca di Kitzbühel”.
Sul ghiacciaio, con il Cerro Torre che li sovrastava millecinquecento metri sopra di loro, si sentivano sempre più in soggezione. “Non avevamo dubbi sul fatto che Maestri ed Egger avessero salito il Cerro Torre e studiando la linea che avevano scelto non potevamo fare altro che rendere omaggio a quei due uomini così coraggiosi”, continua Campbell-Kelly. “Avevano realizzato quello che noi finora eravamo solo riusciti a tentare, un’ascensione di alto livello, in stile alpino, ma con una grande differenza: loro non avevano niente, della nostra attrezzatura moderna. Niente picche da ghiaccio, con quelle becche che mordono e tengono così bene. Niente viti da ghiaccio autofilettanti, niente chiodi in molibdeno. Niente materiali perfettamente idrorepellenti, piumini sintetici, tende da bivacco”.
Trovarono a poca distanza altri resti del corpo di Egger, oltre a pezzi del suo zaino ridotto a brandelli, abiti, un martello, una piccozza rotta. Setacciarono un’ampia zona in cerca della macchina fotografica – Maestri sostiene che l’avesse Egger, al momento dell’incidente. Le foto di vetta sarebbero state una prova incontrovertibile della loro impresa. La cercavano ogni volta che passavano di lì, in occasione delle numerose sortite verso lo Standhardt, ma non la trovarono mai.
Gli inglesi portarono la piccozza e il martello in Europa, per un’identificazione, e vennero subito bollati come “tombaroli”. Per il resto, “recuperammo i suoi resti, li spostammo e poi li seppellimmo sotto un cumulo di rocce”, ricorda Donini. “Siamo stati molto criticati per questo, perché Egger veniva dalla cattolicissima Austria, e la stampa austriaca chiedeva ‘perché non l’avete portato in un luogo dove avrebbe potuto ricevere una degna sepoltura?’. Comunque, mi ero tenuto un moschettone che avevamo trovato tra i resti, e da lì nacque l’idea di scalare la Torre Egger”.
Gli unici resti significativi di Egger ritrovati nel 1974 furono la parte inferiore della gamba destra e il piede destro. Poi, nel 2003, dal fondo della parte superiore del ghiaccio Torre emersero la parte inferiore della gamba sinistra e il piede sinistro. La carne era perfettamente conservata, da metà dello stinco fino al piede – nudo, senza scarpone. Nello stesso punto furono rinvenuti altri frammenti: una piccola sezione della spina dorsale, uno scampolo di un maglione che corrispondeva a quello che indossava Egger, una parte di un rampone del 1959 e uno spezzone di corda identico a quello già recuperato.
Assurdo. Dov’era il resto di Toni Egger? Sepolto sotto il ghiaccio, certo, ma perché erano riemerse solo le parti inferiori delle gambe e poco altro? Strano, ma non impossibile, immagino. Non riesco a fare a meno di interrogarmi sul punto in cui furono rinvenuti i resti del 1974. Dove erano affiorati in superficie? Nessuna delle persone con cui ho parlato sembrava in grado di localizzare con sicurezza il punto.
Ho contattato via e-mail Campbell-Kelly e gli ho chiesto se avesse foto di quel giorno. Mi ha inviato delle scansioni di diapositive che non guardava da trent’anni. Le immagini erano scioccanti. In una si scorgevano, al di sotto di vecchi vestiti ridotti a stracci, la gabbia toracica e altre ossa: era quel che restava del tronco e delle braccia di Toni Egger.
Non potevano non essersi accorti di quei resti, allora. Ma i ricordi, nel corso degli anni, sbiadiscono. “A quei tempi, quello era soltanto un triste mucchio di stracci marciti, una semplice conferma della morte di Egger”, ha commentato Campbell-Kelly. E per quanto fossero colpiti dai resti, cercavano di concentrarsi sui loro progetti alpinistici.
Oltre al tronco, le foto di Campbell-Kelly rivelano qualcosa di più eloquente, permettendo una localizzazione. I punti di riferimento sullo sfondo dimostrano che i resti di Egger ritrovati nel 1974 si trovavano alla congiunzione tra il ramo superiore del Ghiacciaio del Torre e la corrente principale, vicino a un inconfondibile affioramento roccioso a circa milleottocento metri di distanza dalla base della parete, e settecento metri più in basso.
L’altra gamba, quella trovata nel 2003, è emersa dal ghiacciaio ad appena centodieci metri dai resti del 1974. Com’è possibile? Vorrebbe dire che nel corso di quasi sedici anni, dalla base della parete, dove Egger morì, il ghiacciaio si è mosso per più di un chilometro e mezzo. Certo, il corpo può aver rotolato e rimbalzato per un certo tratto. E poi, nei ventinove anni successivi, si è spostato di appena centodieci metri?
Vero, la velocità dei ghiacciai può variare parecchio, anche in parti diverse dello stesso ghiacciaio. L’ho scoperto studiando i flussi glaciali e parlando con alcuni ranger che lavorano in aree montuose glaciali in diverse parti del mondo. Un glaciologo molto noto, specializzato sulle aree andine – ha pubblicato diversi articoli accademici sui ghiacciai patagonici e vi ha scalato – mi ha confermato che è impossibile trarre conclusioni definitive senza uno studio specifico e continuato del ghiacciaio in questione.
Ancora più eloquente, e ancora più intricata, la questione della corda. Si trattava di mezze corde, ma usate assieme, in parallelo, come se fossero una corda singola. Gli inglesi nel 1974 fecero un disegno della configurazione delle corde. Lo schizzo è circolato parecchio e chiunque lo abbia studiato lo ha trovato parecchio sconcertante. All’estremità degli spezzoni di corda c’era un anello di circa due metri di circonferenza, chiuso con un nodo piano. Di certo troppo ampio per essere usato per assicurarsi all’altezza della cintola, e chiuso con il nodo sbagliato. Nel 1959, il nodo standard per chiudere una sicura era un bulino all’altezza della vita. Ai tempi non c’erano imbraghi. Dall’anello principale si dipartiva un lungo spezzone di mezza corda, tra i quindici e venticinque metri, che poi ritornava con un moschettone sull’anello a cui era agganciato con un barcaiolo. Oltre il barcaiolo, un ramo di circa due metri e mezzo della stessa mezza corda, la cui estremità era strappata e tranciata. Per un alpinista, tutto questo non ha senso.
Le vecchie diapositive che Campbell-Kelly ha dissotterrato includono alcune immagini della corda. Una mostrava un dettaglio dell’anello principale ed era inquadrata una mano con un moschettone, per dare il senso delle proporzioni. Gli schizzi riportavano che l’anello aveva una circonferenza di circa due metri, ma dalle immagini sembrava che fosse la metà. Una misura assolutamente compatibile con quella della cintola di un uomo, soprattutto se coperto da più strati di vestiti. Nei disegni c’era un altro errore: non si trattava di un nodo piano, ma di un bulino. Quello che si usa per assicurarsi. La lunghezza totale sembra quadrare – in effetti c’era parecchia corda.
In ogni caso, cosa significava questa configurazione? L’anello principale poteva essere l’assicurazione di Egger, aveva perfettamente senso. Ma l’altro anello, tra i quindici e i venticinque metri, che ritornava a lui agganciato con un barcaiolo? E l’altra estremità, quella che partiva dal barcaiolo, tranciata? Quell’anello misterioso è esponenzialmente più grande di quello che, per esempio, si potrebbe usare per lanciarlo attorno a un masso autoassicurandosi. Ne ho discusso sia con guide alpine molto esperte che con alpinisti della vecchia scuola, che si assicuravano ancora a quel modo, e nessuno ne è venuto a capo.
Solo una cosa era chiara: non è una configurazione utilizzabile per calare una persona. Che è quello che stava facendo Maestri, stando alle sue dichiarazioni, quando arrivò la valanga, strappò la corda e si portò via la vita di Toni Egger.
Due dei primi resoconti, tuttavia, raccontano una storia diversa. La prima fonte proviene da un quotidiano di Rio Gallegos, stampato meno di un mese dopo la morte di Egger, che riporta una dichiarazione in prima persona di Maestri. La seconda, stampata in un numero del 1959 dell’American Alpine Journal, cita un resoconto proveniente dall’Argentina e firmato da tutti i sopravvissuti della spedizione.
Entrambi dichiarano che nel momento dell’arrivo della valanga Maestri stava calandosi, mentre Egger aspettava alla sosta immediatamente superiore. Maestri aveva sentito il suono, era risalito un po’ sulle corde, ma Egger era stato spazzato via dalla parete. Se fosse stato vero, tuttavia, Egger non sarebbe stato legato alle corde e di certo non con quel lunghissimo anello trovato assieme ai suoi resti, visto che la corda serviva al suo compagno per la calata.
Come morì Toni Egger?
Si trattò di una scarica di pietre, di una valanga, di un crepaccio sul ghiacciaio? E se il misterioso anello di corda fosse dovuto a un tentativo di salvataggio da un crepaccio? Forse le estremità erano strappate pervia di una effettiva rottura della corda doppia. Forse Egger cadde mentre saliva, e desideravano portarlo a casa per una degna sepoltura. Il misterioso anello si spiegherebbe come un mezzo per aumentare il controllo durante il trascinamento a valle del corpo, e forse hanno dovuto abbandonarlo perché esausti, o per l’arrivo di una tempesta.
Forse Egger stava facendo un tentativo in solitaria? In questo caso, il mistero dell’anello sarebbe meno intricato. Avrebbe potuto usare le mezze corde come ulteriore assicurazione nel tentativo di scalare sulle fisse, tirandosi su a forza di braccia (allora era una tecnica comune, per quanto insicura) o come auto-assicurazione nella ricognizione delle sezioni più in alto.
Un sistema comune e piuttosto semplice per scalare in solitaria in auto-assicurazione – anche se non sono stato in grado di determinare se ai tempi fosse un metodo diffuso – consiste nell’utilizzare un barcaiolo per regolare la tensione della corda di auto-assicurazione mano a mano che si procede.
Un’estremità della corda è legata a una sosta. L’altra è legata a noi – ai giorni nostri, all’imbrago. Tra le due estremità la corda viene legata di nuovo a noi con un barcaiolo. È un nodo semplice da realizzare e facile da regolare, e serve da “fermo” variabile mano a mano che si procede. Ovviamente, nessuno desidera cadere sull’intera lunghezza della corda, e così, quando si attacca la scalata, si lascia tra il barcaiolo e la sosta un tratto di corda più corto possibile. Questo implica che nell’altro spezzone, quello tra il barcaiolo e noi (o il nostro imbrago), ci sia in partenza un anello di corda molto lungo, scarico dalla tensione. Mano a mano che si sale, si regola il barcaiolo per darsi corda, e questo fa sì che l’anello di corda più lasco si accorci. Se si vola, è lo spezzone di corda tra la sosta e il barcaiolo ad arrestare la caduta.
Oppure, se sei sfortunato e stai scalando con una corda del 1959, può capitare che si rompa. Se accade, il resto delle mezze corde rimarrà da qualche parte sulla parete. Un’estremità sarebbe ancorata alla roccia, e l’altra tranciata.
Una buona teoria, ma solo una teoria. Nessuno può saperlo, tranne due persone che si sono sempre attenute a una versione dei fatti impossibile. E nel corso degli anni, mano a mano che sorgevano più domande che risposte, Cesarino Fava (ora morto) e Cesare Maestri hanno tenuto un atteggiamento di sfida nei confronti dei detrattori, e sono stati reticenti di fronte a chi poneva domande legittime.
Ma la verità è importante.
Ho chiesto a Tom Dauer se, durante le sue approfondite ricerche per il suo libro Mythos Patagonien (2004, edizione italiana Cerro Torre, mito della Patagonia, Corbaccio, 2008), avesse saputo se la famiglia di Toni Egger, o qualche suo amico, avesse chiesto a Fava o Maestri un resoconto sulla morte di Toni. Mi chiedevo se non sarebbe stato più facile limitarsi ad accettare il resoconto ufficiale, e cioè che Toni era morto in montagna, senza dar peso esattamente al come. La famiglia di Dauer, in Germania, ha una forte tradizione alpinistica e lui stesso ha molti contatti con la comunità alpinistica austriaca, e con la famiglia di Egger.
La sorella di Toni, Stefanie, fu l’unica a esprimere apertamente dei dubbi. “Se partono in tre e tornano solo in due, tu cosa penseresti?” disse a Dauer. Nella sua domanda non c’è nessuna accusa, è solo una richiesta di trasparenza.
Stefanie ha chiesto a Fava e Maestri i diari del fratello – Toni teneva sempre un diario, che avrebbe dovuto essere tra le sue cose al campo base – ma né Fava né Maestri le hanno mai dato niente. Né diari, né risposte.
Stefanie ricorda una visita di Maestri, dopo il viaggio. Dauer racconta di averne discusso con lei: “Stefanie allora era giovane, e sicuramente ci sarà stata un’atmosfera di lutto, di silenzio; sarà stata lasciata sola con le sue domande e il suo odio. È proprio il termine che ha usato: in quel momento ‘odiava’ Cesare Maestri”.
