I tre ultimi problemi delle Alpi – 5

I tre ultimi problemi delle Alpi – 5 (5/5)
di Anderl Heckmair

(continua da https://www.sherpa-gate.com/grandi-storie/i-tre-ultimi-problemi-delle-alpi-4/)

Conclusione
Ci eravamo immaginati l’avvenimento in modo ben differente: ci figuravamo infatti che raggiungere la cima dell’Eiger per la parete nord sarebbe stata una cosa solenne e imponente, poiché sarebbe stato risolto il più grande problema delle Alpi.

Ci eravamo veduti nell’atto di fare salti e capriole – ma ora nessuno sente la minima voglia di lasciarsi andare in dimostrazioni esuberanti.

Nella tempesta tutto avviene in modo diverso. Ci stringiamo la mano, ci ripuliamo ciglia e sopracciglia dal ghiaccio, per poter vedere, e subito iniziamo a scendere per la parete ovest, andando direttamente incontro alla tempesta. È ora un gran vantaggio che Fritz e Heini conoscano la via. Infatti pochi giorni prima erano saliti dalla cresta del Mittelegi e discesi per il versante ovest.

Solo adesso ci accorgiamo di quanta neve fresca sia caduta nel corso di una giornata. A causa della minore inclinazione del fianco ovest, la neve accumulatasi ha una profondità da 40 a 50 centimetri. Ma non è la neve fresca e piacevole che si è abituati a trovare d’inverno, bensì una massa pesante, poltigliosa, attaccata alle placche ricoperte da vetrato. Spesso scivoliamo via con l’intero strato. Ma riusciamo quasi subito a fermarci grazie ai ramponi che abbiamo ancora ai piedi.

1982. zzz (seminascosto), Renzo Pasquazzo, yyy, Riccardo Cassin, Anderl Heckmair, xxx: visita degli ospiti delo Festival di Trento alle Cantine Ferrari del Trentino.

Ora che la tensione per i terribili pericoli è scomparsa, una plumbea stanchezza ci prende alle ginocchia. Io ne risento maggiormente, e solo a gran fatica e affannosamente riesco a tenere il passo degli altri. In fondo – penso – ho fatto la mia parte, ora tocca agli altri fare la loro, affinché arriviamo felicemente giù.

Heini Harrer, che per lo più era rimasto ultimo di cordata in parete e aveva speso meno energia nervosa, prende il comando della cordata. Io invece per lo più aspetto che gli altri siano scomparsi nella nebbia e che la corda si tenda. Allora mi siedo sul fondo dei pantaloni e parto con una allegra scivolata verso i compagni, che vigilano in tre per potermi arrestare. Ma questa tecnica rompe l’elastico dei sovrapantaloni, che mi cadono giù continuamente, trascinandosi dietro calzoni e mutande. Ho voglia di lasciarli andare perché tutto mi è ormai indifferente. Ma dopo essermi seduto un paio di volte nella neve e aver sentito il freddo penetrarmi nelle ossa, riprendo la battaglia con i calzoni, spendendo così l’ultimo residuo di energia.

Scendere! Ogni metro che guadagniamo, la tempesta decresce e la neve diminuisce.

Ma i miei nervi esauriti devono sopportare un’altra prova! La nebbia è impenetrabile e la visibilità nulla; Heini va troppo a sinistra. E perciò si profila il pericolo di un terzo, e rispettivamente per i nostri due compagni, quarto bivacco. Nel nostro stato attuale, questo sarebbe terribile e tutti ne avremmo brutte conseguenze.

In un attimo, essendosi squarciata la nebbia, ci rendiamo conto di dover risalire 200 metri per passare un risalto che ci separa dalla cresta ovest.

Ci pare più amaro del più duro dei tratti superati in tutta la parete. Specialmente per me. Io non voglio risalire sui nostri passi e preferirei scendere per lo strapiombo. Ma gli amici, malgrado le mie proteste, mi obbligano a risalire il tratto già percorso col semplice sistema di tirarmi per la corda.

Siamo già scesi di mille metri. A quota tremila la tempesta è molto meno forte che a quattromila. Non abbiamo più i vestiti così ghiacciati ma in compenso siamo bagnati fino alle ossa. Ora sappiamo che tutto finirà oggi. Ma un nuovo contrattempo ci impensierisce: ci daranno una camera all’albergo dello Scheidegg, e ci presteranno vestiti asciutti, dato che siamo senza soldi? Siccome non avremmo certo avuto bisogno di denaro sulla parete nord, non ne abbiamo portato con noi.

“Ci faranno credito per dormire?”.

Ci siamo completamente scordati di essere stati osservati col cannocchiale. Ma c’era chi seguiva la nostra impresa e aveva provveduto in merito. Noi non ci raccapezziamo e non comprendiamo cosa voglia dire quando, dopo un’altra ora, essendo finalmente usciti dalla nebbia, vediamo alcune centinaia di metri sotto di noi una quantità di puntini neri in agitazione davanti all’albergo.

Il primo uomo che incontriamo è un pastorello svizzero. Ci guarda con gli occhi sbarrati come venissimo dalla luna e chiede: “Tornate dalla parete nord?”.

“Ma cosa succede laggiù?”.
“È la squadra di soccorso venuta per salvarvi!”.

Improvvisamente ci rendiamo conto che tutto questo ci concerne, e piano, molto piano, ritorna in noi la gioia di essere stati conservati alla vita.

Giù l’agitazione cresce continuamente. Sembra di vedere una colonna di formiche che sale sulla montagna; già i primi sono solo a 50 metri da noi. Dapprima esitanti, e poi dimentichi di ogni stanchezza, saltiamo giù incontro agli amici. Con urla da indiani ci balzano al collo e danzano di gioia. Danziamo con loro, senza più pensare alla nostra spossatezza. Improvvisamente

non sentiamo più nessun dolore alle parti ferite, che prima ci causavano tormento a ogni passo. Sono presenti i due scalatori viennesi, Rudolf Fraissl e Leo Brankowsky, che il primo giorno erano ridiscesi dalla parete. Quando il nostro successo si era delineato sicuro, non s’erano tirati indietro risentiti, ma al contrario erano stati i primi a incaricarsi di trasmettere le notizie ai nostri amici di Monaco in contatto telefonico con la Scheidegg. Ed ora erano venuti a riceverci.

Fraissl mi porge subito una fiaschetta d’un quarto di litro di cognac dicendo: “Bevi, ti farà bene!”

