Bepi Loss
come lo ha ricordato a Trento il Club Alpino Accademico Italiano – gruppo Orientale, nell’annuale assemblea (6 novembre 2021), presso la sede della SOSAT in via Malpaga. L’assemblea è stata organizzata dal presidente del Gruppo Orientale Francesco Leardi, in collaborazione con Francesco Lamo, Samuele Mazzolini e con il grande contributo dei soci trentini dell’accademico Paolo Loss e Antonio Zanetti, senza dimenticare il contributo fattivo della SOSAT nella persona del suo presidente Luciano Ferrari e di alcuni soci.
Spedizione “Città di Trento” – 1971 – Cordillera Blanca – Ande Peruviane
Giugno 1971. Nove uomini. Nove alpinisti trentini: Giuseppe Bepi Loss, Carlo Marchiodi, Giorgio Salomon, Vincenzo Degasperi, Franco Pedrotti, Marco Pilati, Pierino Franceschini, Bruno Tabarelli de Fatis e Remo Nicolini partono dalla loro città (Trento) alla volta del Perù. Una spedizione alpinistica trentina organizzata dal Gruppo Rocciatori della SAT e patrocinata dal comune di Trento e dalla SAT stessa.
Purtroppo, un tragico incidente, durante la discesa dal Nevado Caraz costerà la vita a due componenti la spedizione, Bepi Loss e Carlo Marchiodi.
Le vicende di questa spedizione, i terribili momenti successivi alla tragedia, la ricerca e il difficile recupero dei corpi sono raccontati in un libro “Nevado Caraz” che vuole essere non solo il ricordo di questa spedizione ma soprattutto il riconoscimento all’unità e all’umanità di un gruppo che ha lottato duramente per riuscire a restituire ai propri cari i corpi dei due amici scomparsi.
Così la ricorda Guido Marini – presidente SAT di quegli anni (dal libro Nevado Caraz – ed. Temi):
“Nove alpinisti trentini partono, il 22 giugno 1971, dalla loro città per il Perù: sono tra i migliori scalatori e vanno a conquistare vette inviolate delle Ande e lasciare lì il nome della loro città – Trento – e del loro sodalizio – la Società Alpinisti Tridentini, che sta compiendo i cento anni di vita. Il Nevado Caraz, una delle vette conquistate, vuole due vittime: Bepi Loss e Carlo Marchiodi. I superstiti interrompono la spedizione per cercare i due scomparsi, che riescono a ricuperare, a portare fino a Lima e di qui a Trento restituendo almeno i corpi alle famiglie. È quanto racconta il libro.Il fatto che questi uomini abbiano passato l’Oceano per scalare montagne meravigliose ed ignote non ha ormai più dell’eccezionale. Ma straordinaria è invece la carica di umanità che dall’episodio scaturisce: due uomini stroncati da quella lontana montagna, sette amici che li cercano tra inumane fatiche, riescono a portarne i corpi a valle e in patria, un’intera città – la loro città – in lutto con le due famiglie e i compagni di cordata!
È questo il profilo che il libro rende meno evidente, ma che invece rende questa spedizione più umana, più viva, più cara a tutti noi.
Il valore più profondo della spedizione è probabilmente questo: dimostrare come il coraggio e l’audacia in uomini di montagna si faccia amore e pietà.”
Gruppo Orientale del CAAI, Trento, 6 novembre 2021
Alle ore 10. 00 il moderatore Marco Furlani introduce il film Bepi Loss, uomo e alpinista, delineandone la relativa figura morale e alpinistica. Il socio Paolo Loss (figlio di Bepi) ricorda con uno scritto molto commovente il padre, parlando delle emozioni riguardo alle ripetizioni delle sue vie e racconta dei suoi ricordi nel momento della sua morte avvenuta nel 1971 (Paolo aveva 8 anni) sul Nevado Caraz, assieme allo sfortunato compagno di cordata Carlo Marchiodi, scomparso nella medesima occasione. Segue la proiezione del film, che si rivela particolarmente intenso e toccante.
Alle ore 10. 45 viene effettuata una pausa e alle 11. 15 Furlani presenta gli interventi dei seguenti relatori, sempre in relazione al trentino Bepi Loss:
– Mario Cristofolini, grazie alla proiezione di storiche immagini B/N, racconta delle sue esperienze e salite con Loss (Spiz delle Roe di Ciampiè, Cima Scotoni e Roda di Vael);
– Vincenzo De Gasperi, con atteggiamento molto misurato, illustra momenti tecnici della spedizione.
– Valentino Chini, in un brillante fuori programma creato da Furlani, parla brevemente ma con intensità della figura del Loss;
– Giorgio Salomon, relaziona sull’uomo e alpinista Loss, ricordando l’aneddoto di un’esilarante esperienza al limite del duello tra Bepi Loss (capomacchinista delle Ferrovie dello Stato) e un camion lungo la tratta Trento-Primolano in Valsugana;
– Il roveretano Sergio Martini, anch’esso fuori scaletta, ricorda le sue esperienze con Bepi Loss;
– Infine Leardi legge un intervento del giornalista Franco De Battaglia che ripercorre il periodo di maggior fulgore alpinistico di Bepi Loss, riportando alcune stimolanti idee sull’interpretazione e il futuro dell’alpinismo.
Ecco, di seguito, alcuni degli interventi.
Una stella cometa di nome Bepi Loss
di Marco Furlani
Indagine sulla profonda traccia lasciata dall’alpinista accademico Bepi Loss nell’ambiente trentino e ritratto storico di uno dei più importanti protagonisti dell’Alpinismo trentino e italiano a 30 anni dalla sua scomparsa.
Durante i miei lunghi vagabondaggi per i monti che tanto amo, quando la mente trova quel sottile equilibrio con lo sforzo fisico liberandosi dagli assilli e volando sulle ali leggere della riflessione, mi è capitato spesso di chiedermi quale sia stato il più bel periodo della storia dell’alpinismo.