La famiglia di Toni Egger non avrebbe più ricevuto notizie da Cesarino Fava o Cesare Maestri.
La stagione successiva, nel novembre del 1975, Bragg e Donini tornarono con un terzo alpinista, Jay Wilson, e un manipolo di amici e fidanzate che non scalavano.
Avevano imparato qualcosa dal viaggio precedente e questa volta ebbero l’intuizione di spedire via nave il furgone Volkswagen di Donini, carico di attrezzatura, ad attenderli a Buenos Aires. Arrivati al porto, si presentò un altro problema: non sapevano a chi dovevano dare la bustarella, in dogana, e così il furgone restò lì a prendere polvere. L’Argentina era nel caos. Il paese era a pezzi, da un punto di vista sociale ed economico, in una serie continua di sconvolgimenti politici e golpe militari.
Dopo due o tre settimane di bagordi a Buenos Aires si imbatterono in un inglese emigrato, un mezzo truffatore che, stando ai ricordi di Bragg, “sapeva con chi si doveva parlare e che mazzetta dargli”.
Wilson e Donini, assieme alla sua nuova fidanzata argentina, salirono sul furgone mentre gli altri – Bragg, la sorella di Wilson e un’altra ragazza che scalava – volarono a Rio Gallegos, da cui poi presero un passaggio da un convoglio di operai addetti ai lavori stradali che avevano lo scopo di ampliare e livellare la strada – i primi passi verso l’asfaltatura che sarebbe arrivata una trentina di anni dopo. Gli operai pensavano che Bragg, per via dei suoi lunghi capelli biondi, fosse un magnaccia e che le ragazze fossero le sue prostitute. Per evitare le loro offerte di denaro, si inventarono la storia che una donna era la moglie di Bragg e l’altra sua sorella.
Quando finalmente si ricongiunsero con Donini e il suo furgone, dovettero fare la spola per trasportare l’attrezzatura e le persone. Ai tempi la strada non era ancora stata livellata e Bragg ricorda di aver dovuto aspettare un paio di giorni presso il cantiere stradale. Il tempo era bello, e gli operai avevano improvvisato un campo da calcio. Lui non sapeva giocare, e così era relegato al ruolo di spettatore-portiere, ma si ricorda dei momenti passati sulla linea di fondo a osservare Wilson, che ai tempi era stato una stella del circuito calcistico universitario, e gli operai che correvano da tutte le parti sul campo in ghiaietto, con il Fitz Roy illuminato dal sole, a stagliarsi su un lontano orizzonte.
Il primo dicembre erano ai piedi delle montagne, dove rimasero fino alla fine di marzo. A prima vista la Torre Egger sembra considerevolmente più piccola del Cerro Torre – la sua vetta è cinquecento metri più in basso – ma lo sviluppo della parete rispetto alla base è paragonabile, ed è ugualmente impressionante. Per decenni molti dei migliori alpinisti l’hanno definita la cima più difficile dell’emisfero occidentale.
La Torre Egger e il Cerro Torre condividono, lungo l’asse nord-sud, un colle – il Colle della Conquista. Per arrivare al colle c’è un tratto rivolto a est, che Fava e Maestri sostengono di aver salito con Toni Egger nel 1959. Dal colle Egger e Maestri, secondo il resoconto di quest’ultimo, continuarono lungo la parete nord per arrivare in vetta al Cerro Torre.
Sulla Torre Egger c’era stato, un paio di anni prima, un importante tentativo da parte dei resti malconci di una spedizione a maggioranza britannica. Erano partiti due inglesi, due americani e un argentino, ma il numero si era assottigliato pervia di diverse malattie, perdita di motivazione e una morte – Rafael Juárez era scomparso poco prima cercando di salire il Cerro Adela, probabilmente vittima di una caduta in un crepaccio. Mentre il resto del gruppo cercava di allestire delle corde fisse risalendo un intaglio che rappresentava un possibile punto debole della parete, il fungo sulla cima della guglia aveva scaricato dei lastroni di ghiaccio per via del caldo.
Uno dei molti paradossi dell’alpinismo sul gruppo del Torre è che quando imperversano le tempeste si corre al riparo; una volta che il tempo migliora, il caldo allenta le precarie formazioni di ghiaccio, che scaricano blocchi enormi dalla montagna. Comunque vada, il disastro incombe, sempre dietro l’angolo. Durante quel tentativo un pezzo di ghiaccio delle dimensioni di una palla da tennis ruppe un braccio di uno degli inglesi. Il canalone che stavano risalendo era un imbuto naturale per tutto quello che cadeva, e finì per diventare un poligono di tiro dall’alto.
Il progetto di Bragg, Donini e Wilson sembrava sufficientemente sensato. Avrebbero ripercorso la linea di Egger e Maestri fino al Colle della Conquista e poi, invece di svoltare a sinistra verso il Cerro Torre, avrebbero tenuto la destra cercando di superare la parete sud della Torre Egger, sempre in ombra.
I dubbi sulla spedizione del 1959 si erano diffusi in certi ambienti, ma gli americani, al momento della partenza per la Patagonia, credevano fermamente alla versione di Maestri. “Pensavo: Gesù, di fronte a uno come Maestri non puoi che prendere per buona la sua versione”, dichiarava Donini, che pure non era un fan di alcune sue affermazioni. “Avevo già sentito storie su di lui, come quando aveva ribattezzato il Colle della Conquista per attaccare Bonatti e la sua scelta del Colle della Speranza, e aveva detto, ‘la speranza è l’arma dei deboli, c’è solo la volontà di riuscire…’. Ma insomma, che cazzo!”
Bragg e Donini erano due alpinisti di punta della loro generazione, negli USA. Wilson era il miglior atleta del gruppo, anche se non aveva una lunga esperienza di montagna. Donini aveva affinato le sue capacità su roccia nel corso degli anni a Yosemite, la destinazione per eccellenza per le big wall. La parete sud della Torre Egger gli sembrava una versione più piccola, e più alpina, delle pareti su cui si era fatto le ossa.
Ho parlato con Donini nel 2013. Ai tempi aveva settant’anni. Una mente affilatissima e straordinariamente in forma. Ho scalato con lui nel corso degli anni e non sono mai riuscito a stargli dietro. Smilzo, forte, un ex Berretto Verde dei Marines. Non rallenta mai e non si sottrae mai all’occasione di poter esprimere la propria opinione.
“A quei tempi sia io che Bragg avevamo scalato diverse big wall in Yosemite, e quindi pensavamo che la nostra tecnica di arrampicata e la nostra esperienza di grandi pareti fossero superiori alle loro [di Egger e Maestri], considerato che era il 1959. C’è una linea evidente che sale al nevaio triangolare trecento metri più in alto, molto ripida; sopra il nevaio è come se la linea rinculasse, portandoti contro un diedro. Da lì devi voltarti indietro, e poi fare un traverso di circa centotrenta metri fino al colle. A guardarlo da sotto, il traverso sembra davvero duro: una sezione priva di appigli. Noi pensavamo, cavolo, quella sarà la parte difficile. Ma poi ci dicevamo, beh, quei due lo hanno scalato nel ’59, noi abbiamo salito la Salathé e il Nose, non possiamo non riuscirci”.
Appena il vento lo consentiva, trasportavano attrezzature e provviste dal campo base nella foresta fino a un campo avanzato, una truna scavata sotto la parete, e poi all’attacco della via. In una serie di diversi allunghi distribuiti nel corso di qualche settimana, si spostavano lentamente verso l’alto, posizionando corde fisse lungo l’evidente diedro che portava al pronunciato, per quanto piccolo, nevaio triangolare.
“È stato come un viaggio nella storia”, racconta Donini. Alcuni resti della scalata del 1959 pendevano sulle pareti del diedro inferiore. Vecchie corde fisse, ormai marce, che esplodevano ad appendercisi. C’erano ancora vecchi cunei di legno, ma piazzarono anche i loro, assieme a nuove corde fisse, ritirandosi quando le condizioni lo richiedevano. La difficoltà era sostenuta, come aveva descritto Maestri. In effetti, questa sezione aveva messo a dura prova gli alpinisti del 1959: subito dopo il quarto e ultimo di giorno di posizionamento di corde fisse, Maestri si era ammalato per diversi giorni.
Per il mese e mezzo successivo le montagne furono spazzate da un tempo atroce, che lasciò brevi schiarite per la scalata, ma un sacco di tempo per riflettere con stupore sui reperti del 1959. Erano i primi alpinisti a ripercorrere quelle rocce dai tempi della storica salita di Egger e Maestri. Inoltre avevano un sacco di tempo per chiacchierare, giocare a carte, leggere, e momenti di quiete e riposo nella foresta. “A quei tempi portavano le pecore a pascolare da quelle parti, su, tra gli alberi. Ogni tanto una di quelle pecore spariva e… beh… mangiavamo piuttosto bene”, ricorda Donini con un sorriso furbo.
Le nuvole, il vento e la pioggia si susseguivano in una nebbiolina indistinta mentre le settimane si dilatavano, e così passarono dicembre e gennaio. Finalmente il cielo si schiarì, per rivelare di nuovo le guglie ricoperte di ghiaccio e brina. Si precipitarono verso la parete. Le corde fisse che andavano dall’attacco della via alla loro truna erano gli unici elementi in grado di segnalarne la posizione. La truna era sepolta sotto nove metri di neve. Dopo due giorni di scavo recuperarono l’attrezzatura e ricominciarono la scalata. Le condizioni della roccia, ricoperta di ghiaccio, rallentavano la progressione. Il tepore del sole faceva distaccare lastre ghiacciate e slavine che precipitavano dalle pareti, echeggiando per tutto il circo.
Guadagnarono quota, e quando stavano per raggiungere la fine del diedro inferiore – circa trecento metri di via – trovarono, in un angolo relativamente riparato, un deposito di materiale lasciato da Egger, Fava e Maestri. In quel momento non pensarono che ci fosse alcun motivo per studiarne il contenuto. Altri alpinisti, passati di lì in seguito, riferirono di aver trovato due mezze corde di nylon avvolte a dovere, un po’ di grossi cunei di legno e chiodi a lama di acciaio, uno zaino. L’arrivo di un’altra tempesta li respinse indietro al campo base. Ancora una volta passarono giorni, e poi settimane, di continuo vento sulle guglie.
Finalmente, verso metà febbraio, ci fu un’altra schiarita. Ripresero a salire, raggiungendo un punto ancora più in alto. Al Colle della Conquista si ripararono stringendosi dietro un’improvvisata parete di neve, pensando di essere la seconda cordata a poter vedere il mondo da quella prospettiva particolare. Ma più in basso avevano notato qualcosa di strano, che li aveva lasciati perplessi.
Giunto il mattino, salirono posizionando corde fisse sulla nuda e ombreggiata parete sud della Torre Egger, applicando ogni tecnica immaginabile: arrampicata libera, artificiale, passaggi su granito liscio, pendoli, progressione su piccole fessure strapiombanti, tiri da primi da tre ore. Riuscirono a raggiungere la parte superiore della parete agganciando praticamente al volo una protezione. Le nuvole iniziavano ad aggirarsi tra le guglie, ricoprendoli di condensa, ma il vento non si levava. La roccia lasciava il passo a tratti di ghiaccio sempre più spessi, e i cirri solcavano il cielo. L’oscurità avvolgeva il labirinto tondeggiante e intricato dei funghi sommitali. Di nuovo giù al colle.
Gocciolò a intermittenza per tutta la notte. Si accucciarono di nuovo sotto il riparo improvvisato per passare un’altra giornata lì mentre le corde si ricoprivano di brina, come vermi congelati. Cadde di nuovo la notte, ma il vento restava calmo. Alle prime luci di nuovo su. Risalirono le corde fisse per proseguire a zig zag tra i funghi, cogliendo scorci in cui le guglie sormontate di neve sembravano galleggiare tra le nuvole, come apparizioni. La mattina del 22 febbraio 1976 raggiunsero la cima. Festeggiarono, chiacchierarono, scattarono delle foto e lasciarono in vetta il moschettone che Donini aveva preso dai resti di Egger.
Avevano realizzato un’impresa straordinaria. Nel corso dei decenni una montagna può essere percorsa da molte linee, ma c’è sempre e solo una prima salita. Ed erano stati la prima cordata a ripetere la famosa linea Egger-Maestri che portava al Colle della Conquista.
Quel che trovarono, e ancor più quel che non trovarono, rappresenta uno degli elementi più significativi nella verifica della salita dichiarata da Cesare Maestri e fedelmente sostenuta da Cesarino Fava.
Le cose si erano fatte confuse già dopo i primi trecento metri, appena metà della distanza per raggiungere il Colle della Conquista.