Non mi faccio pregare due volte, e con un sorso solo vuoto l’intera bottiglietta. Sento come una corrente di fuoco attraverso tutto il corpo. Appositamente non avevamo portato con noi in parete una sola goccia d’alcol. Ma ora era un corroborante assai bramato. A parte una lieve ebbrezza, questa potente bevuta non mi lasciò la minima conseguenza.

Con i nostri amici sono venuti anche giornalisti di tutti i paesi, e i lampi di magnesio s’incrociano intorno a noi. Sono le 19.30 del 14 luglio, ora in cui di solito è ancora chiaro. Ma a causa della fitta nebbia, i fotografi dei giornali hanno troppa poca luce.

Un giornalista americano ci chiede di allestire subito per lui un bivacco. Ma questo è pretendere troppo da noi. Circondati dalla scorta protettrice dei nostri compagni, combattiamo una battaglia in piena regola per aprirci la strada attraverso la moltitudine che frattanto è giunta. Ora altri pensano e agiscono per noi. Già sono state preparate camere riscaldate e i compagni tirano fuori biancheria e vestiti asciutti! Ma prima pretendono che facciamo un bagno caldo.

Wiggerl è già nella vasca, e quando entro in bagno mi fissa con gli occhi stralunati d’un vitello in agonia.
“Che cos’hai ora? Perché non ti metti comodamente seduto?”

E, senza nessun presentimento, entro nella vasca. Ma mi ritrovo fuori di scatto, come spinto da una molla. I piedi, colpiti da un congelamento di primo grado, sono stati ancor maggiormente irritati dall’ovatta termogena, tanto da esser color rosso fuoco. È come la puntura di mille aghi! Ma un alpinista deve sapersela cavare in ogni circostanza: lasciamo sporgere i nostri piedi fuori dalla vasca e con il resto del corpo ci immergiamo fino al collo nell’acqua calda.

Improvvisamente si apre la porta; un lampo di magnesio e un fotografo ci immortala in quella vezzosa posizione. Un amico deve montare la guardia finché abbiamo finito.

Per tre giorni non abbiamo quasi mangiato. Ma ora ci viene una fame da lupi che a malapena riusciamo a saziare. Sei scaloppe ciascuno! Senza parlare delle altre portate, naturalmente. E poi ancora vari dessert che spariscono rapidamente sotto gli occhi attoniti del pubblico.

A lungo siamo ancora sottoposti a un fuoco di fila di domande, e appena ora ci rendiamo conto della sensazione suscitata. Questo non ce lo aspettavamo e neppure l’abbiamo desiderato. Gli stessi programmi radiofonici sono stati interrotti per annunciare la prima salita alla parete nord dell’Eiger.

Già i fratelli Toni e Franz Schmid erano stati festeggiati a Zermatt dopo la loro vittoria sulla Nord del Cervino, ma in una cerchia ristretta, in forma privata, e perciò ancora sopportabile. Qui invece, auguri, felicitazioni e inviti ci piovono sul capo da tutte le parti.

Noi accettiamo solo di partecipare a una piccola festa, quella delle guide di Grindelwald. Ci sono solo alpinisti: le guide di Grindelwald e noi con i nostri amici. Il capo-guida tiene un breve discorso in cui espone come essi abbiano sofferto per noi in parete e come la nostra vittoria sia stata anche per loro una liberazione. Io rispondo a quelle parole solenni, sottolineando brevemente la serietà con cui ci eravamo preparati e l’impegno che ci eravamo prefissati. Quindi ci congediamo da quella parete cui siamo grati per la sensazionale esperienza vissuta.

Ma dobbiamo rinunciare all’altro progetto, cioè al viaggio a Chamonix per tentare l’ancora inaccesso Sperone Walker delle Grandes Jorasses. Proprio prima della nostra partenza per la Svizzera e per l’Eiger ci eravamo preoccupati di farci mettere a Monaco il visto del consolato francese sui passaporti. Ma questa idea ora non è più fattibile.

Altri alpinisti l’hanno realizzata. L’italiano Cassin con i suoi compagni si era già fatto un gran nome con le prime salite della parete nord della Cima Ovest di Lavaredo e della Nord-est del Pizzo Badile. Ora aveva risolto il problema dello Sperone delle Jorasses – che come difficoltà non è certo secondo all’Eigerwand – proprio qualche giorno dopo la nostra vittoria sull’Eiger.

Come noi sull’Eiger, gli italiani avevano impiegato tre giorni interi per la salita. Attaccato il 4 agosto, alle 14 del giorno 6 erano usciti sulla cima della Punta Walker, il punto più alto delle Grandes Jorasses. E mentre in parete erano stati favoriti dal bel tempo, un temporale li colse in vetta obbligandoli a un terzo bivacco proprio all’inizio della discesa lungo la cresta.

Quest’impresa non suscitò tanto scalpore, perché in seguito al chiasso causato dalla vittoria sull’Eigerwand, il resto passò in seconda linea. Ma negli ambienti alpinistici ottenne una risonanza molto maggiore. Noi pure ci rallegrammo della vittoria di questi nostri compagni italiani, specialmente perché dimostrava come anche in altre nazioni regnavano lo stesso entusiasmo e lo stesso spirito di sacrificio per la montagna che c’erano tra gli scalatori tedeschi.

Tornammo in patria. I festeggiamenti e gli inviti non avevano fine, ma ben presto ne avemmo abbastanza. Un nuovo ambito progetto incominciò a prendere forma consistente: quello di poterci misurare con i più alti monti della terra. In occasione di un invito negli ambienti competenti ci fu data in linea di massima l’approvazione per allestire con grande economia una spedizione all’Himalaya. Ma a metà dei preparativi ci fu tolta l’autorizzazione e tutto sfumò. Il fatale 1° settembre 1939 fece rinviare la nostra grande meta a un futuro vago e remoto.

Solo dopo una sosta di 9 anni, causata dalla guerra, la parete nord dell’Eiger fu salita per la seconda volta. Furono due giovani guide di Chamonix, Lionel Terray e Louis Lachenal, che riuscirono a compiere questa scalata (14-16 luglio 1947, NdR). Pochi giorni dopo salì una cordata svizzera guidata da Hans Schlunegger, quello stesso Schlunegger che era stato uno dei protagonisti della spedizione di soccorso del 1936 e che pure durante la nostra salita aveva tentato da solo di mettersi in contatto diretto con noi, quando le valanghe scendevano a ripetizione sopra le nostre teste. Quest’uomo, indubbiamente il migliore conoscitore dell’Eigerwand, riuscì così a compiere la terza ascensione grazie alle sue capacità (Hans e Karl Schlunegger con Gottfried Jerman, 4-5 agosto 1947, NdR).