Devo dire che ho letto molto in proposito, e ho conosciuto personalmente la maggior parte degli uomini che hanno fatto la storia di questa nobile passione. La risposta non è facile da dare, dopo ripensamenti ed attente riflessioni sono giunto alla conclusione che il momento più ricco e fervido, per gli ideali di libertà amicizia e fratellanza, per la grande avventura che ancora offriva l’ambiente, per la possibilità di riscatto che poteva dare a certe fasce sociali, sia stato il ventennio compreso fra gli anni ‘55 e ‘75.
In questo periodo i concetti di alpinismo classico e acrobatico si fusero dando vita ad uno dei più attivi momenti della storia alpinistica. Nel ventennio suddetto la tecnica artificiale raggiunta, il materiale creato, adattato e messo a punto, uniti al coraggio di alcuni uomini hanno fatto sì che problemi fino ad allora ritenuti impossibili cadessero uno ad uno.
In tutti gli ambienti alpinistici, su tutta la catena alpina, dalle strapiombanti pareti di calcare e dolomia, alle turrite e aggettanti guglie di granito, l’ardimento umano raggiunse l’apice; l’imperativo era salire là dove nessuno era passato prima, in estate o in inverno, da soli o in cordata. Sono stati raggiunti vertici assoluti difficilmente paragonabili e forse per certi versi ancora imbattuti.
L’ambiente trentino annovera fra i suoi figli alcuni dei massimi esponenti di questo ardimento che operarono in quei anni, e, sicuramente, assieme a Marino Stenico e Cesare Maestri, come una cometa che appare all’orizzonte, brilla nel suo massimo splendore e che poi si allontana in una scia di luce spegnendosi, il nome di un altro grande: Bepi Loss.
Bepi, ultimo di una schiera di fratelli sportivissimi, era nato in una zona povera di Trento in via del Suffragio. Prese la passione per l’alpinismo dal fratello più vecchio Vincenzo, già alpinista e uomo di una simpatia travolgente. Ali Pang, questo il nome di battaglia partigiano di Vincenzo, lo avviò prima e moralmente poi sempre lo seguì in tutte le imprese in montagna.
Bepi lavorava in ferrovia, era un bell’uomo dal fisico atletico, iniziò ad arrampicare capendo subito che per raggiungere i massimi livelli bisognava seguire una preparazione atletica specifica e costante; così nel tempo libero era sempre attaccato a qualche parete in palestra a chiodare tetti e strapiombi, ad allenare muscoli e cervello, provando e riprovando sequenze di passaggi in libera. Dotato di notevole inventiva, creava e modificava il materiale assieme al suo gruppo.
Bepi Loss espresse la sua genialità nell’apertura di vie nuove, tutti problemi estetici di bellezza straordinaria, difficili, arditi e risolti con l’uso di mezzi adeguati, non lesinando mai sui chiodi per la sicurezza della cordata, ma mai esagerando, cercando e trovando sempre l’equilibrio fra sicurezza, purezza ed estetica.
Tale comportamento era l’espressione della sua etica, e basta un episodio a dimostrarlo: mentre stava aprendo la via Superdirettissima alla parete sud della Paganella, dopo una serie di difficili tiri, giunto sotto il diedro a tre quarti della parete, Bepi si accorse che la fessura era troppo larga per il materiale a sua disposizione: certo uno come lui sarebbe passato ugualmente con qualche chiodo a pressione, ma fedele ai suoi principi fece ridiscendere la cordata e, costruiti i famosi cunei di legno di grosse dimensioni (ancora in posto), ritornò in parete. Così Bepi risolse il problema in modo impeccabile e in pace con la sua coscienza.
La sua fu una carriera straordinaria fatta di ripetizioni estreme, apertura di vie nuove, prime invernali delle quali cito per tutte la via Lacedelli alla Cima Scotoni, in quegli anni ritenuta la via più difficile delle Alpi orientali e dove anche Messner subì una sconfitta. Morì sulle Ande Peruviane, con la spedizione Città di Trento da lui stesso capeggiata: in un solo colpo l’alpinismo trentino fu privato di due dei suoi figli migliori, Bepi e Carlo, stroncando i loro sogni e quelli del rifiorente alpinismo trentino.
Un’alba nuova stava sorgendo: erano gli albori di quello che poi fu chiamato il Nuovo Mattino, ma lo stupendo gioco chiamato alpinismo era ancora carico di umanità e sentimento, cose che le nuove tendenze, con più attenzione alle prestazioni che ai rapporti fra le persone, dissiparono rapidamente.
Bepi grazie alla sua forte personalità era il volano intorno al quale l’universo alpinistico cittadino ruotava. Instancabile trascinatore, fu uno dei fondatori del Gruppo Rocciatori della SAT. Grandi nomi si legarono con lui, da Marino Stenico ai fratelli Bonvecchio, dal fortissimo Marco Pilati a Romeo Destefani che con Bepi fece il suo apprendistato, a Franco Pedrotti, atleta eclettico e singolare, solo per citarne alcuni.
Era l’inizio: Bepi creava quei presupposti affinché a Trento i più giovani trovassero le basi e gli appoggi per future spedizioni, come già era accaduto a Lecco con il gruppo dei Ragni.
L’idea era bella e nobile, posava su solidi pilastri. Io faccio parte di quella generazione che viene subito dopo, iniziavo ad arrampicare proprio quando Bepi cadeva, lasciando la nazione e il Trentino attoniti.
L’ambiente rimase sconvolto, ripiombò nell’anarchia, ci vollero anni per riorganizzarsi organicamente. Marco Pilati, altro leader, non riuscì a raccogliere il testimone, sempre più assorbito dagli impegni della sua azienda agricola, però dietro a lui premeva già il frutto del suo operato: un’altra pattuglia di alpinisti più giovani. Era gente appartenente un po’ a tutte le fasce sociali, operai come nel mio caso, studenti appartenenti ai ceti medio borghesi come Franco Gadotti, Andrea Andreotti, Giorgio Cantaloni, Marcello Rossi. Tutti indistintamente avremmo sognato un giorno di visitare, magari assieme, altre montagne, altri paesi e culture: purtroppo non doveva essere cosi.