“Fin da subito [appena cominciata la scalata] iniziammo a vedere attrezzatura di ogni genere. Eravamo giovani, e a quei tempi la maggior parte dei climber leggeva tutto sulla storia dell’alpinismo. Avevo letto Gervasutti, Bonatti, Hermann Buhl, Lionel Terray e tutti gli europei, e per noi erano dei superuomini. ‘Oddio’, pensavamo: stavamo scalando nella storia. E trovavamo qua un pezzo di corda che pendeva, là un cuneo di legno e dei vecchi chiodi, eccetera”, mi dice Donini. Nella parte inferiore del diedro – i primi trecento metri fino al deposito di materiale, appena sotto il nevaio triangolare – c’era materiale ovunque. Cinquanta, cento pezzi, avevano perso il conto.
Lungo l’ultimo tiro fino al deposito, notarono che il tratto finale sulla vecchia corda fissa era molto particolare. Per l’intera lunghezza il materiale era raggruppato incredibilmente vicino, a distanza di mezzo metro. E la corda presentava dei nodi barcaioli, circa ogni due pezzi di materiale. Nessuno è riuscito a spiegarlo, allora, e nemmeno oggi. Non ha nessun senso. Ed era l’unico tiro attrezzato in quel modo.
Lungo la parte finale della corda fissa del 1959, venti metri sotto il deposito materiale, c’è un blocco di roccia che sporge nettamente dalla parete. A poca distanza, un paio di cordini sottili di nylon sono ancorati alla parete. Le mezze corde risalivano fino al blocco da un lato, per poi scendere dall’altro. Cinque-sei metri sotto, le estremità erano strappate e tranciate. Proprio come i frammenti trovati tra i resti di Egger. Le corde sembrano identiche. “Allora non ne ero sicuro”, aggiunge Donini “e non ne sono sicuro nemmeno oggi – ma quelle corde erano lì, a penzolare”.
II terreno oltre le ultime tracce del passaggio della cordata del 1959 era esattamente l’opposto di quello che sembra da sotto, completamente diverso dalle descrizioni di Maestri. Gli americani non avevano nemmeno finito la loro ascensione, e già le prove erano indiscutibili. “In quel momento capii che non solo Maestri non aveva salito il Cerro Torre nel 1959, ma che non era arrivato neppure al Colle della Conquista. Penso che il punto più alto che abbia raggiunto sia stato lo stramaledetto deposito di materiale”, riflette Donini, ancora incredulo. “Appena trecento metri di scalata”.
Al di sopra di quel punto tutto cambiava di colpo, come quando si preme un interruttore.
“Avevamo letto le relazioni di Maestri, che diceva che la prima parte era difficile e verticale. Poi aggiungeva che la parte da lì fino al diedro, prima di fare il traverso sul colle, era facile, con pendenza moderata. Infine diceva che il traverso era molto difficile. Ora, questo è esattamente come ti sembra se guardi dal basso”.
Poi, accaddero due cose: “Anzitutto, oltre quel deposito di materiali – e ci siamo passati diverse volte, tra le salite e le discese – non abbiamo mai trovato niente sulla parete. Non dico che sia una prova schiacciante contro di loro, anche se è piuttosto pesante. Sai come vanno le cose: sei su una via, c’è la linea che stai seguendo per salire, poi ci sono le linee di calata, e ti imbatti sempre nel materiale che lasciano gli altri. Al di sotto di quel punto, inoltre, avevamo trovato tra i cinquanta e i cento pezzi. Ma sopra, niente. Zero assoluto, nemmeno una sosta per una calata. Ci guardavamo attorno con grande attenzione, in cerca di tracce, almeno delle calate, ma niente. Tutto questo non ha senso, mi dicevo”.
Mentre salivano oltre le ultime tracce della presunta ascensione del 1959, i loro dubbi montavano. “E poi, la relazione della via si è dimostrata diversa da quello che vedevamo. La sezione dopo il deposito materiali, verso il traverso, era più dura di quel che sembrava. Complessivamente la pendenza era limitata, ma qua e là c’erano piccole placche da superare. C’era da fare della vera arrampicata. Ma poi tutto di un colpo arrivi al diedro, giri l’angolo e c’è una cengia”.
Questa è la sezione che da sotto sembrava molto impegnativa, il punto in cui Maestri aveva indicato le maggiori difficoltà.
“Da sotto non si poteva scorgere, pervia dell’angolazione. Quella cengia si può vedere soltanto quando ci arrivi e giri quell’angolo: te la trovi a tre metri. Per arrivarci ci saranno un paio di movimenti di V grado, e poi sarà stato un IV grado, fino al colle. Era di gran lunga la sezione più facile dell’intera salita”.
Ragione e religione
Con il suo atteggiamento calmo e razionale Elio Orlandi, veterano della Patagonia e di innumerevoli avventure, mi dice chiaramente che non vuole passare per un difensore di Maestri. Sto iniziando a intravedere un tratto comune, una reazione di stampo tradizionalista alla storia del 1959. Si insiste che Maestri poteva averlo fatto. L’argomento fondamentale di Elio si può distillare nel presupposto che non si può provare definitivamente quel che è successo, o che non è successo – ovvero, che non si possono confutare le affermazioni di Maestri. Una montagna di prove non sembra pesare.
A tratti sembra di parlare con persone che credono in Poseidone, il dio dei mari, e Zeus, dio del cielo. Molti dei sostenitori di Maestri sono assolutamente sinceri, e persone gradevoli. Vorresti davvero molto poter essere d’accordo con loro. Ma la forza di entrambi gli argomenti – Poseidone e Zeus, Egger e Maestri – rimane essenzialmente la stessa. Non si può provare con assoluta certezza che Maestri non salì sul Cerro Torre, così come non si può provare con assoluta certezza che Poseidone e Zeus non governano sui mari e sul cielo.
C’è una differenza: se ti aspetti di venir preso sul serio, in questo mondo, non puoi giocare la carta delle divinità antiche.
“Maledizione, il livello del mare si innalza. La scienza dice che è per via del cambiamento climatico”.
“Naaah. È Poseidone che si è incazzato”.
“Scusa?”
L’emozione e la fede sono forze molto potenti: le persone credono a ogni sorta di assurda trovata. Prove o no, le persone spesso credono a quello in cui vogliono credere.
Autunno 2012: io ed Elio stavamo chiacchierando a casa di Mirella, in Italia, pochi giorni prima che lo scandalo di Lance Armstrong scoppiasse. Fino alla sua confessione, milioni di americani credevano che Lance fosse un eroe nazionale. La sua guarigione dal cancro, poi, era un ingrediente perfetto per una storia incredibilmente avvincente. Ovviamente, mentre le prove a suo carico montavano, molte delle illusioni si sgretolarono. E quando confessò, anche i veri credenti dovettero ammetterlo. Quel tizio è umano, quindi imperfetto. Ha imbrogliato. Ha mentito.
Elio Orlandi ha guidato per tre ore per incontrarmi. Tra gli alpinisti italiani è ben noto per la sua passione per la Patagonia, dove ha aperto diverse difficili vie nuove, e fatto parecchi tentativi su linee mai scalate del Cerro Torre. Ed è anche – così pensavo – uno dei più strenui difensori di Maestri. Immaginavo che avesse letto alcuni dei miei interventi legati alla controversia sulla schiodatura del 2012. Prima del nostro incontro mi aveva inviato una dichiarazione dai toni accesi, sottolineando che anche lui era intervenuto in proposito. Sembrava che le nostre opinioni non potessero essere più distanti.
Ha capelli folti, neri, mossi, ed è alto più di un metro e ottanta; le sue dita sono gonfie, per via di decenni di arrampicata. Figlio di un contadino, è nato e cresciuto ai piedi delle Dolomiti di Brenta, dove vive tuttora. La vita quotidiana, allora, includeva tutto quello che poteva essere considerato un buon allenamento per l’arrampicata: molto tempo all’aria aperta, risalendo roccette e pendii sconnessi, badando all’azienda agricola di famiglia e alle bestie, raccogliendo legna, e tutte le faccende della vita in montagna.
Elio è modesto, di poche parole. Trasmette una sensazione di calore, anche se inizialmente può sembrare guardingo. Mi chiedo se quella che nei suoi occhi sembrava tristezza potesse essere legata alla sua ultima spedizione in Patagonia.
Il primo gennaio 2010 lui e il suo amico Fabio Giacomelli stavano scendendo da un tentativo su una via estremamente difficile, in stile big wall, che risaliva il centro della parete est del Cerro Torre. Era la quarta stagione di tentativi su quella linea, ed erano arrivati a piazzare corde fisse in un punto piuttosto in alto. Stavano salendo e scendendo dalle corde, lavorando la via, e avevano con loro le ceneri di Cesarino Fava. “Per me era come un padre”, mi ha detto Elio.
Su, mentre la neve cadeva fitta per il secondo giorno di fila. Elio stava sistemando l’attrezzatura mentre Giacomelli si apprestava a scendere. Avrebbe preparato cibo e acqua in tempo per l’arrivo di Elio alla loro grotta nella neve, sul ghiacciaio. Quando Elio arrivò alla grotta era già buio, ma Giacomelli non c’era. Elio ritornò nella notte, cercandolo alla luce della frontale, finché non trovò le sue impronte nella neve. Le tracce sparivano sopra un crepaccio coperto dai detriti portati da una valanga. Elio scavò un passaggio tra i detriti e si calò nel crepaccio. Cercò per tre giorni, da solo. Alla fine, trovò il corpo del suo amico.
Elio è un artista. Scolpisce, disegna, dipinge splendide vedute di montagne, e racconta in toni romantici i suoi viaggi e le montagne. Ha pubblicato Il richiamo dei sogni (Alpine Studio, 2013), un libro sulle sue avventure in montagna, incluse quelle nella sua amata Patagonia.
Ci andò per la prima volta nel 1982. Amava l’assenza di regole, il senso di totale libertà in un ambiente pressoché incontaminato. Ci è tornato una trentina di volte, e ha una casa a El Chaltén.
In quel primo viaggio era con Ermanno Salvaterra, una leggenda vivente del Cerro Torre. Salvaterra vive non lontano da lui, in Trentino. In un raggio di quaranta chilometri vivono, o hanno vissuto, molti dei grandi: Maurizio Giarolli, Cesarino Fava, Cesare Maestri, Elio Orlandi ed Ermanno Salvaterra.
Elio e Salvaterra avevano dei progetti sul Cerro Torre. Elio voleva martellare via i chiodi di Maestri sulla Via del Compressore. Pensava che l’abuso compiuto fosse una violazione dello spirito dell’alpinismo. Ma Salvaterra, che abita a una decina di chilometri da Maestri, lo ammirava ed era amico del grande Ragno delle Dolomiti. A quei tempi, Salvaterra credeva in tutto e per tutto alla scalata di Maestri del 1959. Convinse Elio a non schiodare la Via del Compressore. Vedeva i chiodi come un pezzo di storia: quel che è fatto è fatto.
Abbiamo tutti il diritto di cambiare opinione. Crescendo, siamo obbligati a mettere in discussione le nostre convinzioni. Trent’anni dopo Elio, che un giorno era pronto a rimuovere i chiodi di sua stessa mano, avrebbe pubblicato un intervento molto duro criticando Kennedy e Kruk per aver fatto esattamente la stessa cosa.
Elio, Mirella ed io parliamo del Cerro Torre e dei chiodi. Affrontiamo un argomento molto comune: le montagne devono essere a disposizione di tutti? Come per molte altre cose, la vera domanda sembra essere: dove si può tracciare un confine? Prima che fossero rimossi, i chiodi permettevano un facile accesso alla montagna.
Pongo una domanda retorica: “Se il motivo per lasciare i chiodi sulla Via del Compressore è che tutti devono poter godere della montagna, perché non installiamo un ascensore fin sulla vetta?”
Mirella ride, e traduce. Elio ride.
“O una teleferica, una scala mobile…” aggiungo, e aspetto una risposta.
“Forse qualcuno prima o poi lo farà, alla faccia degli alpinisti”, commenta Mirella. Elio riflette e annuisce lievemente.
Nel corso degli anni Elio e Cesare Maestri sono diventati amici, anche se non è sempre stato così. Per vent’anni Elio è stato ai ferri corti con Maestri, e ancora oggi non è d’accordo con lui su certe cose. Ma una volta che lo ha conosciuto bene, ha sviluppato una vera ammirazione per lui.
Dopo aver mangiato e, ovviamente, bevuto del vino, Mirella mi chiede: “Posso spiegare a Elio cosa mi piace di te e del tuo stile di vita?”. Gli racconta di come mi sono trovato un modo per sbarcare il lunario con un lavoro part-time nella redazione dell’American Alpine Journal per una decina di anni; che all’inizio vivevo in un tugurio che mi costava sessantacinque dollari al mese di affitto, e poi avevo fatto un salto di qualità in una baracca da sei metri quadri che chiamavamo “il pollaio” (ora ho una casetta un po’ più grande del pollaio). Ho capito che raccontava del catorcio che guidavo, del modo in cui ho cercato di dedicare la mia vita all’arrampicata; ho sentito la parola “frugale”. Quando Mirella ha finito, Elio ha fatto un applauso condito da cenni di approvazione con il capo. Entrambi avevamo centrato le nostre vite sulla montagna.