La storia dei tentativi sulla Nord dell’Eiger, delle nostre lotte, del destino fatale dei giovani entusiasti scalatori a cui la sorte non riservò la vittoria, sta per finire. Con la soluzione dell’ultimo dei grandi problemi delle Alpi – attuato con la tenacia, la perseveranza e in gran parte grazie alla fortuna – si è chiuso un capitolo della storia dell’alpinismo, che si può classificare come l’era classica.

Un’era dell’alpinismo si è chiusa, una nuova subentra, in cui i giovani si daranno a nuove imprese. Le più grandi cime della terra attendono ancora i loro conquistatori.

La dedizione assoluta alla meta non è mai vana, ma porta a uno smisurato guadagno: il ricordo di un possesso imperituro e inalienabile per tutta la vita. Tanto più grande la lotta, tanto maggiore il pericolo, tanto più ricca e più bella la ricompensa.

1958. Celebrazione del ventennale delle prime ascensioni della parete Nord dell’Eiger e della direttissima delle Grandes Jorasses (Sperone punta Walker). Riccardo Cassin riceve il premio. Anderl Heckmair subito dietro in giacca grigia; vicino al tavolo Guido Tonella, Bruno Biondo (al microfono). In fondo, Walter Bonatti.

Appendice
Vent’anni dopo, lo Sperone delle Jorasses
Erano passati vent’anni da quando avevo veduto per la prima volta la colossale muraglia di granito e di ghiaccio delle Grandes Jorasses. Mai avevo potuto liberarmi dal loro fascino, e sebbene avessi ottenuto dei bei successi su altre montagne, era rimasto in me vivo e acuto il desiderio di salire anche questa parete.

Sebbene la Nord dell’Eiger, per la sua altezza di 1800 metri, faccia un’impressione ancora maggiore, pareva comunque – e non solo a me, ma anche ai primi salitori dello Sperone delle Jorasses – che questo fosse molto più difficile. Lo Sperone infatti rappresenta la via di salita ideale al punto più alto delle Grandes Jorasses, cioè alla Punta Walker 4208 m ed è chiamato appunto Sperone Walker.

Nutrivo perciò una sconfinata ammirazione per i primi salitori – Riccardo Cassin, Gino Esposito e Ugo Tizzoni — che avevano risolto quel problema otto giorni dopo la nostra vittoria sull’Eiger, nel 1938. Ma già nel 1928 era stato effettuato il primo tentativo allo Sperone delle Jorasses, precisamente da parte dell’americano Alberto Rand Herron con le guide Armand Charlet di Chamonix ed Evaristo Croux di Courmayeur. Il mio buon amico Herron mi aveva detto che la scalata sulla parte sinistra dello Sperone avrebbe presentato delle difficoltà del tutto straordinarie, ma questa era l’unica possibilità di raggiungere la parte superiore dello Sperone stesso. Fondamentalmente aveva ragione, perché Cassin seguì quella via, usando naturalmente la moderna tecnica di corde e chiodi.

La nostra salita del 1951 era già l’ottava, e non volevamo né desideravamo fare sensazione. Pure, per la mia proverbiale sfortuna col tempo, ci trovammo in una situazione che ci obbligò a bivaccare tre giorni consecutivi, e preoccupò terribilmente i nostri amici a Chamonix e in patria.

Quando si sta per attuare un progetto che ci ha occupati per un decennio, e ci si trova di fronte alle difficoltà del passaporto, della caccia alla valuta, e dell’acquisto di materiale speciale, si è così indaffarati in questi compiti, che a malapena si pensa agli ostacoli della parete e alle sue condizioni.

Avevamo esatte informazioni sui precedenti dello Sperone. Nel 1945 i francesi Edouard Frendo e Gaston Rébuffat avevano salito per la seconda volta questa via Cassin. La terza scalata era stata compiuta da Pierre Allain, René Ferlet, Jacques Poincenot e Guy Poulet nel 1946, la quarta da Louis Lachenal e Lionel Terray, pure nel ’46, la quinta da Marcel Malet, Karekine Gurekian e Paul Revel – tutti francesi – la sesta dagli italiani Walter Bonatti, Andrea Oggioni, Mario Bianchi ed Emilio Villa nel 1949, la settima dagli austriaci Hermann Buhl e Kuno Rainer.

Buhl aveva pubblicato sulla rivista Der Bergsteiger una relazione della sua salita allo Sperone con Rainer, ed era stato profondamente impressionato dalle difficoltà incontrate. Tra gli scalatori austriaci, erano tra i più famosi e fortunati, e dovevamo prendere assai seriamente le loro affermazioni.

Terray e Lachenal, che avevano compiuto pure la seconda salita alla Nord dell’Eiger, e coi quali da allora corrispondevo amichevolmente, mi invitarono a Chamonix. Il tempo era tuttavia assai instabile e io sapevo dalle mie esperienze precedenti che solo un caso fortunato ci avrebbe permesso di trovare condizioni favorevoli.

II mio compagno Hermann Köllensperger di Monaco era tra i migliori scalatori del momento e, benché assai giovane, aveva compiuto le più dure salite del Kaiser e del Wetterstein. Lo conobbi al rifugio dell’Oberreintal, dove fin dal primo momento mi riuscì simpatico per il suo carattere tranquillo e modesto, e mi parve il compagno proprio adatto per questa impresa.

Giungemmo il 30 luglio a Chamonix, cordialmente ricevuti da Terray che tuttavia si dimostrò preoccupato quando facemmo un’allusione al nostro progetto.

“Beaucoup de neige et glace”, sentenziò, perché era infatti noto che la rimanenza di neve e di ghiaccio dell’inverno eccessivamente nevoso 1950-51 non si era ancora sciolta.

“È da vedersi!” pensammo, e salimmo al rifugio Leschaux. La piccola capanna era cambiata. In vent’anni era diventata spaziosa; non c’era nessuno, pure regnava il più irreprensibile ordine. Alcuni tipici utensili femminili ci fecero concludere che la capanna era ora affidata al gentil sesso.

In un angolo c’erano piumini e coperte avvolti in lenzuola di lino. Resistemmo alla tentazione di coricarci in quelli e ci accontentammo delle coperte comuni nell’angolo opposto, giacché volevamo partire all’una per la nostra impresa.

Ci svegliammo puntualmente. Ma la notte non ci piacque. La temperatura era troppo calda e il cielo in gran parte coperto. Con gran sollievo ci rotolammo nuovamente nelle nostre coperte e dormimmo fino a mezzogiorno. Avevamo fatto bene, perché quando fummo tutti pesti e la fame ci buttò fuori dal nostro caldo giaciglio, pioveva a torrenti.