Bepi, che aveva ben seminato, non visse abbastanza per vedere il suo raccolto che è stato abbondante e di grande qualità. Io stesso mi sento frutto della sua semina, sposando in pieno la sua filosofia. Anche se purtroppo non lo ho mai conosciuto, ho ripetuto quasi tutte le sue vie in estate ed anche in inverno e devo dire che le vie Loss non si possono definire solo belle, ardite e difficili: sono soprattutto creazioni supreme. Il suo unico figlio Paolo gli assomiglia nel volto, nel fisico e nella mente, so che ha ripetuto molte delle creazioni del padre rafforzando in me l’assioma che solo il legame fra padre e figlio è l’unica via da percorrere alla ricerca dell’immortalità.
La stesura di questo pezzo mi è stata possibile grazie alla paziente collaborazione dell’amico Franco Pedrotti, compagno di cordata sia di Bepi Loss che mio. A Franco (Ciancio) quindi il mio più vivo ringraziamento.
Ricordo di papà
di Paolo Loss
Parlare del proprio padre per un orfano è una scelta rischiosa perché il legame di affetto tra queste due figure rischia di trasformare il sereno ricordo in stucchevole celebrazione di un rapporto tristemente spezzato.
Accetto tuttavia di ricordare il papà attento a non commettere questo errore e conscio che il mio ricordo di lui è dato da pochi flash vissuti da un bambino di appena 8 anni quando, nel 1971, il mio soggiorno estivo presso la colonia marina di Cervia venne interrotto da un improvviso ritorno a casa che lì per lì ingenuamente interpretai con soddisfazione.
Quell’estate segnata da un grave lutto per la comunità trentina vide perire sulle nevi del Nevado Caraz in Perù mio padre Bepi Loss e Carlo Marchiodi membri della spedizione alpinistica che ha portato il vessillo della città di Trento sulla vetta andina.
Quell’estate vide anche il triste ricordo di un bambino che scrutava dalla finestra il piazzale dei giochi incapace di prendervi parte e ascoltava la canzone Azzurro vivendone i passaggi più tristi.
Questo è forse il momento più vivo e struggente di un rapporto spezzato che in molte occasioni ho rimpianto soprattutto da quando, ormai trentenne, ho deciso di intraprendere l’attività dell’alpinismo anche per riscoprire con essa le emozioni e le sensazioni che avevo sentito riferire al papà ormai scomparso.
Per il resto i miei ricordi del papà si confondono tra gli odori delle corde, dello stagno delle saldature e il ronzio del proiettore che narrava le sue imprese sul muro di casa, palcoscenico di gesta alpinistiche raccontate tra gli amici con cui preparava meticolosamente nuove vie e spedizioni.
Amici come Emilio Bonvecchio, Marino Stenico, Franco Pedrotti, Vincenzo Degasperi, Marco Pilati, Romeo Destefani con cui il papà ha condiviso le fatiche e le soddisfazioni della montagna.
Un papà caparbio e risoluto nel perseguire i suoi obiettivi siano essi alpinistici che di vita.
Con tale tenacia intraprese il percorso di studi per elettrotecnico attraverso gli storici corsi della scuola Radio-Elettra di Torino con l’obiettivo di lasciare il suo lavoro di aiuto macchinista delle ferrovie per svolgere l’attività di tecnico e successivamente aprire un negozio di articoli sportivi, alternando l’attività commerciale a quella di maestro di sci vicina al suo spirito di uomo di montagna.
Anche nelle imprese alpinistiche trasferì la sua tenacia che gli valse l’ambito titolo di Accademico conquistato per aver aperto e ripetuto numerose vie che io ho voluto ripercorrere con il suo ricordo vivo dentro me e il pensiero alle condizioni e ai materiali con cui lui scalava rispetto a quelli che oggi si usano in parete.
Anche qualche momento difficile della sua attività alpinistica mi riaffiora alla mente come il periodo natalizio del 1970 quando ripetendo in prima invernale la via degli Scoiattoli alla Cima Scotoni ebbe un congelamento al piede e passò la vigilia di Natale al pronto soccorso e poi a casa tra i pediluvi in una bacinella con l’acqua tutta viola e lo studio per il corso da elettrotecnico.
Questi sono i fugaci ricordi di un figlio che ha vissuto da orfano il suo rapporto con il padre riscoperto spesso tra gli anfratti della roccia che silenziosa è sempre forte e protettiva come un buon padre.
Ricordo di un grande alpinista e amico
di Mario Cristofolini
Siamo nei primi anni ‘70 e il treno a carbone della Valsugana transitava sulle arcate a sud di Trento di fronte all’ospedale ed in particolare al IV piano dove era collocato il reparto di dermatologia di cui ero stato da poco nominato primario. Quando il treno passava andavo alla finestra a salutare il macchinista Bepi Loss che regolarmente mi mandava dalla locomotiva un paio di fischi. Quei fischi volevano ricordare l’appuntamento di fine settimana per andare ad arrampicare.
Bepi era un guidatore di treno un po’ spericolato: sul rettilineo di Ospedaletto aveva ingaggiato una gara con un camion che procedeva sulla strada parallela e per questo era stato poi rimproverato dal capotreno.
Ho arrampicato legato alla corda di numerosi alpinisti trentini alcuni famosi quali Cesare Maestri, Marino Stenico, Catullo Detassis, Donato Zeni, Franco Pedrotti (Ciancio) e soprattutto Bepi Loss: erano come quasi tutti i trentini rocciatori amanti delle pareti verticali e strapiombanti che guardavano con sospetto i ghiacciatori.