“Questo dimostra che, nonostante viviate in paesi diversi, con una storia, un’educazione, e tutto… diverso, e nonostante possiate non essere d’accordo su parecchie cose, c’è sempre qualcosa che fa sì che siate sicuramente in grado di capirvi l’un l’altro”. Abbiamo levato i calici per un brindisi.
Elio ha ribadito nettamente che non crede necessariamente a Maestri, ma si è tenuto ben lontano dallo sconfessare interamente la rivendicazione del’59. Gli chiedo del simposio che ha organizzato a Malé, il paese natale di Fava e Giarolli, nel 1999, per celebrare il quarantesimo anniversario della grande salita del Cerro Torre. In quell’occasione, Elio aveva realizzato una bel modellino della montagna. Alto due metri, con dettagli precisi, una replica davvero notevole. Quando venne chiamato sul palco per raccontare della sua salita, Maestri non fu in grado di identificare non solo la sua presunta linea, ma neppure di indicare quali elementi della montagna aveva scalato (e non si presume che fosse malato, o poco lucido, in quel momento). Elio e Giarolli erano saliti sul palco per ricordargli da dove era passato.
Elio ci ride sopra, mi racconta che Maestri spesso confondeva le vie che aveva fatto e che in generale è un pasticcione, nel riportare i dettagli. “Non vuoi dire niente”, commenta.
Mi fermo per un momento pensando a come, in effetti, tutti dimentichiamo le cose, ogni tanto. Ma sei hai realizzato la più grande scalata della storia, non pensi che dovresti essere almeno in grado di indicarla anche solo a grandi linee? Elio mi racconta che una volta, anni prima. Maestri, a casa di un amico, commentò una foto del Dru appesa alla parete: “Che bello, il Fitz Roy!”. Elio e Mirella si fanno una grande e lunga risata e ribadiscono che spesso Maestri era confuso e smemorato. “Non vuoi dire niente”, ripete Elio.
“Quindi”, incalzo, “credi alla versione del 1959?”
Prende una lunga pausa, accenna un sorriso, fa un respiro profondo, sbuffa e poi ride. “Non direi mai ‘sono sicuro che Maestri sia arrivato in cima’”, risponde. Ma, essendo stato su quelle pareti, afferma che è sicuro che avrebbero potuto davvero farla, nelle condizioni descritte ai tempi da Maestri. Era abbondantemente alla loro portata.
Osservo che Maestri sostiene di aver lasciato una settantina di chiodi sulla via – di cui sessanta al di sopra del colle. Eppure, al di sopra del nevaio triangolare non è stato ritrovato niente. Un chiodo diverse decine di metri sopra il nevaio, ma pur sempre al di sotto del colle, era stato inizialmente attribuito a Maestri, ma poi fu confermato che apparteneva a una spedizione britannica. Nei mille metri sovrastanti, le tracce di Egger e Maestri erano semplicemente zero. Buona parte della comunità alpinistica, a questo punto, considera questa storia uno dei più grandi imbrogli di tutti i tempi.
“Quei trecento metri sopra il colle non sono mai stati scalati da nessuno”, ribatte Elio. “Quindi, anzitutto, nessuno può affermare di aver ripetuto quella linea. E, secondo, ma non meno importante, nessuno può affermare che non ci siano chiodi. Questo è un fatto, non un’opinione personale”.
Sospiro, dentro di me. Non ho pensato di chiedergli “quale linea?”. Quella che Maestri ha disegnato per L’Europeo, appena rientrato, nel 1959? O quella, completamente diversa, pubblicata su La Montagne l’anno dopo? O quella descritta in un articolo del 1961? Sono profondamente diverse. E le aree su cui si sviluppano queste linee contraddittorie sono state ripercorse in decine di diversi tentativi nel corso dei decenni.
Certo, teoricamente è possibile che nessun climber abbia mai rintracciato l’intera via dichiarata da Maestri. Ma nessuna traccia del loro passaggio è mai emersa, in nessun punto al di sopra del nevaio, nonostante il traffico degli anni successivi. E le contraddizioni e le incongruenze sono talmente tante che è impossibile menzionarle tutte.
Elio prende in prestito il mio taccuino e disegna la sezione superiore della parete, indicando l’area specifica (una delle diverse indicate nel corso degli anni) che, secondo Maestri, non è mai stata ripetuta (di fatto, è stata però discesa in corda doppia). Elio indica anche i suoi numerosi tentativi, e pure quelli degli austriaci. Un amico facoltoso di Toni Egger finanziò diverse spedizioni di Tommy Bonapace e Toni Ponholzer sperando che trovassero, al di sopra del colle, delle prove della salita del 1959 – inutilmente.
Ci si aspetterebbe che le imprecisioni e le incongruenze di Maestri siano tali da minare alla base le sue affermazioni. Ma, in realtà, il continuo spostamento della presunta linea di salita ha avuto l’effetto opposto: quando qualcuno sale dalla parete nord e non trova tracce del 1959, significa solo che è salito dal lato sbagliato.
Poi Elio aggiunge che una spiegazione della mancanza di tracce al di sopra del nevaio triangolare è l’inaffidabilità dei chiodi dell’epoca. Niente a che vedere con quelli moderni. Vero. Sottolinea che questa è solo una sua opinione e non un fatto, ma suggerisce che chiodi così datati, in un ambiente così esposto agli elementi, potrebbero essere benissimo stati strappati via dalle forze che agiscono sulla montagna, come le slavine che rombano sui versanti del Cerro Torre. I chiodi potrebbero restare solo in aree riparate, come i primi trecento metri che portano al nevaio triangolare. Però, in quei primi trecento metri sono stati ritrovati un vero e proprio gran bazar di chiodi, e altro materiale, risalenti a quella salita – in un tratto che, a dire il vero, viene regolarmente spazzato dalle valanghe che si distaccano dal nevaio.
Lo stesso Elio ha realizzato diversi tiri inediti in sezioni della parete nord e nord-ovest, ma non ha mai trovato la minima traccia di Egger e Maestri. In uno di questi tentativi, assieme a Maurizio Giarolli e Odoardo Ravizza, alla fine del 1994, si sono ritirati dalla parte superiore della parete, bloccati da formazioni di neve strapiombanti e ghiaccio instabile, in un punto in cui Maestri descriveva ghiaccio con pendenze tra i cinquanta e i sessanta gradi. Ma loro la considerarono una via nuova, dandole un nome: Cristalli nel Vento. Il motivo: avevano soltanto intersecato la via Egger-Maestri del 1959.
In Trentino ogni dieci anni si tengono conferenze sul Cerro Torre e celebrazioni di Maestri, in occasione della ricorrenza.
Propongo una mia tesi. “Mi sembra che in Italia, rispetto ad altre parti del mondo, le persone siano più propense a credere alla scalata del 1959. Abbiamo tutti culture diverse, eroi diversi. È possibile che l’atteggiamento fideistico sia una parte rilevante della vostra…”.
“Intendi, per il fatto che siamo italiani? Una sorta di sentimento nazionale?” chiede Mirella.
“Non solo quello. Ma siccome Maestri in Italia è un eroe, la gente vuole credere più profondamente. Il credo, la fede, giocano un ruolo molto più forte”.
Traduce per Elio, che risponde con una risata cordiale e poi commenta: “Penso che non sia una questione di identità e appartenenza nazionali. Personalmente: Maestri non è mai stato un mio eroe, ma siamo amici. Non voglio essere considerato un difensore di Maestri, perché sono sempre stato contrario a un certo suo modo di fare le cose. Ma sono aspetti completamente separati. Penso che lui possa aver davvero scalato la via del ’59, per le ragioni che ti ho detto, ma non per motivi sentimentali, o di amicizia, o di identità nazionale”.
“Vorrei aggiungere”, conclude Mirella “che non è vero che qui tutti stanno dalla parte di Maestri. Ha un incredibile numero di nemici, per via dei suoi modi. Ha una personalità troppo straripante, ed è una cosa che a molta gente non piace – a noi non piace. Sappilo, non tutti gli italiani stanno dalla sua parte”.
Una dura, fredda verità
A volte le persone realizzano imprese al di sopra delle loro stesse aspettative, al di sopra di loro stessi, mandando in frantumi quello che è il sentire comune su ciò che è il confine del “possibile”. Siamo attratti dall’idea che in una giornata ideale, con le condizioni ideali, possa succedere qualcosa di magico. Siamo attratti da storie di record che vengono infranti, dalle “prestazioni della vita”.
Toni Egger era considerato un grande ghiacciatore e alpinista – alcuni dicono il migliore della sua epoca. Fava e Maestri insistevano sul fatto che la parete nord del Cerro Torre fosse ricoperta da un manto di ghiaccio.
Nessuno ha mai ritrovato le stesse condizioni, ma in effetti, per sua stessa natura, il ghiaccio è effimero. Maestri, in alcune delle sue contraddittorie dichiarazioni, sostiene che lo strato di ghiaccio era più simile a una crosta di neve indurita. In questo caso, per via dell’angolo quasi verticale della parete e in caso di assenza di accumuli di neve più fresca e ghiaccio friabile, poteva essere sufficientemente stabile da permettere di salirci come se fosse ghiaccio. A tratti quella parete sembra ricoperta di bianco, almeno in parte, ma è di solito uno strato di brina che aderisce a malapena, tremendamente inadatto alla scalata. Si sfalda solo a toccarlo e non è spesso o solido a sufficienza per la progressione. E, nel giro di un giorno o due, è evaporato.
Tuttavia, anche alpinisti molto esperti dicono: “Sì, probabilmente non sono saliti. Ma SE si fosse davvero formato QUEL tipo di ghiaccio…”.
Dopo tutto, ad appena una trentina di metri, superato il Colle della Conquista, si ritrova una situazione pressoché speculare. Lo spigolo ovest della parete sud della Torre Egger è più basso, e qualche grado più ripido della nord del Torre, ma sostiene una linea davvero minacciosa di ghiaccio che va dal verticale allo strapiombante. Quel ghiaccio è visibile anche nelle foto storiche, anche se quell’incredibile linea è stata salita solo nel dicembre 2011, con la via Venos Azules, che è di gran lunga la più difficile via di ghiaccio della catena.
Colin Haley, un alpinista americano, conosce la zona e le condizioni molto bene. Ha esplorato il massiccio del Chaltén per la prima volta a diciannove anni e ci è tornato oltre dieci volte. In circa metà di queste occasioni ha trascorso l’intera estate australe a El Chaltén. È stato due volte al Colle della Conquista e ha familiarità con il terreno.
“È da una trentina d’anni che la gente scatta foto della parete nord del Torre. Ed è chiaro che non c’è mai stato del ghiaccio azzurro (1) lassù, come invece accade su Venas Azules. C’è solo ghiaccio brinato, friabile. Probabilmente questo è dovuto al fatto che la parete è esposta a nord e non a sud. In ogni caso, anche se la nord del Torre nel ’59 fosse stata in condizioni, e ci fosse stato del ghiaccio buono come quello di Venos Azules, non avrebbe fatto nessuna differenza. Lassù avrebbero dovuto salire difficoltà che si avvicinano all’AI 6 (2) [vicino al limite estremo della scala di difficoltà su ghiaccio] e nel 1959 non avrebbero avuto la minima chance”.
E perché no? Non è forse tutto possibile, quando si tratta delle performance umane? Soprattutto quando c’è di mezzo un alpinista come Toni Egger, così avanti rispetto ai tempi? E se quello strato di ghiaccio si fosse davvero formato?
L’arrampicata su ghiaccio dipende dall’attrezzatura, molto più di quella su roccia. Le protezioni per la roccia si sono chiaramente evolute nel tempo, ma i gesti e le tecniche restano all’incirca gli stessi. Le dita delle mani e dei piedi (ovviamente, con il tramite delle scarpette, anch’esse in evoluzione] sono l’interfaccia con la roccia. In teoria, scalare su roccia completamente nudi non dovrebbe dare troppo fastidio a un climber di buon livello, purché non cada. Provate a fare lo stesso su ghiaccio e non vi muoverete di un centimetro. Le dita nude, e perfino le scarpette, o gli scarponi, sono completamente inutili. Senza ramponi e attrezzi da ghiaccio non si va da nessuna parte. E l’attrezzatura è cambiata radicalmente nel corso degli anni.
Un capitolo di Ben Nevis: Britain’s highest mountain, storia di una delle culle dell’arrampicata su ghiaccio, scritto da Ken Crocket e Simon Richardson, è intitolato “Rivoluzioni”. Il preludio è questo: “Fino al 1970, lo stile di scalata delle vie in invernale era essenzialmente lo stesso dell’inizio del [ventesimo] secolo. Si utilizzava una sola piccozza di legno, ingombrante, che veniva maneggiata a fatica dal primo di cordata, che intagliava una serie di appoggi per i piedi e appigli per le mani”.