Un gruppo discretamente stanco, composto da due Mesdames e due Messieurs stava dirigendosi appunto verso il rifugio, e dato che cucinavamo già per conto nostro, preparammo anche per loro del tè sul nostro Primus, non avendo messo in funzione il fornello a gas. I nuovi venuti accettarono grati la nostra offerta, e in cambio ci invitarono a cena: primo, secondo e dolce. Ma quando ci chiesero i nostri progetti e noi per risposta accennammo alla Nord delle Jorasses, che era appunto apparsa per un attimo libera da nubi, fecero le facce scure. Divennero ancora più premurosi e subito, come per incantesimo, ci presentarono una superba sveglia che ci strappò puntualmente all’una dal nostro sonno profondo.

Era giovedì 2 agosto. Contrariamente alla notte precedente, era freddo e sereno, e in ogni caso volevamo salire fino a quota 3100, all’attacco delle prime grandi difficoltà di roccia. Gli zaini, con solo il più stretto indispensabile, erano pronti, e ben presto c’incamminammo nell’oscurità sul ghiacciaio Leschaux.

Il crepaccio terminale fu presto superato. La neve indurita dei ripidi nevai a destra dello Sperone roccioso fu facilmente attaccata dai nostri dodici-punte. L’inizio ci parve assai promettente! Per erti pendii di neve e di ghiaccio raggiungemmo la parte sinistra dello Sperone, interrotta tuttavia da alcune zone rocciose. Con mia grande gioia trovai tra quelle rocce cristalli di dimensioni mai viste. Tuttavia non potemmo fermarci: avevamo ben altri interessi che quelli geologici! Secondo la descrizione, una lunghezza di corda di 30 metri, estremamente difficile, dava accesso alle rocce superiori. Ma spalancammo gli occhi di fronte alla cosiddetta Fessura Rébuffat (più propriamente Diedro Allain, NdR)! Erano 30 metri che avrebbero potuto stare sulla Nord della Grande di Lavaredo! Solo rari chiodi indicavano la via dei nostri predecessori. In posti impossibili, a destra e a sinistra della fessura, si vedevano pochi chiodi arrugginiti, la cui utilità ci risultava incomprensibile. Infatti, sopra trovammo poi anelli di corda che testimoniavano di varie ritirate, per cui probabilmente i chiodi erano stati piantati.

Cedetti a Hermann il comando, ed egli si sforzò d’innalzarsi, adoperando tutte le possibilità offerte. Lo udii mormorare più volte: “Di qui non si può passare!”.

Da lì ancora un chiodo lo ricondusse a una fessura. Usò anche le staffe, di cui mi servii pure io da secondo, benché fino allora le avessi disdegnate.

Sopra trovammo un superbo terrazzino. Ma fummo obbligati a calzare di nuovo i ramponi, perché altrimenti la traversata del nevaio avrebbe richiesto gradini, e sarebbe stato troppo lungo. Poi dovemmo cavarceli e legarli allo zaino per superare pochi difficili metri di roccia, indi subito dopo ricalzarli nuovamente. Tutto questo ci portò via molto tempo. Ma non c’era altro mezzo per superare quella ripida zona nelle condizioni in cui si trovava. E queste erano le considerazioni che Terray aveva formulato sullo stato attuale della parete. Finalmente raggiungemmo la fine della traversata e l’inizio del cosiddetto camino di 75 metri. IV e V grado — scrive la guida – ma secondo noi non sarebbe stato esagerato classificare questo camino di V e VI grado. Salimmo con ansia verso il “pendolo” che porta sulla parte destra dello Sperone. La cosiddetta traversata “facile” prima del pendolo era talmente ghiacciata che non ci accorgemmo affatto della sua facilità. Ci eravamo accordati che io avrei tenuto i ramponi procedendo in testa sul ghiaccio, mentre Hermann sarebbe passato da capocordata sulle rocce asciutte.

Anderl Heckmair alla firma di un suo libro

Il pendolo non fu affatto brutto. Non era altro che una discesa a corda di 10-12 metri, una traversata su lastroni erti e lisci, poi uno strapiombo con buone prese che portava nuovamente all’altezza della calata di corda. Il continuo alternarsi di vetrato e roccia asciutta ci diede molto da fare. Il tentativo di superare lo strapiombo sul lato destro, scalando coi ramponi la roccia asciutta, si dimostrò superiore alle mie forze e solo una rapida ritirata mi preservò dalla caduta.

Reso più modesto, usai un vecchio chiodo sulla sinistra e mi sforzai di innalzarmi, superando un rigonfiamento di ghiaccio. Alla fine di questa lunghezza da cui m’ero calato, potei tendere e fissare la corda, cosicché l’amico dovette solamente appendervisi e, con autoassicurazione, tirarsi direttamente fino a me.

Con una lunghezza di corda più facile, arrivammo al primo posto di bivacco dei primi salitori; davanti a noi si ergevano le temute placche nere. “Da V a VI grado”, riportava di nuovo la guida, con indicazione di varie possibilità di salita. Ma nessuna di queste era facile.

Il sole si era già inclinato verso le Aiguilles de Chamonix. Cercammo disperatamente un posto per il bivacco. Poco prima delle nove di sera raggiungemmo uno stretto terrazzino sul quale almeno avremmo potuto passare la notte, in parte seduti e per il resto del tempo in piedi. Era proprio tempo: perché mentre battevamo ancora i chiodi per la sicurezza, scese l’oscurità.

Per ripararci contro il freddo avevamo con noi un sacco da bivacco in nylon, che stendemmo sopra di noi. Durante la maggior parte della giornata avevamo combattuto sulla neve e sul ghiaccio; per sfortuna sul nostro terrazzino non c’era nessuna traccia di neve e avevamo la gola riarsa dagli ultimi durissimi tiri. Oltre all’Ovomaltina e al Nescafè avevamo portato con noi anche un po’ di pane e salsicce, ma non potemmo inghiottire neanche un boccone attraverso la gola secca; eppure durante l’intera giornata non ci eravamo concessi la minima pausa, e non avevamo mangiato niente. Conoscevo tutto questo dalla Nord dell’Eiger, e avevo preso con me per la particolare situazione una bottiglietta di cognac e polvere d’uovo. Mescolai questo cognac e uovo con molto zucchero in un bicchiere e scossi il tutto. Ma Hermann, astemio per eccellenza, malgrado la mia amichevole insistenza, non volle saperne di quella bevanda confortante e piacevole. Mi sentii completamente a posto con lo stomaco e ben lieto di essermi allenato all’alcool, e passai la notte in uno stato quasi piacevole.