Gli arrampicatori esperti hanno stili diversi ma che, è una mia opinione, possono essere sintetizzati in due categorie: quelli di braccia e quelli di gambe.
Quelli di braccia sono fisicamente molto forti e in quel momento storico erano molto propensi all’utilizzo di attrezzi artificiali: chiodi a pressione, staffe, ecc.
Cesare Maestri era un fuoriclasse e utilizzava abbondantemente chiodi e staffe anche se le sue più belle imprese le ha realizzate in solitaria e in arrampicata libera e soprattutto in discesa. Basti pensare alla discesa dalla via delle Guide al Crozzon di Brenta o dalla Diretta della Parete Rossa della Roda di Vael.
Prototipo degli arrampicatori di braccia ed esperto in tecniche artificiali è stato Bepi Defrancesch, che in una conferenza affermò come durante la salita di Italia ‘61 al Piz Ciavazes, una via piena di tetti e strapiombi, fosse stato costretto a deviare a destra: “perché le difficoltà erano troppo grandi?“ gli fu chiesto. “No – rispose “perché era troppo facile andare dritti”.
Gli alpinisti di gambe sono più eleganti e pare danzino sulla roccia come i Detassis, Marino Stenico, Carlo Sebastiani detto Topo e Ciancio Pedrotti.
A volte sono un po’ “gigioni” come il francese Gaston Rébuffat: normalmente in roccia non bisogna incrociare le gambe ma lui le incrociava dicendo che quello era un “Gaston”. Anche Bepi a volte si divertiva a fare quel passo durante le salite dicendo: attento, adesso faccio un “Gaston”.
Bepi era un rocciatore di braccia ma aveva un grande rispetto per la montagna, non era un fanatico delle salite in artificiale, cercava sempre di sfruttare le asperità e le fessure della roccia.
Ogni grande scalatore mette la sua firma nelle vie che traccia: quelle di Bepi sono potenti, dirette e rispettano le caratteristiche della parete, ne sono dimostrazione i numerosi cunei di legno che lui stesso costruiva adattandoli alle fessure della roccia. Sono salite molto impegnative su pareti inviolate come la via sulla Sud-est della Paganella, le due vie sulla fiamma gialla della Torre Innerkofler, le due vie sul Castello di Vallesinella, e la Diretta Bonvecchio sulla Pala di San Martino.
Poi le 12 cime inviolate nel Kurdistan. Con la spedizione del CAI di Bolzano durante la quale, per cause politiche (il Kurdistan non esisteva per il governo turco), la spedizione e Bepi in particolare furono imprigionati ed anche picchiati.
Bepi era anche un amico generoso e mi permetteva di scegliere salite non estreme sulle quali ero un buon secondo veloce e senza paura del vuoto. Come me era felice di salire vie con caratteristiche originali in vari gruppi dolomitici. Così salimmo la Morte obliqua sulla Torre Murfreid, lo Spigolo del Velo della Cima della Madonna, la Kiene delle Cinque dita, il diedro Andrich della Torre Venezia e altre. Ma soprattutto con lui saldai il conto con il Campanile Basso salendo la Fehrmann, la Preuss, lo spigolo Fox e lo spigolo Graffer.
Tei, ti l’hat fat el Bass? Era la domanda ai giovani aspiranti rocciatori perché se non avevi fatto “el Bass” non eri nessuno. Io a 17 anni ci avevo provato con un amico e con una corda troppo corta, ma all’attacco della parete Pooli ero stato cacciato via con decisione da Bruno Detassis, “con quella corda no se va sul Bass!“.
Poi, su provocazione del prof. Ernesto Carafoli, che diceva essere il Campanile di Val Montanaia più bello del Bass, convinsi Bepi ad attaccare gli strapiombi nord del Campanile famoso per la polemica tra il CAI e l’alpinista-scrittore Severino Casara che aveva affermato di aver salito gli strapiombi da solo e scalzo, ma non venne creduto.
Bepi, ma anche Ciancio, ci provarono ma alla fine dovettero piazzare una staffa e così uno alla volta utilizzando quell’attrezzatura artificiale salimmo tutti per discendere poi con una lunga corda doppia che si incastrò in un sasso. Bepi con disinvoltura si aggrappò alle corde e salì tutti i 40 metri a braccia per sfilare la corda e farla scorrere e quindi recuperarla.
Durante le nostre salite Bepi mi diceva sempre: schioda più che puoi perché ho bisogno di fare incetta di chiodi per fare le mie vie nuove e i chiodi costano troppo. Così io durante le scalate levavo i chiodi di progressione lasciando solo quelli di sosta.
Un giorno però eravamo sul Castelletto inferiore del Tuckett quando vidi un bel chiodo con anello: lo indicai a Bepi che disse “prendilo, mi serve”. Quando discendemmo fummo investiti dalla guida alpina Dalla Giacoma che ci rimproverò aspramente affermando che quel chiodo era necessario alle guide per la sicurezza dei loro clienti.
Mentre io rimanevo senza parole Bepi con una velocità incredibile ritornò con il chiodo sul Castelletto e lo reimpiantò nella sua sede.
Non dimenticherò nemmeno la salita sullo spigolo del Cimon della Pala quando fummo investiti da una terribile tempesta di neve: la roccia era tutta coperta di ghiaccio ma Bepi, seppur con estrema lentezza e prudenza, dopo ore riuscì a riportarci sulla cima e quindi discendere dalla via normale. Arrivammo tutti bagnati a mezzanotte a San Martino di Castrozza. Nel frattempo Margherita, mia moglie, preoccupata aveva chiamato nella notte Marino Stenico, ma lui aveva detto “se è con il Bepi non ci sono problemi“ e si guardò bene dal chiamare il soccorso alpino
In quel periodo tutti gli scalatori ambivano a partecipare a spedizioni extra-europee: le mete preferite erano l’Himalaya e la Patagonia.