Prima della cosiddetta rivoluzione dell’arrampicata su ghiaccio, attorno al 1970, la maggior parte delle montagne delle catene più importanti veniva ancora salita in uno stile necessariamente lento. Si seguivano i pendii nevosi meno scoscesi, aggirando le pareti di ghiaccio più ripide. Arrampicare in libera, ovviamente con gli attrezzi, il ghiaccio verticale era poco più di una fantasia e raramente, se non mai, si affrontava quello che in termini moderni è considerato un tratto sostenuto di ghiaccio verticale. Quello che di solito veniva definito “ghiaccio” era per lo più neve indurita e stabile già parzialmente trasformata, ovvero névé (3), in cui si potevano intagliare appoggi e appigli. Si tendeva a evitare i versanti ricoperti di ghiaccio troppo duro, considerati generalmente privi di condizioni ottimali. Se era inevitabile affrontare tratti più lunghi di ghiaccio ripido si utilizzavano tecniche di artificiale, corde fisse, cordate numerose. Per un motivo fondamentale: i moderni attrezzi da ghiaccio non erano ancora stati inventati.
Anche la definizione di “ripido” è cambiata nel tempo. Nelle due edizioni di Ghiaccio, Neve, Roccia, di Gaston Rébuffat [rispettivamente 1959 e 1970], l’autore definiva “pendii ripidi” quelli tra i quaranta e cinquanta gradi; “molto ripidi” quelli al di sopra dei cinquanta. Rébuffat, famosa guida alpina francese e apprezzato autore, era un esperto in materia. Aveva partecipato alla spedizione francese che aveva realizzato la prima salita dell’Annapurna nel 1950 (ai tempi, la vetta più alta mai raggiunta) ed era stato il primo a salire tutte e sei le grandi pareti nord delle Alpi (4).
Note
(1). Il ghiaccio azzurro [o blu), dall’inglese blue ice, si forma soprattutto per compressione della neve caduta, a opera di altri accumuli di neve o di un ghiacciaio. Nel processo, in cui entrano in gioco sia fenomeni di sinterizzazione che di ricristallizzazione, le bolle d’aria vengono espulse dalla massa; i cristalli si ingrandiscono e il materiale diventa molto più compatto del ghiaccio non trasformato, NdT.
(2). Una delle scale di difficoltà dell’arrampicata su ghiaccio distingue tra Water Ice, ghiaccio derivante per lo più dal congelamento dell’acqua (per esempio, cascate) e Alpine Ice, ghiaccio derivante da trasformazione di neve. I gradi si indicano rispettivamente con Wl e Al seguiti da un numero; la scala è aperta, con difficoltà massima attualmente fino all’AI/WI 7, NdT.
(3). Con il termine si intende una neve relativamente giovane, di tipo granulare, che è stata parzialmente fusa, ricongelata e compattata, ma tuttavia precede ancora la condizione di ghiaccio vero e proprio. Se si conserva fino alla stagione invernale successiva si trasforma firn, neve più vecchia e più densa, ancora più trasformata e coesa; dal firn si passa infine al ghiaccio, NdT.
(4). Le pareti sono, in ordine alfabetico: Cervino, Cima Grande di Lavaredo, Eiger, Grandes Jorasses, Petit Dru, Pizzo Badile. Rébuffat le salì tra il 1945 (Grandes Jorasses) e il 1952 (Eiger), NdT.
Su pendii superiori ai sessantacinque gradi i ghiacciatori della vecchia scuola procedevano in artificiale, caricando il peso sui loro chiodi da ghiaccio inaffidabili, simili ai picchetti da tenda; su pendenze ancora maggiori talvolta utilizzavano scalette portatili. I più audaci e talentuosi a volte effettuavano dei ristabilimenti tenendo con una mano un chiodo o una piccola e rozza lama, e poi progredivano maneggiando la lunga piccozza. Rébuffat descrive così la tecnica: “Lama da ghiaccio (chiodo a lama a sezione a U, con appiglio per la mano): si tratta di un punteruolo o di una picca da mano, che viene tenuta nella mano libera (quella non occupata dalla piccozza) e che aiuta a tenersi in equilibrio quando si utilizzano i denti frontali dei ramponi per procedere su terreno molto ripido”.
Si resta di stucco pensando all’abilità dei ghiacciatori del periodo precedente allo sviluppo degli attrezzi moderni. Dovevano padroneggiare precisione, equilibrio e indubbiamente avere una grande tenacia. Salite più lunghe e sostenute, che oggi si potrebbero superare con facilità, richiedevano il ricorso a corde fisse e a molti scomodi bivacchi. Tom Dauer, autore tedesco, ha intervistato molti alpinisti del suo periodo per il suo libro sul Cerro Torre. Mi ha detto, con un po’ di ironia: “Bivaccare faceva parte del gioco e quei ragazzi dovevano essere abbastanza resistenti – o stupidi – da starsene ad aspettare che le tempeste si calmassero, anche per diverse notti”.
Nel 2013 a Kendal, in Inghilterra, ho parlato con alcuni alpinisti della vecchia scuola tra cui il grande Dennis Gray. Stavamo chiacchierando del Cerro Torre e della prima versione fornita da Maestri. “Correggimi se sbaglio” – ho detto – “ma ai tempi nessuno scalava ghiaccio verticale”.
“Ti correggo, allora!” ha esclamato Dennis. “Zero Gully, sul Ben Nevis”. Ero stato da quelle parti, e avevo sentito parlare di quella via.
“Dennis,” – ho risposto, un po’ intimidito – “sono abbastanza certo che quella via non è niente rispetto al tratto verticale e sostenuto che si formerebbe sulla parete nord del Torre. A quei tempi superare qualche breve tratto era un conto, il Cerro Torre ben altra cosa”.
Ha riflettuto per un momento e poi esclamato “Hai ragione!” e senza perdere un colpo, ha continuato: “Maestri era stramaledettamente bravo e inoltre… era anche un ottimo cantante. Lirica”. E poi si è lanciato in una divertente imitazione operistica.
Il punto è questo: delle brevi sezioni di ghiaccio ripido erano state sicuramente scalate anche prima degli attrezzi moderni. Con un paio di passi di artificiale o altre tecniche creative si potevano superare brevi tratti senza perdere troppo tempo. Rébuffat nel suo libro descrive come montare in piedi sulle spalle del proprio compagno di cordata – dopo essersi tolti i ramponi, si spera.
Tuttavia, già prima dell’avvento dell’attrezzatura moderna erano state salite diverse vie di ghiaccio molto ripide. Esaminiamo i dettagli.
Il Couloir Lagarde, sulla parete nord-est de Les Droites, sul massiccio del Bianco, si sviluppa per quasi mille metri. È stato scalato per la prima volta nel 1930 in un’unica tirata, senza soste, di dodici ore. Ha due tiri di ghiaccio di circa settantacinque gradi, e tutti i diciassette tentativi precedenti erano falliti. Ma la prima salita avvenne all’inizio di luglio. I tratti di ghiaccio, ormai pressoché sciolto, vennero aggirati scalando la roccia ai fianchi del canalone. Il resto del couloir era per lo più neve. Oggi, con gli attrezzi moderni, si supera direttamente il tratto a settantacinque gradi.
Nel 1956 Kurt Diemberger aprì una nuova via sulla parete nord del Gran Zebrù, al confine tra Italia e Svizzera. Per arrivare in cima dovette superare uno strapiombo notevole, ma la cornice strapiombante, che negli anni successivi si sarebbe sciolta, includeva un tiro di artificiale su chiodi da ghiaccio e scalette. Il resto della parete è tra i cinquanta e i sessanta gradi.
Nel 1965, gli argentini Carlos Comesaña e José-Luis Fonrouge realizzarono la seconda ascensione del Fitz Roy aprendo una nuova via, la Supercanaleta, in stile alpino, con un’audace sortita durata appena tre giorni contando anche il ritorno. Fu un’impresa notevole. La via è per lo più di misto, e tecnicamente è probabilmente la più facile del Fitz Roy. Si sviluppa per milleseicento metri abbondanti, include sezioni di arrampicata fino al VI grado e ghiaccio fino a ottanta gradi. Ma la maggior parte del ghiaccio è a meno di sessanta gradi, e i pochi tratti quasi verticali sono molto brevi, al massimo tre metri o poco più.
Esempi innumerevoli rendono merito all’abilità e all’ingegnosità degli alpinisti della vecchia scuola. Ma non scalavano di certo ghiaccio verticale e sostenuto. Nessuno, e soprattutto non a quella velocità. Gli attrezzi, semplicemente, non lo permettevano.
“Quello che facevamo ai tempi” ha spiegato Gottfried Mayr a Tom Dauer nel 2003 “non ha niente a che vedere con la moderna arrampicata su ghiaccio. Il ghiaccio verticale era impossibile”.
Toni Egger e Mayr erano buoni amici e compagni di cordata. Salirono insieme diverse vie impressionanti sulle Alpi, inclusa la Cassin sulla Cima Ovest di Lavaredo nel 1952 e un collegamento in giornata delle pareti nord della Cima Ovest e della Cima Grande di Lavaredo nel 1954.
Per il suo libro Dauer ha parlato molto con Mayr e alcuni dei vecchi compagni di cordata di Egger, e studiato gli attrezzi che usavano in quel periodo. Tutti loro utilizzavano attrezzi standard. La piccozza ritrovata tra i resti di Egger infatti aveva un lungo manico dritto in legno, con la becca anch’essa diritta. Assieme al corpo venne trovato un martello da chiodi, ma nessun altro attrezzo specifico per il ghiaccio. È sempre possibile che ne usasse di un altro tipo, visto che a volte gli alpinisti facevano esperimenti con attrezzi più corti. Ho chiesto a Dauer la sua opinione, visti i suoi incontri con i compagni di Egger e la sua conoscenza specifica della storia degli attrezzi. “È una questione ancora discussa, ma credo che Egger salisse con una piccozza dal manico lungo in un una mano, e quello che veniva chiamato ‘Stichel’ nell’altra. Si trattava di una corta asta di legno, dritta, con un’impugnatura sferica, lunga forse quindici centimetri, simile a un punteruolo, che gli alpinisti utilizzavano piantandola nel ghiaccio”.
Yvon Chouinard descrive un suo tentativo verso la fine del 1965 su un couloir alpino ricoperto da ghiaccio duro come l’acciaio, di pendenza superiore ai sessanta gradi. Stava usando una tecnica che, per quei tempi, era standard. Piantava la piccozza sopra la testa per guadagnare altezza, impugnava con l’altra mano una variante della lama da ghiaccio descritta da Rébuffat, che gli serviva per bilanciarsi, e ravanava con i ramponi per portarsi più su. Sentiva le gambe stanche, e i crampi, per via dello sforzo dovuto agli scarponi flessibili e ai ramponi dell’epoca. “Quello che mi spingeva ad andare avanti”, ha scritto, “era pensare che, appena rientrato, mi sarei precipitato in officina e avrei forgiato una piccozza con una becca lunga e sottile, con denti, per la progressione su ghiaccio. Ne avevo abbastanza di quella stramaledetta lama”.
Nell’estate del 1966 Chouinard sperimentò sui ghiacciai delle Alpi qualsiasi tipo di piccozza che gli capitasse tra le mani. Poco dopo, convinse una ditta produttrice di attrezzature da alpinismo di Chamonix a fargliene una di cinquantacinque centimetri, molto più corta della norma, e per questo più facile da slanciare al di sopra della testa, con una becca ricurva.
L’idea era che la curvatura della becca si armonizzasse all’arco naturale descritto dallo slancio del braccio dell’alpinista. Questa forma, oltre ai denti molto pronunciati della becca, avrebbe evitato che saltasse fuori dal ghiaccio appena ci si alzava trazionando sul manico, come facevano inevitabilmente le piccozze a becca dritta. Quell’idea funzionò, e gli altri alpinisti seguirono a ruota.
All’incirca allo stesso periodo, gli alpinisti scozzesi stavano sperimentando migliorie simili. Hamish Mclnnes inventò il Terrordactyl, di simile concezione, una piccozza dal manico corto con una becca che punta decisamente verso il basso. Entrambi gli attrezzi iniziarono a diffondersi, ed ebbero un grosso impatto.
L’effetto sulle prestazioni non si fece attendere. “Un alpinista può sostenere tutto il suo peso sulla piccozza, che non fuoriesce dal ghiaccio”, scrisse Chouinard in Climbing ice (Sierra Club Books, 1978; edizione italiana Scalare su ghiaccio, Zanichelli, 1978). “Questo significa che, con uno di questi attrezzi in ogni mano, l’alpinista può salire su ghiaccio verticale o anche strapiombante senza dover intagliare gradini o senza ricorrere all’artificiale”. Questa tecnica, piuttosto faticosa, venne sperimentata per la prima volta nell’inverno del 1967 in California; poco dopo, i francesi la ribattezzarono piolet traction.