Verso il mattino incominciò a nevicare e a grandinare; sotto il sacco da bivacco si sentiva come se qualcuno vi buttasse manciate di piselli secchi. Improvvisamente una slavina precipitò rombando su di noi, riempiendo il nostro terrazzino con chicchi di grandine e polvere di neve. Così ottenemmo l’indispensabile per il nostro caffè: raccogliemmo cioè i chicchi di grandine nel nostro bicchiere d’alluminio e li sbattemmo finché divennero acqua.

Venerdì 3 agosto. Il secondo giorno in parete incominciò con una lunghezza di corda estremamente difficile che dal nostro terrazzino ci portò fuori dai lastroni neri. Arrivammo così sulla larga cengia dove Cassin aveva bivaccato per la seconda volta. Il posto era in ogni caso più adatto. Ma ormai lo avevamo già passato, e ora ci trovavamo di fronte alle Placche Grigie e poi alla Torre Grigia. Se non fosse stato così freddo e se non avessi avuto le dita irrigidite, l’arrampicata sarebbe stata assai bella e piacevole. Così invece ci innalzavamo lentamente, con straordinaria prudenza e ricorrendo a ogni sorta di accorgimenti tecnici.

Giunti sulla cresta della torre, l’incredibile verticalità ed esposizione della parete finalmente diminuirono. Anche le difficoltà della roccia ci parvero minori.

Purtroppo era solo apparenza, perché il tempo incominciò a peggiorare e la neve ad aderire; potevamo solo indovinare la posizione degli appigli minori. Una scopa sarebbe stata indicatissima, ma purtroppo ci eravamo scordati di inserirla nel nostro equipaggiamento. Mentre stavo superando una placca particolarmente liscia, scoprii una meravigliosa presa formata da una scaglia staccata. Ma nello stesso momento in cui l’afferravo, mi si ruppe tra le dita e un pezzo della dimensione d’un metro quadrato cadde fischiando sulla mia bella corda di nylon dieci metri più sotto, lacerandone completamente la guaina esterna. Ne provai un dolore acuto, come se il masso mi fosse caduto sui piedi, perché avevo comperato la corda a Chamonix proprio per questa salita, pagandola la bellezza di 1500 franchi! Per fortuna i filetti del nylon non furono intaccati e la resistenza allo strappo non fu alterata granché, come dovevamo constatare più tardi.

Raggiunto un piccolo gendarme sulla cresta, ci venne un dubbio a causa della neve fresca: dovevamo proseguire per le rocce o per la neve? Tutte e due le soluzioni mi parvero così poco allettanti che, dopo aver piantato un solido chiodo da roccia dieci metri più in alto, decisi di ridiscendere fino al gendarme, e di aspettare sotto il sacco-tenda che il maltempo fosse passato. Era appena mezzogiorno e speravamo, dopo qualche ora d’attesa, di poter procedere per allestire più in alto il secondo bivacco. Neve, pioggia e grandine flagellavano senza interruzione il nostro sacco-tenda. Eravamo bene assicurati sul gendarme dal chiodo piantato dieci metri più in alto e del tutto al riparo dalle slavine. Ma dato il perdurare del maltempo, fummo costretti a passare la seconda notte in quel luogo. Potemmo almeno distendere un po’ le membra sotto il sacco-tenda, e fu proprio un gran bene, perché così evitammo i crampi alle gambe, al ventre e alla schiena che ogni tanto ci assalivano.

Accendemmo il nostro fornelletto, ma dovemmo ben presto spegnerlo, a causa del puzzo che sviluppava sotto il sacco; e una volta fuori, si spense subito. Non ci restò altro che mettere in azione il bicchiere-miscelatore, che del resto si mise a funzionare automaticamente: era infatti sufficiente tenerlo in mano, dato che tremavamo continuamente per il freddo. Ciò costituì uno svago delizioso per l’intera notte. Riempivamo dapprima di neve il bicchiere, aggiungendo un pezzo di zucchero d’uva o una caramella; con il tremito continuo, la neve si mutava in ghiaccioli, indi subentrava un punto morto che bisognava superare con azione potente, assecondando le scosse automatiche. Infine anche i ghiaccioli si scioglievano, diventando una specie di poltiglia e, se avevamo molta pazienza, qualcosa di vagamente simile all’acqua. Del resto anche quello era un modo per riscaldarsi. Durante la notte avemmo agio di variare le miscele, aggiungendo Nescafè e Ovomaltina. Salsiccia, pane e burro rimasero intatti nello zaino.

Sabato, 4 agosto. Alla mattina, di buon’ora, nessun accenno di miglioramento. Ormai eravamo troppo in alto per pensare a una ritirata. Anche la paura non ci sarebbe stata di nessun aiuto. Perciò, avanti!

Con i ramponi ai piedi, raggiunsi dapprima il chiodo, per attraversare poi una placca di ghiaccio fino a un blocco sporgente. Il ghiaccio era diventato così duro per il freddo, che nel tentativo di intagliare gradini spezzavo interi strati. Perciò rinunciai ai gradini e mi sforzai di farne senza. Più mi avvicinavo al blocco, più aumentava l’inclinazione. Poco sotto il masso, tra il ghiaccio e la roccia, s’era formato uno spazio vuoto, cosicché, afferrando con la sinistra la crestina di ghiaccio, potei adoperarla per appiglio. Ero proprio a portata di mano del blocco, quando dall’alto piombò una valanga, il cui urto spezzò la crosta di ghiaccio. Caddi, strappando il chiodo piantato un metro più sotto. Rapido come il lampo, mi rivolsi all’infuori, per non rimanere appeso coi ramponi e per non capovolgermi.

Fu un rapido volo per l’intera lunghezza di corda. Hermann, con grande presenza di spirito, si sganciò dal chiodo, lasciandosi scivolare giù sul gendarme nel momento in cui la corda s’era rilasciata. Ma prima ancora di raggiungerlo, la corda si tese nuovamente, tirandolo in su per qualche metro. Io pendevo sopra le rocce sporgenti, il chiodo aveva tenuto. Se fosse stato strappato, l’amico avrebbe avuto ancora un’eventualità, quella di saltare dall’altra parte, sopra il nostro posto di bivacco. Ma, grazie a Dio, non eravamo giunti fino a quel punto! La caduta fu così interrotta sul nascere.

Fatto curioso, lo zaino, che prima avevo sulla schiena, mi pendeva ora comicamente sul petto. Tenevo ancora in mano il guanto levato. Non avevo lasciato cadere nulla. Avevo ricevuto solo un brutto colpo alle reni, di cui soffrii per due settimane.

“Ferito?”.
“No, tutto bene!”.