Fu così che pensammo, insieme a Ulisse Marzatico, di aiutare Bepi nel suo sogno di salire una montagna fuori dall’Europa con una spedizione tutta trentina: la Spedizione Città di Trento.
Ulisse, gran personaggio intellettuale ambientalista autore di numerosi scritti e polemiche sulla difesa della montagna, si appassionò alla vicenda e con un po’ di ritrosia e tanta paura venne con noi in cordata sulla Paganella: fu il suo battesimo sulla roccia.
Bepi era affascinato dalla bellezza dell’Alpamayo, una piramide di roccia e ghiaccio perfetta situata in Perù nella Cordillera Blanca. Ne parlammo anche con l’amico alpinista Celso Salvetti, che era emigrato a Lima ed era proprietario di una fabbrica di attrezzi metallici: egli ci consigliò di salire anche su una cima vergine di 6025 metri: il Nevado Caraz per dedicarla al centenario della SAT.
Il capo spedizione era Bepi Loss e, poiché il Nevado Caraz era in gran parte coperto di ghiaccio, chiese di essere affiancato dal ghiacciatore esperto Carlo Marchiodi, uomo di punta della SOSAT, ottimo rocciatore ma soprattutto autore di salite sul ghiaccio del Monte Rosa, del Monte Bianco e della Presanella.
Ulisse si diede da fare nell’organizzazione ed ebbe la brillante idea di stampare 5.000 di cartoline del Nevado Caraz che vennero firmate dai componenti della spedizione, vendute a 1.000 lire l’una e infine spedite dal Perù.
Il reperimento di fondi per sostenere l’impresa non fu molto facile perché la SAT, la SOSAT e le altre associazioni alpinistiche non avevano grandi disponibilità economiche. Numerosissimi furono gli enti trentini ma anche i singoli che parteciparono alla raccolta di fondi.
Fui chiamato un giorno da un amico alpinista che mi chiese di andare a casa sua. Lì incontrai un importante esponente politico che in quell’occasione mi consegnò un pacchetto contente 6.000.000 di lire dicendomi: “questi sono per la spedizione di Trento”. Chiesi se dovevo firmare una ricevuta ma lui disse “non se ne parla neanche”. Così la spedizione poté partire con prima meta Nevado Caraz e seconda meta l’Alpamayo. Le notizie della spedizione erano tranquillizzanti, ma una notte Azio Donati, il radio-amatore di Mezzacorona che teneva i rapporti con la spedizione, mi diede la triste notizia che dopo aver raggiunto la vetta Bepi e Carlo erano caduti. Pochi giorni dopo da Lima mi arrivò la cartolina con la firma di tutti i partecipanti alla spedizione, con quella di Bepi che mi salutava con un grande CIAO.
Encomiabili furono i componenti della spedizione che con l’aiuto di Celso recuperarono le salme e le riportarono a Trento. Grande fu l’emozione in città e grande la partecipazione ai funerali. Sono passati 50 anni ma in me il ricordo rimane, specie quando passa il treno, che però non fischia più.
In spedizione
di Giorgio Salomon
Negli anni Sessanta per il giornale Alto Adige seguivo le imprese alpinistiche, in Trentino, di Bepi Loss ed Emilio Bonvecchio. Ovviamente fin dove arrivavano le mie possibilità e non erano tante. Con amicizia e con fare serafico ma deciso, Bepi mi aveva portato a fare qualche via: una volta in Paganella con Cristofolini, Pedrotti, Bonvecchio, Pisoni e Marzatico; una volta sulle Torri del Sella, in Brenta, e sulla Pala di San Martino dove ci sorprese un temporale con fulmini. Avevo i capelli dritti come i pali della luce ma non ho mai smesso di ringraziare Bepi per la generosità e il desiderio di condivisione che mi ha legato a lui.
Quando è nata mia figlia Giorgia, ho organizzato una serata a casa mia con amici di arrampicata. In quell’occasione, Bepi, con il solito fare diretto, mi aveva offerto la possibilità di girare delle immagini e fare alcune foto nella spedizione in Perù che stava organizzando. Decisamente una grande sfida che non ho potuto non accettare. All’indomani mi sono recato in ospedale per dare la notizia a mia moglie. Certo, per lei non era stata una bella notizia visto che nostra figlia aveva solo due giorni. Ancora oggi parlare di Perù in famiglia crea qualche fastidio.
Dopo l’entusiasmo del primo momento, a Bepi era sorto un dubbio sulla proposta fatta. Io non avevo esperienza di filmati in alta quota. Anche questa volta, l’amicizia che ci legava, aveva spinto Bepi a incoraggiarmi. Da un giorno all’altro mi sono ritrovato con lui in Brenta a fare una ripresa lungo il Canalone Neri. Ricordo ancora che, arrivati all’attacco avevo confessato a Bepi di non avere i ramponi. Lo vedo ancora osservarmi con quello sguardo severo che infondeva fiducia, affidamento e stima, rassicurarmi dicendomi che ero legato a lui e non mi avrebbe mai mollato. Dovevo solo pensare a fare il film della salita. Tutto era andato bene e mi sono trovato a fare parte ufficialmente della spedizione.
Mi aspettava un’impresa, ed ecco l’attrezzatura che avevo: una Bolex 16 millimetri, una Nikon con due obiettivi, un teleobiettivo, una Leica, trenta bobine 16 millimetri e una quarantina di rotoli bianco e nero. Giacca, piccozza, duvet mi erano state prestati dal fotografo Luciano Eccher. Io e Bepi siamo partiti un paio di giorni prima per avere il tempo di sorvolare il Nevado Caraz. Avevamo affittato un vecchio Fokker bimotore. Arrivati sui 4 mila metri, il motore di sinistra aveva cominciato a sputare olio. Il pilota, dopo una forte virata, era sceso in picchiata verso l’aeroporto. Anche in questa occasione la fermezza di Bepi e il piacere per l’avventura ci aveva uniti. Raggiunti dal gruppo siamo partiti per la spedizione: 600 km in macchina sulla Panamericana e poi avanti a piedi. Arrivati in cima alla montagna, si vedeva la valle dell’Achebrada Santa Cruz: lo spettacolo del paesaggio aveva creato in noi le prime suggestioni. Le pareti di questa stretta e lunga valle riportavano i segni del tragico terremoto che l’anno prima aveva causato centomila morti nella provincia di Huaraz. La forza inarrestabile della natura ci aveva colpito.