Era come passare tutto di un colpo dal carrozzone dei pionieri del Far West all’automobile. Il ghiaccio non veniva più evitato deliberatamente, e gli alpinisti non dovevano rallentare in maniera straziante di fronte a sezioni di ghiaccio ripido. Con una di quelle piccozze più corte, ricurve, in ogni mano – quasi fossero estensioni delle braccia – gli alpinisti potevano sviluppare un potenziale del tutto inedito. Il livello salì vertiginosamente, con i nordamericani, gli scozzesi e i francesi a fare da apripista.
Tuttavia, a quell’epoca le innovazioni si diffondevano lentamente su scala globale. In buona parte dell’Italia, per esempio, i nuovi attrezzi da ghiaccio e le nuove tecniche non arrivarono se non diversi anni dopo. Quando nel 1974 i Ragni di Lecco salirono sul Cerro Torre, con un tentativo lungo un mese, piazzando trentasette corde fisse lungo la via, non erano molto aggiornati sulle tecniche moderne.
Nonostante fossero degli alpinisti molto forti, su ghiaccio si affidavano per lo più a una sola piccozza a manico lungo, come mi ha raccontato Mario Conti in un’intervista del 2012. Le duecentocinquanta foto di quella spedizione che ho studiato confermano la poca familiarità della spedizione con i nuovi attrezzi e le nuove tecniche. Conti ricorda che la piccozza corta e ricurva di Chouinard era appena arrivata in Italia. Anche se l’avevano provata, non erano molto pratici, e avevano salito buona parte dei tratti ghiacciati ricorrendo alle vecchie tecniche. Il primo di cordata procedeva con la piccozza lunga; di tanto in tanto ricorreva a una piccozza più corta per tenere l’equilibrio e riposizionare l’altra, superando in artificiale, con l’ausilio dei chiodi, i tratti che si avvicinavano alla verticale. Conti salì da primo su alcuni tiri di ghiaccio ripido, nel diedro e sulla parete sommitale, con difficoltà di quinto grado. “Naturalmente li ho saliti in artificiale!”
I vecchi attrezzi e le tecniche di un tempo rendevano necessaria un’attenta pianificazione della tattica della spedizione. “Pensavamo di non aver abbastanza materiale per salire in una cordata da due”, mi ha spiegato Conti, ricordando quel momento. “Allora l’idea dello stile alpino, su una via del genere, era impossibile. Poi è arrivata la piolet traction, e tutto è cambiato”.
Infatti nel frattempo, nel 1973 in New Hampshire, un giovane alpinista di nome John Bragg – lo stesso che avrebbe realizzato la prima salita della Torre Egger nel 1976, assieme a Jim Donini e Jay Wilson – stava tirando da primo tutte le lunghezze di Repentance, WI 5, una via di ghiaccio verticale, per realizzarne la prima salita.
Durante la sua prima stagione su ghiaccio, nell’inverno del 1970-71, Bragg aveva passato buona parte del tempo a intagliare gradini con una piccozza da settanta centimetri. Poi erano arrivati i nuovi attrezzi: i ramponi rigidi Chouinard, due piccozze da cinquantacinque centimetri, sempre Chouinard, e un terzo attrezzo per poter fare leva per girare le viti da ghiaccio.
Il compagno di Bragg, il veterano Rick Wilcox, ricorda di aver pensato appena dopo il primo tiro di Repentance: “Stiamo entrando in una nuova dimensione. Stiamo salendo un tiro dopo l’altro di ghiaccio verticale, non avrei mai creduto che potesse succedere”.
Bragg tornò in Patagonia nel gennaio del 1977, assieme a Daver Carman e Jay Wilson, con l’intenzione di salire la parete ovest del Cerro Torre, sulla Via dei Ragni. Erano ormai cinque anni che si allenavano sulle pareti di casa con le moderne tecniche di ghiaccio, che alla spedizione italiana del 1974 erano sconosciute.
Ho parlato con Bragg nel 2013, e gli ho chiesto perché non avevano voluto salire lungo la Via del Compressore. Non ha esitato. “Perché pensavo che fosse un abominio. Inoltre, eravamo già stati su quel versante [la parete est del gruppo Torre], per cui le nostre ragioni non erano solo di carattere morale. Eravamo in cerca di avventura, e la parete ovest rappresentava l’ignoto”. Tutto quello che sapevano era che i Ragni l’avevano salita nel 1974.
In confronto ai suoi viaggi patagonici precedenti, le cose per Bragg filarono lisce. Volarono in Argentina dagli Stati Uniti, rimediarono diversi passaggi e vennero lasciati alla fine della strada. Da lì avrebbero risalito la valle del Rio Túnel e superato il Paso del Viento per arrivare al campo di ghiaccio. Mentre Carman e Wilson riorganizzavano il materiale, Bragg andò avanti fino all’unica estancia. La famiglia lo invitò in casa per un mote, e Bragg chiese se potevano aiutarli portando il materiale con i cavalli. “Certo”, rispose l’uomo. “L’ho già fatto con Walter Bonatti e Carlo Mauri, nel 1958”. E fu così che, dopo un asado, si incamminarono verso il Paso del Viento.
Sul limitare del ghiacciaio attrezzarono una slitta improvvisata che avevano recuperato dal materiale abbandonato nel 1974. Trascinando per due giorni attrezzatura e provviste lungo la neve e il ghiaccio arrivarono ai piedi del Torre, dove allestirono il campo base. Al secondo giorno ci fu una schiarita. Bragg ormai aveva accumulato una certa esperienza: non era il caso di rinunciare a una finestra di bel tempo in Patagonia.
Iniziarono a scalare, trasportando cibo e materiale per dieci giorni. Raggiunsero la cima dell’Elmo e bivaccarono sulla sommità del fungo. Si sdraiavano sui materassini isolanti, dentro i sacchi a pelo, guardando in lontananza il campo di ghiaccio. Durante la notte, le nuvole solcavano il cielo.
Il giorno dopo si divisero: Carman restò a scavare un ricovero nella neve mentre Bragg e Wilson proseguivano la scalata, fissando quattro corde fino alla base del tratto ghiacciato sommitale. Al loro ritorno il tempo era peggiorato decisamente, e passarono due giorni rintanati nella grotta di neve. Finalmente la tempesta passò, e risalirono le corde fisse. Bragg salì da primo fino alla parte finale della sezione sommitale, dove trovarono una grotta naturale di ghiaccio, scavata dal vento tra i funghi della cresta. Era uno spazio largo quasi sei metri, con colonne di ghiaccio, piattaforme su più livelli e un pavimento di ghiaccio solido. Il vento risuonava e ululava per tutta la caverna, in visita – breve e rumorosa – durante i suoi giri attorno al mondo.
Al mattino le nuvole erano di nuovo gonfie. Diedero un’occhiata dalla grotta e decisero di provare a proseguire, fino a che non fossero stati obbligati alla ritirata. Al di sotto dei funghi di ghiaccio si stendeva un mare di nuvole. Traversarono verso destra, seguendo la linea dei Ragni, e poi trovarono un passaggio nel ghiaccio. Due tiri con una sezione a U, come uno scivolo scavato dal vento. Il ghiaccio friabile offriva ben poco alla progressione: collassava e si disintegrava mentre cercavano di risalirlo. “Ci sembrava di nuotare contro corrente, e finivamo per ribaltarci”, ricorda Bragg. Appena al di sotto della vetta, il tempo cambiò, e come per magia le nuvole si dissolsero. Raggiunsero in breve la cima, da cui riuscivano quasi a vedere l’Oceano Pacifico, il bianco e il blu del ghiaccio e dell’acqua a ovest e a sud; a nord, in lontananza, altre catene montuose; a est, le praterie brune e giallastre.
Riuscirono a scendere fino alla grotta sull’Elmo sotto un cielo terso, e festeggiarono mangiando tutto il cibo che era rimasto. Al mattino, si svegliarono sferzati dalla furia di un’altra tempesta. Accecato dalla tormenta, Bragg si calò dal lato sbagliato di un rilievo, e si trovò sospeso tra una selva di stalattiti che pendevano dal lato strapiombante di un fungo. Finì per sbattere contro la parete di ghiaccio, perdendo uno dei suoi ramponi.
Mentre lo vedeva precipitare, ripensò alle cronache dell’Annapurna, e all’errore di Maurice Herzog, dalle conseguenze pesanti (5). “Mi ricordo di aver pensato, ecco la fine della nostra avventura, moriremo tutti!” racconta oggi, ridendoci sopra. Bragg ritrovò il sangue freddo e risalì le corde a forza di prusik. Riuscirono a orientarsi fino a trovare il lato giusto e seguendo d’intuito le tracce rimanenti della loro linea di salita rientrarono al campo base sul ghiacciaio, nonostante Bragg avesse un solo rampone.
Erano rimasti in parete per meno di una settimana, inclusi i giorni di maltempo. Nemmeno tre anni prima la spedizione dei Ragni era stata un assedio di un mese. Quella che era nata semplicemente come un’avventura finì per diventare un caso di studio sul Cerro Torre, e per segnare un cambiamento epocale per gli standard dell’alpinismo su ghiaccio.
Tale cambiamento, esemplificato da queste due salite, fornisce un commento eloquente alle dichiarazioni di Maestri nel 1959. Anche cercando di razionalizzare molte delle sue contraddizioni, e volendo credere fermamente alla possibilità della formazione di uno strato di ghiaccio, di quelli che accadono una volta al millennio, sulla nord del Cerro Torre, è difficile pensare che potessero salire a tutta birra centinaia di metri di ghiaccio pressoché verticale, in un periodo in cui gli attrezzi per compiere un’impresa del genere non esistevano neppure.
Nota
(5). Nel 1950 la spedizione francese guidata da Herzog raggiunse la vetta dell’Annapurna e fu la prima conquista di un Ottomila. Durante la discesa, Herzog perse i guanti e, con la mente annebbiata, si dimenticò di riparare le mani. Lui e Lachenal tornarono alla tenda stremati e con gravi congelamenti. Gaston Rébuffat e Lionel Terray, saliti al campo V, affrontarono con loro la discesa, durante la quale una valanga spazzò via le loro scarpe e i materiali. Dopo giorni, arrivarono al campo base tutti in condizioni terrificanti e il medico fu costretto a praticare delle amputazioni sul posto. Herzog perse praticamente tutte le dita delle mani e dei piedi, NdT.
2005: dopo l’Arca
Beltrami, Garibotti e Salvaterra furono nominati per il prestigioso Piolet d’Or, per la migliore salita dell’anno. Rifiutarono la nomination. Con una mossa bizzarra, il comitato respinse il rifiuto. L’avvocato di Maestri scrisse una lettera obiettando alla nomination del terzetto, diffondendola in tutta la comunità alpinistica. Secondo questa lettera, la via era una ripetizione della linea Maestri-Egger del 1959, e pertanto non aveva i requisiti per la nomination. La lettera conteneva dichiarazioni giurate di Maestri e Fava.
“Maestri dovrebbe essere convocato in tribunale per testimoniare su quello che è successo davvero a Egger, visto che c’è di mezzo la morte di una persona”, commentò Garibotti. “Non c’è traccia del suo materiale, e il terreno non ha nulla a che vedere con la sua descrizione… Una cosa è chiara: hanno salito trecento metri sul Cerro Torre e niente di più. Tutto qui”.
Tornato in Italia, dove la notizia della loro salita aveva guadagnato i titoli di apertura dei media specializzati, Salvaterra si espresse molto schiettamente su quel che avevano trovato. Non era quello che avrebbe desiderato – era cresciuto credendo alla storia del 1959, e lui e Maestri erano diventati amici. Ma, a differenza di molte persone in Trentino, alla fine aveva deciso di esaminare le prove e queste non supportavano le dichiarazioni di Maestri. Sperava che forse la realtà, sulla montagna, sarebbe stata diversa. “Se avessi trovato qualcosa, non necessariamente vicino alla vetta, ma anche appena sopra il primo nevaio, per me e per gli scettici di quell’ambiente sarebbe stato sufficiente”.
Cesarino Fava, sempre determinato nella difesa di Maestri, scrisse una mezza confessione della loro bugia, pubblicata su diverse testate. Maestri continuava a rifiutarsi di affrontare alcuni dei problemi cruciali relativi alle sue dichiarazioni. “Se dubitate di me, dubitate della storia dell’alpinismo”, ripeteva. Era la sua unica forma di difesa.
Al suo rientro, in molti diedero del bugiardo a Salvaterra. Maestri minacciò di querelarlo per diffamazione. Beltrami tornò al suo lavoro di guida nello stesso ufficio del paese natale di Maestri. “Non voglio giudicare la sua versione, o i suoi motivi. Ma credo solo in quello che ho visto: una magnifica cattedrale di pura roccia, ghiaccio e neve, a volte molto difficile da corteggiare come si deve [da salire in uno stile rispettoso], anche con la nostra attrezzatura moderna”, mi ha detto. “Penso che il Torre sia una di quelle montagne che raccontano la propria storia da sole… e personalmente sono onorato di far parte della sua storia”.