Mi tirai su con la corda e, dopo qualche metro, fui di nuovo col mio compagno. Allora mi sentii sopraffatto da una violenta commozione: l’amico mi teneva bene assicurato, mentre davo sfogo a tutta l’angoscia e alla tensione nervosa. Mi misi a parlare e a gesticolare freneticamente, mentre Hermann ascoltava sorridendo. Ma ben presto riacquistai l’equilibrio normale, non sentii però nessun desiderio di compiere un secondo tentativo sul ghiaccio, e lasciai che l’amico si industriasse con le sue suole di gomma sulle rocce.

Dopo una lunghezza di corda, raggiungemmo un erto colatoio di ghiaccio che ci condusse al Nevaio Triangolare. La nebbia era così fitta che a malapena potevamo vedere per 30 o 40 metri davanti a noi, tanto che in un primo tempo non eravamo neppure sicuri d’essere proprio sul cosiddetto Nevaio Triangolare. Ma alla fine di questo trovammo le rocce coperte di ghiaccio della traversata che porta all’ultimo grande ostacolo, un camino di quinto grado. Abbiamo avuto modo di giudicare i tratti che sullo Sperone Walker vengono classificati di quinto. Data la tormenta sempre crescente e il vetrato, difficilmente un passaggio di VI mi parve mai più scabroso; inoltre, in quel camino di 80 metri, non c’era neppure da pensare a un posto di sosta: ci si poteva assicurare solo appesi ai chiodi.

Per rendere più completa la nostra sfortuna, avevo perso prima il martello, che, probabilmente durante la mia caduta, senza che me ne fossi accorto, mi era stato strappato dal moschettone di sicurezza. Improvvisamente un’imprecazione, un fischio, un suono tinnulo nell’aria: il martello-piccozza si era rotto, e sibilò oltre la mia testa nel vuoto! Ci restava solo il secondo martello da roccia, che dovemmo lasciar scivolare ogni volta lungo la corda per cavare i chiodi. Così potevamo passare solo una corda nei moschettoni in quei passaggi difficili, a tutto scapito della sicurezza.

La verticalità del camino diminuì negli ultimi venti metri, ma aumentò di conseguenza lo spessore del ghiaccio, e dovetti entrare di nuovo in funzione coi miei ramponi. Era tempo, perché Hermann si sentiva esausto dopo tutto il duro lavoro per superare quelle estreme difficoltà.

Ora, secondo la relazione, dopo una traversata, un camino innevato definito facile avrebbe dovuto condurre alla Torre Rossa. Ma il suo aspetto era terrificante: le pareti ricoperte da vetrato parevano cascate solidificate, e inoltre una neve polverosa si era ammucchiata sulle rare asperità, dove altrimenti si sarebbe potuto tirare un po’ il fiato. Come i camini precedenti, anche questo debuttava con uno strapiombo, che fui obbligato a superare in arrampicata libera.

M’ero scordato di prendere con me la piccozza, e rimasi così in labile equilibrio sul ghiaccio del camino, disperato e incerto a ogni passo, memore della caduta del mattino. Stavo per ridiscendere e allestire un nuovo bivacco sotto lo strapiombo, ma poi pensai che anche l’indomani le condizioni non sarebbero state migliori. Allora con furia disperata, armato del solo martello, mi slanciai su per il candido ghiaccio. Ed ecco, come per miracolo, staccarsi un intero strato ghiacciato e apparire un meraviglioso scalino, su cui potei finalmente respirare comodamente. Poi continuai a procedere, con mosse d’equilibrista, finché raggiunsi un masso sul quale mi assicurai e feci venire il compagno. Venti metri più in alto, una piccola cengia di roccia sotto uno strapiombo mi parve il posto più adatto per bivaccare. Hermann voleva ad ogni costo proseguire e uscire dalla parete. Ma rimanevano ancora più di 200 metri; erano già le sette di sera e il freddo e la tempesta di neve infuriavano con violenza ancora maggiore sopra il nostro capo. Inoltre eravamo fradici: era quindi naturale che l’idea della notte ci atterrisse; ma d’altro canto anche in cima le condizioni non erano certo migliori. Perciò, malgrado la resistenza dell’amico, decisi di allestire il nostro bivacco in quel posto.

Le corde, rigide e bagnate, ci servirono da giaciglio e da poltrone sulla neve. Non appena avemmo steso su di noi il sacco da bivacco, la situazione ci parve più comoda, per quanto si potesse parlare di comodità. Stavamo seduti l’uno contro l’altro, e per non lasciare penetrare il freddo nel sacco da bivacco, avevamo alzato i piedi arrotolandoci tutt’attorno il sacco. Fummo obbligati a tener dentro anche il capo, assumendo così una posizione maledettamente scomoda. Se cercavamo di distenderci un po’, la tempesta trovava un pertugio per infilarsi e gonfiare il sacco come un pallone, e ci ricopriva all’interno di polvere di neve. Eravamo quindi costretti a tirarci addosso il lembo del sacco e arrotolarci nuovamente dentro.

Esistono delle bellissime teorie sul modo di comportarsi durante un bivacco: innanzi tutto bisogna “rivestire abiti asciutti!” Avevo ancora un paio di calzettoni di riserva, e anche un secondo maglione. Ma data la posizione e lo spazio, ci era del tutto impossibile svestirci e rivestirci. A parte il fatto che anche gli indumenti di riserva si erano completamente bagnati nel nostro zaino. Cercammo di rimettere in azione il bicchiere-miscelatore, ma il nostro entusiasmo per questa pregiata invenzione era notevolmente diminuito. Continuavo a ripetermi che non dovevo lasciarmi andare e che non dovevo arrendermi; e scuotevo ininterrottamente il bicchiere. Per fortuna tutto ha una fine, e anche quella notte finì.

Domenica 5 agosto. Già alle prime luci dell’alba ci rendemmo conto che il maltempo era passato. La mattina si annunciava chiara e fredda: era ormai il quarto giorno che ci trovavamo in parete. Appena sgusciammo fuori dal sacco da bivacco, i vestiti e le scarpe si gelarono. Nel calzare i ramponi, le mani rimasero come incollate sul metallo. I primi raggi del sole illuminarono le cime dei monti all’intorno. Ma noi, sulla parete nord, eravamo ancora nell’ombra. Appena raggiungemmo la parte superiore dello Sperone, entrammo nella luce solare. Ma i raggi non c’infusero molto calore, perché insieme al sole s’era alzato un fortissimo vento, che ci scagliava in faccia nuvole di polvere di neve. Ad ogni lunghezza di corda combattemmo aspramente per portarci più in alto. I guanti si erano induriti e ghiacciati e dovevo continuamente cavarli nei passaggi difficili. Le dita erano bianche, irrigidite, insensibili. Pareva di toccare una pietra con dei rametti secchi. Conoscevo il significato di questo fenomeno, e cercavo febbrilmente di mantenere le membra in movimento e di far scorrere il sangue alle estremità.