Una volta arrivati al campo base, ho cominciato a guardarmi in giro munito di fucile da caccia. Mi sono imbattuto in una capanna di sassi e paglia da dove era uscito un vecchio e i suoi tre figli. L’incontro non era stato dei più felici. L’anziano indio, alzando le mani in aria con un fucile ad avancarica, mi aveva detto: “Gringo, tu tienes la tu sciopeta ma io tingo la mia”. Sembrava una minaccia, ma con il tempo siamo diventati amici, anzi, si è rivelato prezioso e ci ha aiutati ad assoldare i campesinos per il recupero dei morti. Il resto è storia.
Io sono andato con Degasperi, Pilati, Tabarelli e Nicolini alla Cima Centenario mentre Bepi, Marchiodi, Pedrotti e Franceschini al Nevado Caraz. Arrivato quasi alla Cima Centenario mi si era tranciato un rampone. Erano i primi ramponi ad aggancio veloce, ma difettosi e poi ritirati dal commercio. Così ho dovuto scendere al campo 1. Proprio lì, ho visto arrivare Pierino Franceschini ed ero sorpreso perché avrebbe dovuto essere con Bepi: ma non si sentiva bene e stava rientrando al campo base. Parlando con Pedrotti via radio, avevo deciso di andare al campo 2. Sbagliando percorso, mi ero ritrovato in mezzo a crepacci mentre si faceva notte. Non volendo rischiare sono rimasto a dormire nel saccopiuma dove mi trovavo. Nell’oscurità notavo i segnali di luce di Pedrotti che mi cercava. Ed è stato così che ci siamo ritrovati. L’indomani, con il portatore Janac, siamo andati incontro a Bepi e Carlo certi di rivederli. Continuavamo a chiamarli senza ottenere risposta. Pedrotti si era convinto che, visto il brutto tempo, erano scesi dall’altro versante e così siamo tornati al campo base. Poi arrivò la tragica notizia.
Bepi, prima di partire, mi aveva chiesto di girare poco perché la pellicola doveva servire per l’Alpamayo. Alla fine, mi sono trovato con poco girato, così ho puntato tutto sul recupero dei corpi, cosa sicuramente non piacevole né per me né per i miei compagni. Le salme sono state trasportate a spalla da sette campesinos che a turno si davano il cambio. Venti minuti di cammino, dieci di riposo, mangiando foglie di coca e calce in polvere. Così per due giorni. Il resto è cronaca.
Sono passati 50 anni da quel tragico evento, ma il ricordo di Bepi e Carlo è sempre presente. Non dimenticherò mai la simpatia e l’amicizia che mi ha legato a Bepi.
1971, Nevado Caraz
(e come è cambiato l’alpinismo trentino)
di Franco de Battaglia
Il Nevado Caraz, nel 1971, con la morte di Bepi Loss e Carlo Marchiodi, i più forti alpinisti trentini su roccia e su ghiaccio in quegli anni, ha spezzato due vite umane, con gli affetti di famiglia e di amicizia che le circondavano, ma è stato soprattutto un trauma collettivo per Trento. La sciagura sul Seimila andino ha travolto la percezione stessa della montagna, dell’affrontarla ed anche del narrarla. E’ una condizione che si è verificata spesso nella storia, a partire dalla grande tragedia del Cervino che ha radicato nella pubblica opinione l’incubo di una montagna ostile e vendicativa. E’ stato così anche nel Trentino, e basti pensare all’impatto non solo emotivo, ma di “svolta”, provocato da alcune tragedie che hanno colpito i più completi e amati alpinisti, spezzando così le attese (e anche i sogni) di una comunità che nella montagna si riconosceva. Alcuni nomi vanno ricordati: Pino Prati sul Campanil Basso nel 1927, i quattro giovani, due ragazzi e due ragazze, sulla Vedretta dei Camosci nel 1950, Giulio Gabrielli sulla Sud della Marmolada nel 1959, Fabio Stedile sul Cerro Torre nel 1994. Lo stesso Messner capì che avrebbe potuto affrontare gli Ottomila senza ossigeno dopo essere sopravvissuto, fra i ghiacci per giorni, alla morte del fratello Günther sul Nanga Parbat nel 1970.
Fino agli anni Settanta l’alpinismo trentino aveva un’impronta corale. Si andava in montagna insieme, ci si legava alla stessa corda. Nei rifugi la sera si cantava prima di affrontare all’indomani la parete. In Bondone, per lo sci, si saliva in corriera e al ritorno ci si trovava a bere una birra alla Forst. Gite e spedizioni venivano spesso programmate ai tavoli della Scaletta.
Anche il Nevado Caraz nacque così e Mario Cristofolini, che ne fu il principale promotore assieme a Ulisse Marzatico, può testimoniarlo. Le spedizioni non erano solo “macchine organizzative” per raggiunge una cima lontana, erano soprattutto occasioni per mettersi in gioco ed esplorare il mondo. La “marcia di avvicinamento” (ora “bruciata” da aerei e suv) faceva conoscere popolazioni di cui si sapevano solo i nomi, gli Sherpa, gli Hunza, i più introversi Indios andini. Una “spedizione” era il sigillo che mancava all’alpinismo trentino, con la sua lunga storia dai pionieri al sesto grado, e chi ha vissuto quegli anni ricorda il fervore corale, e l’impegno anche materiale di tanti per organizzare e sostenere la spedizione al Caraz, quasi partecipandovi idealmente.