Beltrami è di un’altra generazione; o forse è soltanto più pragmatico. Quando sono andato a trovarlo, mentre parlavamo ogni tanto sfoderava un sorriso, e guardando il registratore assumeva un’espressione che sembrava dire, “Prima che risponda… stai registrando?”. Mi sono offerto più volte di spegnere il registratore, ma poi lui rideva commentando, “Nessun problema”. Era gentile, generoso – e prudente.
Qualche mese dopo la salita, a Lugano, in Svizzera, si tenne una conferenza sul Cerro Torre. Vista la mole ormai schiacciante di prove, c’è da chiedersi se non fosse tempo e fatica sprecata.
L’intervento di Fava (Maestri, come previsto, non aveva partecipato] trasudava del suo marchio di fabbrica, il suo fascino, e raccontava storie di passione, condite da entusiasmo e senso dell’umorismo. Sembrava assolutamente impassibile, nonostante fosse stato appena piantato l’ultimo chiodo sul coperchio della bara del mito del 1959.
Leo Dickinson, documentarista e giornalista inglese, scrisse un resoconto della conferenza. Dickinson aveva avvicinato Fava per dirgli, “Sono del tutto in disaccordo con quello che dici, ma penso che tu sia stato molto coraggioso nel venire qua, stasera”.
“Credi che Mallory e Irvine abbiano raggiunto la cima dell’Everest?” replicò Fava accennando al famoso – e fatale – tentativo della coppia, nel 1924 (Il fatto che non abbiano raggiunto la vetta è il sentire comune].
Dickinson sorrise e rispose, “Da inglese, non c’è niente a cui vorrei credere di più, ma stando alle prove esistenti è improbabile che abbiano superato il secondo gradino (6)”.
“Ah, Dickinson, ecco in cosa siamo differenti, lo credo che loro abbiano raggiunto la cima. Nel mio cuore ho la bella sensazione che ce l’abbiano fatta. Tu sei negativo, e quindi non ci credi”.
Dickinson poi chiese a Fava di indicare, su un modellino del Cerro Torre, la più alta posizione che aveva raggiunto personalmente. Fissò Fava negli occhi, studiando il suo volto, la sua padronanza di sé. Niente. Senza batter ciglio, con gran sicurezza, Fava indicò il Colle della Conquista. Dickinson aveva intervistato i più grandi tra i grandissimi, ascoltato storie, fatto notare le esagerazioni, evidenziato le forzature. Ma, scrisse, “Non avevo mai visto niente di simile all’imperturbabilità di Fava”.
“Se non fosse stato assolutamente ridicolo, tutto questo sarebbe stato anche divertente. Tornato in Gran Bretagna, ne ho discusso con una psicoIoga, che sostiene che la cordata del 1959 mostra i sintomi di quella che viene definita ‘dissonanza’, così come li mostrano alcuni dei loro sostenitori. Le credenze e nozioni profondamente radicate delle persone che ne soffrono portano a distorcere i dati di una realtà ambigua, in modo da farla coincidere con tali credenze. Questo spiega il mio turbamento di fronte all’impassibilità di Fava nell’indicare il Colle della Conquista, credendo al cento per cento di esserci stato. Non era più nemmeno una bugia. Era auto-condizionamento. Nella sua mente ero io, quello dalla parte del torto”.
Poco dopo la salita di Beltrami, Garibotti e Salvaterra l’autorevole giornalista francese Charles Buffet, che parla molto bene l’italiano, riuscì a strappare una rara intervista con Maestri. Si pensa che sia l’ultima intervista rilasciata a proposito della rivendicazione della salita del Torre, e non durò molto. Buffet mi ha fornito l’audio e la trascrizione originali dell’intervista. Maestri saltava di palo in frasca, sempre più a disagio di fronte alle domande di Buffet, fino a lanciarsi in attacchi personali nei confronti di Garibotti e Salvaterra. Per tutta l’intervista il suo tono era rimasto sprezzante e provocatorio.
Alcune delle sue prime parole (7): “Non voglio che mi credano. […] lo personalmente non chiedo che mi credano. […] lo mi batto per una questione di principio. Se non credono a me, se mettono in dubbio la mia salita, io metto in dubbio tutto l’alpinismo”.
Note
(6). A 8605 m. Si tratta di una sezione ripida di circa trenta metri di roccia che costituisce un serio ostacolo lungo la linea di salita che passa dalla cresta nord-est, NdT.
(7). Si riporta la trascrizione di estratti dall’audio originale dell’intervista (dicembre 2005), avvenuta in italiano, NdT.
Buffet pose molte domande, del tutto legittime. Maestri svicolava in continuazione, evitando i dettagli sulla sua presunta scalata.
Maestri: “Chi mi dice che Messner è andato in cima all’Everest? O… capisci?”.
Buffet: “Messner ha preso [scattato] una foto…”.
Maestri: “Ma non me ne frega un cazzo! Oggi sai benissimo che le fotografie si inventano. Le foto non vogliono dire niente”.
Buffet: [dopo aver accennato ai dubbi sollevati da alcuni alpinisti] “A me interessa molto questa storia del “59”.
Maestri: “Non è una storia, è un racconto. Le storie le raccontano i figli di puttana, io non sono un figlio di puttana”. […]
“Ecco, io ti posso dire una cosa: che nella mia vita, in tutta la mia vita io non ho mai raccontato una bugia. Ecco, ma questo non vuoi dire niente […] però tutti sanno che io sono un uomo sincero, leale, io non ho mai cercato di rovinare qualcuno, capisci, per andare sulle prime pagine dei giornali, lo sono andato sulle prime pagine dei giornali perché sono stato il più forte alpinista del mondo, in alpinismo solitario, capisci? Ma questo non vuoi dir niente”.
Buffet: “Come lei spiega che non si trovano chiodi sopra il Colle della Conquista?”.
Maestri: “Ascolta, sta’ bene attento. Quando abbiamo attaccato nel ’59, la parete nord… sud… scusa, nord del Torre era una colata di neve e ghiaccio. […] Noi siamo andati su, Egger era il più forte alpinista su ghiaccio del mondo, siamo andati su approfittando di questo, perché aveva fatto tre settimane di cattivo tempo, il Torre era una lastra di ghiaccio, abbiamo ripetuto la via come se fosse una parete […] ma [di tutto] questo non me ne frega un cazzo, di come è stato scritto, capisci?” […]
Maestri: “Possono inventare quello che vogliono, piton [i chiodi], non piton, a me non me ne frega niente, lo non devo insegnare, spiegare niente a nessuno, che sia chiaro. Perché io sono quello che ha fatto le imprese più grandi del mondo, da solo, ma questo non vuoi dire che io… con questo, sia andato in cima, capisci? Non so se rendo l’idea?”.
Buffet: “No, non capisco questo”.
Maestri: “lo non so come spiegarlo, je ne parle pas beaucoup français [non parlo molto il francese]”.
Buffet: “Dica in italiano, va bene in italiano, benissimo”. Maestri: Ecco, io voglio dire, se mettono in dubbio una sola salita di un solo alpinista mettiamo in dubbio tutte le salite di tutto il mondo”.
L’intervista procede all’incirca allo stesso modo e, verso la fine, Maestri ripete la sua unica, disperata difesa:
“Non me ne frega niente, mi credano o non mi credano non me ne frega; io parto dal principio, e dopo chiudo, parto dal presupposto che se metto in dubbio una salita, non la mia, una qualsiasi salita dell’alpinismo, bisogna mettere in dubbio tutto l’alpinismo”.
Questo video riprende parzialmente la chiacchierata tra Cesare Maestri e Charlie Buffet:
Una lettera da Cesare
Ero stato avvisato da tutti: Cesare Maestri non mi avrebbe incontrato. Si rifiuta di parlare del Cerro Torre. I suoi amici dicono che non lo nomina neanche, perché gli causa troppo dolore.
Penso che sia difficile conoscere davvero bene un’altra persona, se non addirittura noi stessi, ma speravo di potermi fare un’idea di prima mano. Più che a questioni specifiche sul Cerro Torre ero interessato ai suoi pensieri, alla sua filosofia, alle sue riflessioni sulla vita. Avevo studiato quell’uomo attraverso la lente dei suoi amici, dei critici, delle pubblicazioni, ma non lo avevo mai conosciuto di persona.
Mirella si era offerta di riferire a Maestri il mio desiderio, e di fare da interprete. Mi aveva detto, “Si fida di me. E non è del tutto impossibile che accetti. È una vera leggenda anche senza il Cerro Torre, per le sue salite, e discese, in solitaria: più di un migliaio, e un sacco di altre imprese incredibili”.
Lo aveva chiamato da parte mia, ma stava attraversando un momento complicato e non era di ottimo umore. “Non mi sembrava il caso di infliggergli la tortura di parlare del Cerro Torre. E non esagero, Kelly. Spero che tu riesca a incontrarlo, così potrai capire quanto questa controversia gli abbia rovinato la vita”.
Maestri non usa l’e-mail e così gli avevo inviato una lettera, riferendogli che stavo scrivendo un libro, e invitandolo a prendere un cappuccino e fare quattro chiacchiere. Lo invitavo a parlare di qualsiasi cosa della vita. Non dovevamo per forza affrontare l’argomento Cerro Torre. Mirella l’aveva tradotta e inviata a Elio Orlandi, che l’aveva consegnata a mano a Maestri.
Maestri l’aveva chiamata per spiegare che apprezzava la mia curiosità e il mio interesse e che, nonostante non mi avrebbe incontrato di persona, c’era qualcosa che voleva che leggessi.
Ricevetti la lettera quand’ero ancora ospite a casa di Mirella, che la tradusse per me. Si trattava di un nuovo capitolo, un’aggiunta al suo libro E se la vita continua [Dalai Editore, 1997] che avrebbe dovuto essere ripubblicato con un altro titolo. Una vita di emozioni. Il progetto sarebbe poi stato accantonato per la chiusura dell’attività della casa editrice. Il capitolo è breve, forse un migliaio di parole.
Apre spiegando che, nonostante non si sia mai difeso dalle accuse diffamatorie portate contro di lui dall”‘alpinista altoatesino”, cioè Reinhold Messner, intende chiarire alcuni aspetti.
Ripete quello che ha detto ormai da più di cinquant’anni, ma questa volta con alcune nuove distorsioni. O meglio, nuovi bersagli.
Dice che ha sempre provato repulsione per chi si reputa perfetto e per chi pensa di avere in mano le chiavi della verità.
Che Messner dovrebbe occuparsi dei suoi problemi, invece di attaccare le altre persone, e che non ha mai risposto alle accuse di Messner perché sarebbe stato solo un modo di fargli pubblicità a spese sue. (Buona parte del libro di Messner sul Cerro Torre, Grido di Pietra, pubblicato nel 2009, è centrato sui fatti del 1959).
Ancora più importante, sottolinea che, fin dalle sue prime esperienze in montagna, ha sempre pensato che nel momento in cui si dubita della parola di un alpinista si stia automaticamente dubitando dell’intero alpinismo, che fin dalla sua nascita è stato fondato sulla fiducia. Fa notare che parecchie ascensioni in Himalaya sono state accettate senza prove definitive.
Poi sprona Messner a rileggere l’articolo che lui (Maestri) aveva pubblicato nel 1991 su un numero della Rivista del CAI, La pagina e mezza successiva, che costituisce la maggior parte di quel nuovo capitolo, è quell’articolo, intitolato Dogmatismo e alpinismo. Inizia con una critica a Messner per il suo coinvolgimento in Grido di pietra, il film di Werner Herzog, che a Maestri non era piaciuto. In effetti non piacque pressoché a nessuno e lo stesso Herzog, in seguito, sarebbe arrivato addirittura a cercare di distanziarsi da quell’opera.
Il soggetto del film prendeva grossomodo spunto dalla vicenda del 1959, anche se non c’è somiglianza con i fatti reali o con la tragedia. Maestri scrive che il film gli aveva causato un grande dolore, per via del cinico riferimento alla tragedia che gli aveva devastato la vita.
E poi ribadisce una dichiarazione: nel gennaio del 1959 lui e Toni Egger avevano raggiunto la vetta del Cerro Torre, salendo in parte la difficile parete est, e poi, dopo il colle, la parte superiore della parete nord, più facile ma molto pericolosa. Per via delle grandi nevicate dei giorni precedenti si era coperta di neve poi trasformata in un ripido muro di ghiaccio.
Maestri aggiunge che per diversi anni nessuno ha ripetuto la sua linea del 1970 sulla parete sud-est (la Via del Compressore]: in molti ci avevano provato, ma senza riuscirci. Lungo quella via, “a ogni filata di corda che riuscivamo a superare in arrampicata tradizionale ci chiedevamo come mai gli alpinisti che ci avevano preceduti fossero stati costretti a ritirarsi”. Come per altri suoi scritti e interviste, spende molte più parole sul compressore e sui tentativi del 1970 che non sulla presunta salita del 1959.