Questa lotta durò ancora sei ore, finché mi ritrovai finalmente alla fine dello Sperone, sotto la cornice terminale di neve fresca, alta parecchi metri. Cercai ansiosamente un mezzo di sicurezza, per superare l’ultimo ostacolo e scoprii un vecchio ma ottimo chiodo negli ultimi metri di roccia. Con un grido di gioia mi ci appesi, superai la cornice e giunsi in vetta.

I primi o i secondi salitori di questo Sperone avevano piantato un simbolo sotto la vetta, un ultimo chiodo. Per noi quel chiodo non ebbe solamente un significato simbolico ma servì realmente per la sicurezza. Perché non si poteva superare la cornice strapiombante, carica di neve fresca, senza essere assicurati, e con le dita congelate mi sarebbe stato terribilmente difficile piantare anche un solo chiodo.

Non potevo comunicare a voce con il compagno a causa del forte vento. Solo tendendo e tirando la corda egli comprendeva quando doveva a sua volta salire. Finalmente anche la sua testa spuntò oltre la cornice nei raggi del sole. Erano le dieci del mattino. Ci abbracciammo, poi ci lasciammo scivolare giù sulla neve, lungo il dolce e breve pendio della vetta. Ma il freddo e il vento erano troppo forti per permettere una sosta prolungata, perciò iniziammo subito la discesa per raggiungere zone più temperate.

Dalla sella tra la Punta Walker e la Punta Whymper, scende a sud un colatoio di ghiaccio che dapprima ci parve del tutto inoffensivo. Hermann si buttò giù e subito scivolò con le suole di gomma. Avendo tenuto i ramponi non feci fatica a trattenere l’amico su di un blocco di ghiaccio.

“Non lasciarti scivolare! Faccia alla parete, scendi giù e passi!” gli gridai dietro.

Poi procedemmo contemporaneamente con la corda tesa, ma Hermann, senza ferri, scivolò nuovamente e mi trascinò al suo seguito, strappandomi dalle orme. Le piccole scivolate del genere risultano innocue se terminano in una conca di neve soffice. Anche per noi c’era una dolce conca. Ma cademmo per qualche metro da un rigonfiamento di ghiaccio. Io stavo all’erta, per non rimanere impigliato coi ramponi, ma malgrado le mie precauzioni, i denti posteriori d’un attrezzo si conficcarono nel mio ginocchio.

Con noi cadde un’intera valanga di neve fresca, che ci trasportò per 200 metri fino in un profondo crepaccio. Saltai subito in piedi, ma Hermann giaceva senza movimento sulla neve più in là. Temetti che gli fosse accaduto qualcosa, e lo chiamai con ansia. Ma egli stava semplicemente riposandosi e dimostrò scarso entusiasmo quando gli dissi di rialzarsi. La piaga nel ginocchio sanguinava abbondantemente. Fortunatamente si trattava solo di una ferita superficiale, che fasciammo rapidamente. Non potevamo correre il rischio di fare un altro scivolone del genere e quindi scendemmo avanti cautamente legati, a breve intervallo, finché raggiungemmo le rocce dei Rochers Whymper.

Lì finalmente ci concedemmo un meritato riposo: mettemmo in azione il fornelletto a spirito, prendemmo per la prima volta Nescafè e Ovomaltina caldi e divorammo un pezzo di pane con salsicce. In seguito la discesa non offrì più nessuna difficoltà. Solo non ci fu facile scoprire la capanna delle Grandes Jorasses, completamente nascosta. Già temevamo di non trovarla e di capitare in mezzo a nuove difficoltà, quando improvvisamente vedemmo apparire su un lastrone il primo uomo che vedevamo da molti giorni. Era il custode del rifugio che ci aveva visti. Ci guidò per gli ultimi metri sotto le rocce, e ci sentimmo stranamente commossi alla vista di alcune piantine fiorite.

Appena in rifugio il custode capì da dove eravamo tornati, e si mostrò pieno di premure. Medicò le nostre ferite, ci servì dei grog caldi e ci fornì vestiti presi dal suo guardaroba.

Verso sera giunse una carovana italiana composta da una guida, sette alpinisti e una signora, e il custode si affrettò a raccontare quali “eroi della montagna” noi fossimo. Gli italiani furono commoventi, ciascuno cavò per noi qualcosa dallo zaino. Nessuna traccia d’odio nazionalistico o d’invidia poco alpinistica. Erano buoni alpinisti, come si desidererebbe incontrarne in ogni paese. Di notte gli italiani partirono per la loro ascensione. Noi invece ci riposammo fino alla mattina inoltrata, poi scendemmo allegramente a Courmayeur.

A Entrèves perdemmo per dieci minuti la corsa di mezzogiorno della funivia per il Colle del Gigante e dovemmo aspettare altre due ore. Hermann si coricò in un prato, accanto a un limpido ruscelletto; io invece non avevo pace e andai in un caffè per bere un grog. Lì udii una signora che leggeva ad alta voce sul giornale il racconto d’una disgrazia sulla Nord delle Grandes Jorasses. “Perdiana”, pensai, “forse parlano di noi!” Proprio come quella volta sull’Eiger, nell’ardore della lotta durata alcuni giorni, ci eravamo completamente scordati che altri uomini erano in ansia per noi. Tutto questo era certamente commovente, ma poteva avere anche spiacevoli conseguenze se un’imponente spedizione di soccorso fosse stata intrapresa, come sembrava fosse il caso. Commisi l’errore di spiegare ai presenti che eravamo noi gli scalatori ricercati. Volevo mettere le autorità competenti a conoscenza del fatto, ma la gente non volle comprenderlo. Appurato dal nostro aspetto e dalle nostre barbe irsute che dovevamo essere proprio gli alpinisti di cui parlava il giornale, fummo immediatamente circondati da una folla di villeggianti schiamazzanti; macchine fotografiche vennero puntate, mentre qualcuno ci spingeva bambini tra le braccia o ce li caricava sulle spalle: fummo fotografati di faccia, di profilo, di dietro, insomma in tutte le posizioni possibili e immaginabili.