Finì, come è noto, in tragedia e nulla fu come prima.
Chi aveva partecipato tornò ferito nell’animo e chi aveva organizzato si sentì quasi in colpa. La tragedia ebbe l’effetto di una gelata sulle prime gemme di un frutteto che non si schiusero più. Non ci furono più spedizioni. Il mondo alpinistico perse la sua “coralità”, si serrò in se stesso e si rivolse ad exploit individuali. Si affermarono le spedizioni commerciali dove ognuno partecipava per proprio conto. E moriva anche, per proprio conto. L’individuo, l’ego, la “performance” si posero al centro. La tragedia fu uno spartiacque anche di tempi che cambiavano, e il simbolo ne resta il film Solo proiettato proprio in quegli anni al Festival della Montagna. Il nuovo alpinismo californiano portava exploit di individualismi e ardimenti insieme ben diversi dalle “solitarie” di Cesare Maestri. Le difficoltà erano sempre più estreme, ma diventavano sempre più difficili da percepire (nono, decimo grado…) gli exploit apparivano meravigliosi, destavano ammirazioni, ma non sapevano muovere emozioni. Di fatto l’attenzione verso l’alpinismo si richiuse a nicchie specializzate.
E il Trentino? La tragedia del Caraz insegnò forse all’alpinismo e agli alpinisti trentini (ed è impossibile qui ricordarne i grandi nomi e soprattutto la generosità e la solidarietà – rimasta come profondo imprinting territoriale e sociale del loro stile) ad insistere sulla preparazione anche psicologica, li introdusse in un contesto globale, ma l’alpinismo non era più il portabandiera di un visione del mondo. La montagna diventava terreno di gioco e d’impresa, non era più espressone di un’anima condivisa e di una libertà comune.
E’ stata una lunga traversata quella di questi anni sulle vette e fra i ghiacciai (che rapidamente vanno scomparendo), anche frastagliata. Che ha dato libertà ad ognuno di scegliere il proprio orizzonte alla ricerca di una sorta di “monte analogo” in un arcipelago di “isole verticali”, ma ha perduto un significato comune.
L’impressione, peraltro, è che questa traversata si stia esaurendo e il segno viene non tanto dal fatto che non basta il “sempre più difficile” per motivare l’alpinismo, ma dalla decisione di considerare l’arrampicata uno sport, da inserire nelle specialità olimpiche. Ma l’alpinismo non è e non può essere uno sport, anche se ha una base sportiva alla base della sua preparazione. L’alpinismo è completezza fra immaginazione, fisicità, natura, equilibrio per vincere se stessi. Lo sport oggi è business, evento, spettacolo mediatico. Tutto legittimo, ma è “altra cosa”. Una medaglia non è la bandiera di un ideale da portare in cima, come volevano gli uomini del Caraz con i gagliardetti di Trento e della SOSAT.
Una stagione volge al termine, ma contemporaneamente si affacciano nuove realtà, nuovi volti, nuove occasioni. Le portano i giovani che stanno riscoprendo, nell’alpinismo, “altri” modi di vivere la montagna, che la immaginano e la propongono a chi la sale assieme a loro, anche con umiltà. Sono giovani che rilanciano il ruolo fondamentale della “guida alpina” come esperienza da condividere con clienti diventati amici e non “prenotati” in un ufficio turistico, giovani che interpretano l’alto riconoscimento di una nomina accademica come impegno, innanzitutto, di stile personale nel percorrere, studiare e difendere una montagna libera. E’ questo – pare di intravvedere – il “nuovo alpinismo”.
Oggi ricordiamo il Nevado Caraz per questo. Non lo commemoriamo nella sua tragedia, ma lo prendiamo come avvio, nell’umanità e coralità che l’ha riscattata, di una nuova fase dell’alpinismo trentino. I giovani devono poter portare nel loro zaino la gioia e la speranza con cui quella spedizione è stata preparata, la tristezza infinita che la caduta dei suoi due uomini ha provocato, il riscatto sulla montagna che ha promosso. Oggi l’alpinismo ha bisogno di riprendere coralità. Di tornare in montagna insieme, di superare le difficoltà insieme. Ricordiamo il Caraz per ripartire dal Caraz.
Franco de Battaglia, Trento 1943, giornalista e scrittore, è socio CAI-SAT dal 1961. Allievo della Scuola di Roccia Giorgio Graffer è componente del Direttivo di TrentoFilmFestival della Montagna. E’ stato direttore dei quotidiani Alto Adige di Trento e Bolzano e del Corriere delle Alpi di Belluno. Fra i suoi libri, editi da Zanichelli, Il Gruppo di Brenta, Lagorai e naturalmente l’Enciclopedia delle Dolomiti, scritta assieme a Luciano Marisaldi.
Le vie di Bepi Loss
di Mario Cristofolini
Nato a Trento il 14 marzo 1936 conobbe molto presto le fatiche di operaio nelle officine delle ferrovie statali. Qui faticando nel riparare locomotive e vagoni si costruì un fisico notevole, una potenza di cui era consapevole e sapeva valutare soprattutto nei momenti cruciali.
A 19 anni, socio della SAT, si avvicinò alla montagna ed in breve tempo divenne il migliore esponente dei giovani alpinisti trentini.
Elencare le sole vie estremamente difficili percorse da Loss dal 1955 al tragico luglio 1971 sarebbe troppo gravoso: basti pensare che egli salì oltre 100 itinerari di VI grado come capo-cordata.
Membro del Club Alpino Accademico Italiano ed Istruttore Nazionale di roccia, la sua passione per i monti era seconda solo all’affetto profondo che lo legava alla sua famiglia.
Era consapevole dei pericoli della sua attività in roccia: non fu mai imprudente né arrischiò volutamente la sua vita. Questo in sintesi il suo credo: «Non c’è montagna che valga la vita del Bepi».