Mette in evidenza il 1970 “non solo per onorare la devozione dei miei compagni di spedizione, ma per dichiarare ancora una volta che con quella vittoria non intendevo dimostrare che nel 1959 io e Toni avessimo raggiunto la vetta, ma solo ed esclusivamente per ribadire la mia convinzione: non esistono montagne impossibili, ma solo alpinisti che non sono in grado di salirle”.
Chiesi conferma a Mirella. Forse avevo frainteso io. “Non per dimostrare che nel 1959 lui e Toni Egger avessero raggiunto la vetta?”. Corretto. Ha semplicemente salito la cresta sud-est, con tanto di duecento chili di motore a scoppio e relativa attrezzatura appresso, dopo un assedio durato mesi che ha richiesto due spedizioni, per dimostrare che le montagne impossibili – come il Cerro Torre, lungo una via più dura della salita-lampo che lui ed Egger avevano realizzato un decennio prima – non esistono. Solo alpinisti che non sono in grado di salirle.
Poi ritorna al presente e alle realizzazioni più vicine nel tempo, alimentate da una caccia alle streghe contro di lui. Menziona articoli di giornale che parlano della stupida esibizione di due giovani alpinisti “americani” [sic] che hanno schiodato la Via del Compressore.
Infine conclude parlando di un furto stupido e ignobile, che offende e umilia la storia dell’alpinismo, confermando che il fanatismo dei massimalisti, di quelli che credono di possedere la verità assoluta, continua a rappresentare un pericolo per l’umanità, portando alle tragedie più terribili della sua storia insanguinata.
Mirella scosse la testa. “È pura retorica. Ma hai capito bene. È esattamente quel che c’è scritto”.
Solo con la verità
All’inizio del 2006, pochi mesi dopo aver realizzato la prima salita della parete nord del Torre assieme ad Alessandro Beltrami e Rolando Garibotti, Ermanno Salvaterra si mise alla scrivania e inviò una lettera a Cesare Maestri. Quarantasette anni dopo la prima rivendicazione di Maestri.
Salvaterra è nato e cresciuto pochi chilometri più a valle di Cesare Maestri, e aveva vissuto e scalato nella sua ombra. Aveva sempre creduto alla sua versione dei fatti, ed era stato uno dei suoi più strenui difensori.
Ma da quel momento non più. Dopo il resoconto di quello che aveva trovato – e che non aveva trovato – sul Cerro Torre, Maestri aveva assunto un avvocato, minacciandolo di una querela per diffamazione. In diversi articoli di giornale a Salvaterra venne dato del bugiardo, e Fava e Maestri gli dissero di tutto, insulti compresi.
Nella sua lettera, Salvaterra raccontava tutto quello che oramai sapeva per certo. Per Maestri, era giunto il momento di dire la verità. “Possiamo mentire agli altri, ma non a noi stessi”, aveva scritto.
Sette anni prima, nel 1999, a Malé, in Trentino, si era tenuta una commemorazione del quarantennale della presunta prima salita del Cerro Torre. Era anche una celebrazione della montagna, ed erano stati invitati molti grandi alpinisti. Ben Campbell-Kelly ricorda una conversazione privata tra lui, John Bragg, Brian Wyvill e Cesare Maestri. Tutti e tre avevano scalato sul terreno che Maestri dichiarava di aver salito nel 1959, e tutti e tre avevano contribuito alla raccolta di informazioni che infine avrebbe portato a smentire le dichiarazioni iniziali di Maestri.
“È stato un incontro molto amichevole. In fondo noialtri siamo bravi ragazzi, e poi eravamo a casa sua. Non avevamo alcuna intenzione di attaccarlo”, ricorda Campbell-Kelly. “E questo probabilmente lo aveva ammorbidito. Mi ricordo che ha commentato qualcosa come ‘Ragazzi, siete degli alpinisti fantastici’. Lo aveva detto in un modo talmente schietto, e velato di malinconia, che era indubbiamente sincero”.
“Ci ho rimuginato per qualche mese”, aggiunge Campbell-Kelly. “E ho deciso che in un certo senso, a suo modo, voleva dire, ‘Siete più giovani e più forti di me, e avete scalato le cose che avrei voluto fare io, e in uno stile più pulito’. È la cosa più vicina a una confessione che si potrebbe mai ottenere”.
L’evento di Malé non era andato bene per Maestri. Il suo amico Elio Orlandi aveva scolpito un modello precisissimo del Cerro Torre, alto quasi due metri, e Maestri non era stato in grado di individuare la via per cui si stava tenendo quella celebrazione. Orlandi e un altro amico, Maurizio Giarolli, erano saliti sul palco per aiutare Maestri a indicare la sua presunta via.
In uno scambio di e-mail private, Bragg, poco tempo dopo, mi raccontò dell’ospitalità degli italiani, notando però che “In maniera molto interessante, si parlava molto poco della via del 1959. Le domande poste a Maestri erano scontate, banali… è stato lui ad accennare alla Via del Compressore. Ha fatto qualche battuta o ha lasciato la risposta a Fava, che è un eroe, lì. Nessuno sembrava avere intenzione di mettere in discussione quel che diceva… tutti sembravano contenti di stare passando una bella serata”.
“Il comportamento e il linguaggio non verbale di Maestri erano interessanti. Non mi aspettavo per niente una cosa del genere. Non sembrava l’eroe trionfante, l’uomo che aveva realizzato quella che probabilmente sarebbe stata la più grande ascensione del secolo. Sembrava molto insicuro, emotivo. Sembrava aver bisogno dell’approvazione degli altri alpinisti. Dov’erano l’orgoglio, la forza, la superbia che mi aspettavo?”
Anche Phil Burke, alpinista inglese, era stato invitato all’evento a Malé. Nel 1981 lui e Tom Proctor avevano raggiunto un punto a circa trenta metri dai funghi di neve sommitali, sulla parete nord, salendo lungo una linea che era molto vicina a una di quelle che aveva indicato Maestri in precedenza, senza trovare traccia del suo passaggio. Burke mi ha raccontato che quella sera, sul tardi, al bancone di un bar, Maestri gli si era avvicinato e aveva chiesto di parlargli.
“Penso che volesse solo condividere qualche ricordo con qualcuno che aveva familiarità con quella montagna. Non mi ha chiesto cosa avevo scoperto, o un commento sulla via. Ha solo detto che tutti ce l’avevano con lui, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. lo gli ho risposto che non ero più un giovane attaccabrighe, un iconoclasta, e che se mi diceva di aver scalato il Cerro Torre io gli credevo. È stato sopraffatto dall’emozione, mi ha gettato le braccia al collo, con gli occhi lucidi. A me spiaceva, lui era evidentemente a disagio ed era ormai già anziano, ma forse la verità dovrebbe essere detta, o lo è già stata, riconoscendo a ciascuno i veri meriti delle sue prestazioni”.
Qui sta la più grande assurdità nella tragedia di Cesare Maestri. Tutti i suoi difensori, tutte le persone che alimentano l’illusione – in un negozio a Cortina si trovava una maglietta con il suo nome e la frase “l’uomo che è stato due volte in cima alla più difficile montagna del mondo, il Cerro Torre in Patagonia” – tutti quelli che invocano a gran voce il rispetto e la dignità dell’uomo, condividono la responsabilità del suo tormento.
La cosa più grave che hanno fatto i suoi “aggressori” è stata chiedere la verità. Nessuno vuole la sua testa. Nessuno si mette fuori da casa sua a protestare. Nessuno viola i suoi diritti umani.
Ogni volta che si spendono lodi, si pubblicano articoli, si partecipa ai festeggiamenti per il 1959, decennio dopo decennio, si attribuiscono lauree honoris causa, non si fa che rinforzare il mito.
Come gli ha scritto Salvaterra, non possiamo mentire a noi stessi. Forse i suoi difensori stanno proteggendo un’epoca, un luogo, un desiderio. Qualcosa che però appartiene a loro.
Durante un’intervista del 1972, poco dopo aver aperto la Via del Compressore, Maestri fece una dichiarazione che avrebbe ripetuto quarant’anni dopo, in occasione della schiodatura. “Se avessi la bacchetta magica, cancellerei il Cerro Torre dalla mia vita”.
Poco dopo aver spedito la lettera, Salvaterra la ricevette indietro, con l’annotazione “rispedire al mittente”. Sulla busta, Maestri aveva scritto un messaggio: “Non apro la tua lettera perché sono nauseato di tutto”, lamentandosi del “male che stai facendo alla mia famiglia”. Ma la busta era stata chiaramente aperta, e poi risigillata.
La mia verità
Nel 2013, partito da El Chaltén ma ben prima di scoprire la vicenda di Modia e dell’Aconcagua, mi recai alla Biblioteca Dante Alighieri a Buenos Aires. La bibliotecaria che mi aiutò, Liliana, conosceva il materiale su cui stavo facendo le mie ricerche – una serie di articoli sul Cerro Torre pubblicati nel 1959 da un quotidiano locale di lingua italiana.
Sua madre era originaria di Malé, ed era amica di Cesarino Fava e della sua famiglia. Ero stupito, e le riferii del mio incontro con il figlio César, a El Chaltén, e di quanto mi fossi trovato bene con lui. Lei mi raccontò che aveva tenuto in braccio il piccolo César, quand’era un bambino, e conservava ricordi splendidi della famiglia. Liliana mi chiese se potevo metterla in contato con César.
Rientrato a casa, scrissi a César per ringraziarlo della sua disponibilità, e per dirgli che avevo incontrato sia Liliana che Juan Pedro Spikermann, uno dei giovani studenti che avevano aiutato suo padre e Cesare Maestri trasportando l’attrezzatura durante la spedizione del 1959, e la prima delle due del 1970 che avrebbe portato alla Via del Compressore. Al campo base avevano trascorso dei momenti fantastici, e Spikermann si ricordava di Cesarino come di un uomo molto divertente e di grande personalità.
César mi rispose, citando le persone che avevo menzionato e i rapporti che aveva con loro. Nonostante fosse passato parecchio tempo, certi legami restano. Non parlava con Liliana da un po’, ma era entusiasta alla prospettiva di risentirla, e scrisse anche del figlio di Spikermann, un ranger del parco nazionale a El Calafate, non lontano da lì, e dell’amicizia che era scaturita per via del legame tra i padri. Mi raccontò anche di altre amicizie che si erano tramandate di padre in figlio, in quella comunità. Mi ringraziò per essere stato il ponte che poteva collegare lui, Juan Pedro e Liliana. Arrivò a scrivere, “Penso che tu, in tutta questa storia, sarai esattamente questo, Kelly… un ponte in grado di superare i crepacci”.
Maledizione, pensai. César mi piaceva, come del resto molti altri dei sostenitori di suo padre e di Cesare Maestri. Ma non avrei potuto ignorare i fatti concreti e le prove legati al 1959.
Le conversazioni, le grandi storie raccontate, riportate e ricreate in seguito non devono alterare le nostre azioni. Per me, la verità conta. E anche se è vero che non conosco direttamente nessuno dei due uomini coinvolti in queste storie, forse queste due persone non conoscono nemmeno se stesse, lo baso le mie valutazioni sui comportamenti, non sulle parole, e non importa quanto possano essere dette con profondità e affetto.
Mi piacerebbe essere un ponte. Ma mentre leggevo le parole di César, sentivo una nota di tristezza, sapendo che quello che avrei scritto poteva essere percepito come un tradimento.
Avrei scritto i fatti, puri e semplici, che ho scoperto tra le montagne di prove e indizi che circondano il Cerro Torre. Fatti che molte persone hanno scelto di ignorare, continuando a farlo anche oggi. Le bugie che non hanno mai fornito alla famiglia di Toni Egger una risposta onesta sulla sua morte. Le bugie che perpetuano una mentalità in cui le persone distorcono la storia e la realtà per proteggere, ad ogni costo, le loro convinzioni. Le bugie che indeboliscono quelli che si comportano onestamente.
Avrei dichiarato la mia convinzione che tutto quello che ha seguito la bugia del ’59 – le cose belle, e quelle brutte – può essere fatto risalire a quella storia, quasi si trattasse di un peccato originale. Tuttavia, nonostante ammiri l’intuizione e il coraggio richiesti anche soltanto per avventurarsi sul Cerro Torre nel 1959, la storia resta fatalmente monca, difettosa, e non perché non salirono su quella montagna. Rimane zoppa perché manca la verità.
È in questo che Cesarino Fava e Cesare Maestri sono stati inadeguati. Lo sono stati nei confronti di loro stessi, di quelli che credevano in loro, e hanno tradito il codice di fiducia così fondamentale per l’alpinismo.
Penso che il modo in cui trattiamo le cose e le persone che dichiariamo di amare sia un’espressione di chi siamo veramente.
Le montagne sono luoghi sacri, trascendenti, luoghi densi di ispirazione e accadimenti, dove la fiducia, le azioni e l’onestà contano. Luoghi in cui, in momenti fuggevoli, ho colto la bellezza delle convinzioni mentre si fondeva con il potere della verità. Momenti fragili e preziosi come piccoli cristalli di ghiaccio, trasportati da un vento furioso.