1992, quarantennale del Festival di Trento. Da sinistra: Terza fila, 1 ?; 2 Ermanno Salvaterra; 3 ?; 4 Janez Skok; 5 Silvo Karo; 6 Michel Piola; 7 Claude Remy; 8 Igor Koller; 9 Robert Schauer; 10 Andrej Stremfelj; 11 Marko Prezelj; 12 Slavko Svetetič; 13 Miguel Ángel Gallego; 14 Michel Dacher; Seconda fila, 15 ?; 16 Palma Baldo Groaz; 17 Giovanni Groaz; 18 Ines Božič Skok; 19 Heinz Mariacher; 20 Sylviane Tavernier; 21 Christophe Profit; 22 Maurizio Manolo Zanolla; 23 Renata Rossi; 24 Tomo Česen; 25 Giuliano Giongo; 26 Claudio Baldessari; 27 ?; 28 Alfonso Bernardi; 29 Rolly Marchi; Prima fila, 30 Gino Buscaini; 31 Giorgio Daidola; 32 ?; 33 ?; 34 Gino Esposito; 35 Riccardo Cassin; 36 Anderl Heckmair; 37 ?; 38 Bruno Detassis; 39 Cesare Maestri; 40 ?; 41 Kurt Diemberger; 42 Carlo Claus; 43 Armando Aste; 44 ?; 45 Spiro Dalla Porta Xydias; 46 Lothar Brandler.

Ma nessuno volle o poté capire il nostro desiderio d’avvertire l’ufficio-guide di Courmayeur. Andarci di persona avrebbe richiesto troppo tempo, e avremmo perso ogni possibilità di ritornare in giornata al rifugio Leschaux. Perciò prendemmo la funivia delle 14 e salimmo al rifugio Torino. Lì finalmente le guide compresero la nostra situazione e diedero le prime notizie telefoniche a Courmayeur e a Chamonix.

Con la coscienza d’aver compiuto il nostro dovere, scendemmo subito, malgrado la nebbia, al rifugio Requin, sulla Mer de Giace, e da lì, senza indugiare, procedemmo verso la capanna Leschaux che raggiungemmo alle 7 di sera.

Dal ghiacciaio di Leschaux rivedemmo per la prima volta dopo cinque giorni l’intero Sperone delle Jorasses. Misterioso, cupo, completamente ricoperto di ghiaccio nella parte più alta. Il nostro petto non si gonfiò d’orgoglio alla vista di quel profilo gigantesco, e ci sentimmo al contrario piccoli e umili; guardammo la montagna che era stata tanto dura, ma anche tanto misericordiosa con noi, grati per l’immenso favore che il destino ci aveva elargito.

Fuori dal rifugio ci stava aspettando una pattuglia dell’École d’Haute Montagne di Chamonix, che si era preparata per una spedizione di soccorso. Erano stati avvertiti a mezzo radio del nostro arrivo; ci accolsero con cordialità, ci diedero vestiti asciutti e rifecero le fasciature delle nostre ferite. Con particolare attenzione prodigò le sue cure la deliziosa Mademoiselle Flora, custode del rifugio, che potemmo così finalmente conoscere.

Hermann aveva le punte delle dita nere e congelate in modo preoccupante, per cui il comandante della pattuglia, tenente De Montanzan, propose di scendere subito a valle, malgrado fosse quasi notte. Fui subito d’accordo; i cinque uomini si suddivisero i nostri bagagli e il tenente stesso, portando legata sul proprio sacco la nostra corda, prese la direzione della comitiva mentre noi camminavamo senza zaini, come buoni villeggianti dietro la loro guida.

So che cosa voglia dire condurre una carovana su di un ghiacciaio in piena oscurità, e quindi ammirai la sicurezza con cui il tenente, malgrado i giri viziosi causati da molti crepacci, seppe mantenere la direzione giusta. Incocciò al millimetro l’inizio del piccolo sentiero sulla morena: non era semplice “saper fare”, ma vero e proprio istinto, scaturito da un sesto senso, unito a lunga pratica. Al Montenvers fu fatto un tentativo per ottenere un treno speciale, ma per qualche motivo segreto e misterioso non si ottenne nulla e dovemmo proseguire a piedi per altre due ore. Lì trovammo il comandante della Scuola Militare d’Alta Montagna, la moglie e gli amici di Terray e una macchina della Croce Rossa che ci portò subito all’ospedale. Una dottoressa, che aveva perduto il figlio nella guerra contro la Germania, curò con sollecitudine le dita e i piedi di Hermann, e lo fece ricoverare in una sala malati. Io invece non avevo nulla di grave e potei così lasciare l’ospedale e raggiungere la casa dell’amico Terray.

Solo allora mi resi conto di quanto era stato intrapreso per la nostra salvezza. I nostri compagni tedeschi Lobenhofer e Rudi Schreiber, che si trovavano sul posto per caso, s’erano recati già di domenica al rifugio Leschaux e ci avevano cercati in tutti i crepacci alla base della parete, nell’atroce timore di ritrovare i nostri corpi come noi, anni prima, avevamo ritrovato Leo Rittler e Hans Brehm. S’erano resi subito conto dell’inutilità di un qualsiasi tentativo dalla base della parete. Ma avendo creduto di sentire richiami prolungati, che forse provenivano da qualche cordata sul versante italiano, avevano messo in moto l’intera azione di soccorso. Due aeroplani – e in uno di quelli aveva preso posto Louis Lachenal, espertissimo della parete — avevano esplorato a lungo lo Sperone, mentre i migliori scalatori e guide di Chamonix, sotto la direzione di Terray, s’erano precipitati in Italia in tre macchine, con tutto il materiale necessario per tentare l’impossibile dall’alto. Per fortuna fu possibile fermare questa spedizione al Piccolo San Bernardo e gli amici ritornarono a Chamonix quasi contemporaneamente a noi.

Una gioia sincera brillava negli occhi di tutti i componenti, quando li vidi; erano felici che avessimo potuto portare a compimento la salita senza gravi danni. Fu tutto uno stringerci la mano, un rallegrarsi come se fossimo stati veramente dei loro vecchi compagni.

Dopo due giorni Köllensperger poté essere dimesso dall’ospedale. Maurice Herzog ci offrì un pranzo nella sua villetta, e poi ci separammo dai nostri amici, accompagnati dai loro migliori auguri, con il sentimento che la solidarietà alpina non conoscesse effettivamente né nazioni né confini. Fummo accolti entusiasticamente a Ginevra dagli scalatori svizzeri, e poi finalmente facemmo ritorno in patria.

Vorrei che qui fossero ringraziati tutti coloro che presero parte in maniera così commovente e così sincera alle nostre vicende e ai preparativi di soccorso. E se tutto questo ha potuto anche in minima parte servire alla riconciliazione dei popoli, allora il nostro non è stato solamente un successo alpinistico, e ne siamo profondamente felici.

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