Così lo avevamo visto più volte tornare anche quando era a pochi tiri di corda dalla soluzione di un nuovo itinerario, quando tornare significava rinunciare ad una impresa clamorosa, come dal Gran Vernel, dalla direttissima della Paganella, dalla Innerkofler. Tornava tranquillo senza scene né drammi, cercando di scagionare il compagno di cordata che era stato la causa seppure involontaria del ripiegamento; tornava quando la soluzione tecnica della sua impresa non lo soddisfaceva o perchè l’itinerario era illogico o perché richiedeva troppi mezzi artificiali.
Nella arrampicata trovava il modo di esprimere la sua carica di gioia, di esuberanza fisica come un artista che sente la sua opera. Le sue vie nuove rispecchiano la sua etica di alpinista: logicità di itinerario, uso limitato di mezzi artificiali, proprio quando non se ne può fare a meno.
Non itinerari a goccia d’acqua, colabrodi di fori trapanati, rosari di chiodi a pressione, ma vie in fessure naturali, in pareti aeree dagli appigli piccoli ma sicuri, vie intraviste durante precedenti ascensioni, studiate alla ricerca della traccia che la bizzarria della natura aveva indicato. E come un artista si ricorda per le sue opere d’arte, così ricordiamo Bepi attraverso le sue imprese più prestigiose.
Dallo scalo ferroviario Bepi nelle pause del lavoro osservava la vertiginosa parete che incombe sulla Val d’Adige. Più volte salendo con la funivia ha intravisto una serie di fessure strapiombanti, traccia naturale mai percorsa. Con il fratello Fabio e Bruno Tabarelli attacca la parete ma si ferma dopo due giorni alla base delle fessure troppo larghe per essere utilizzate con i cunei normali.
Bepi nella relazione della salita scrive «mi ripugna ferire coi chiodi a pressione questo tratto di parete che permette una arrampicata ben più entusiasmante sfruttando la fessura naturale». Così tornato silenziosamente a Trento si fabbrica i cunei «giganti» e con 13 di questi la settimana dopo vince la parete.
1966: Torre Innerkofler. La parete Sud «la fiamma gialla» che sovrasta l’alta Val di Fassa è stata vinta nella sua parte destra dal grande arrampicatore berlinese Hasse. Al centro Loss intravede una piccola fessura. Con il fedele Milio Bonvecchio la supera in 17 ore consecutive di arrampicata. Non contento col solito Bonvecchio e con De Stefani traccia sulla stessa parete in mezzo ad una bufera di neve, un altro elegante itinerario seguendo un diedro intravisto nella precedente impresa. Durante questa salita un compagno non sta bene. Bepi a pochi metri dalla vetta desiste dalla salita, ritorna a valle adducendo come causa il peggiorare del tempo.
Pochi giorni dopo termina con gli stessi amici l’itinerario.
1968: Castello di Vallesinella. Sulla parete nord-est Loss traccia due vie di sesto superiore. Il primo itinerario tracciato nella nebbia non lo soddisfa del tutto, perciò 7 giorni dopo risale la parete attaccando la più logica fessura centrale. Sono le salite della polemica con il Maestri: Loss ha un carattere duro, non diplomatico ed è facile lo scontro con Cesare, uomo anch’egli puntiglioso e di temperamento orgoglioso. Ben presto comunque la disputa s’acqueta: in montagna c’è posto per tutti ed è facile tra alpinisti fare la pace. Del resto Bepi nonostante le impennate ha un cuore d’oro: lo dimostrò più volte in operazioni di soccorso.
1969: Pala di S. Martino, parete ovest. La via diretta viene dedicata a Settimo Bonvecchio, accademico del CAI, fratello di Milio, il fedele compagno di cordata di Loss. È lunga 780 metri, quasi tutto VI superiore ed è un itinerario più volte tentato da scalatori di varie nazionalità. Bepi lo considerava il suo capolavoro; impiegò a superarlo 3 giorni con 10 cunei, 150 chiodi normali e 80 a pressione.
1970: è per Loss un anno importante: il CAI Bolzano lo chiama a far parte della spedizione Kurdistan 70. Nella lontana Turchia i componenti della spedizione ed in particolare le due punte di diamante Loss e Guerrino Sacchin conquistano ben 12 vette inviolate ed una di queste è dedicata allo scomparso Emilio Bonvecchio. Milio era caduto l’anno prima sulla Sud-Ovest del Croz dell’Altissimo battendo il capo contro un malaugurato spuntone. Morì su una stretta cengia tra la disperazione di Bepi e di Franco Pedrotti. Loss era rimasto come folgorato da questa morte non causata da imprudenza né da imperizia, ma da pura fatalità. Vedendolo scendere sulla seggiovia del «Pradel» rannicchiato vicino alla barella con il corpo inanimato dell’Amico suo più caro, del suo compagno di cordata, pensavo che avrebbe rinunciato per sempre alle grandi salite. Ma la gioia di sentirsi padrone del proprio fisico, l’emozione di superare con tranquillità passaggi delicati, il desiderio di tracciare nuovi itinerari, di vedere nuove montagne lo avevano soggiogato ancora una volta.
Aveva ideato e realizzato la spedizione delle Ande Peruviane lavorando a lungo la sera, preparandosi scrupolosamente, allenandosi coscienziosamente (si pensi alla 1a invernale sulla Cima Scotoni). Era partito verso la Cordillera Bianca con l’augurio di tutti i suoi concittadini, quegli stessi che mesti lo hanno poi accompagnato all’ultima dimora.
Agli amici, ai compagni, a chi lo conobbe rimane come ricordo indelebile la sua risata spontanea, il suo carattere duro e a volte testardo senza compromessi, senza falsità, la sua amicizia franca e sincera, il desiderio di migliorarsi, di sentirsi migliore, il suo affetto per la famiglia e il suo amore sfortunato per la vita.