El Fitz Roy
(Cuadernos patagonicos n. 4)
di Giuseppe Miotti
(pubblicato in spagnolo nel 1991 a cura della Techint)
Il Fitz Roy
Nella Cordigliera della Patagonia ci sono numerose montagne belle e imponenti. Ognuna di esse potrebbe attirare gli sguardi degli alpinisti e costituire, con le sue pareti e spigoli, un problema per molti anni. Tuttavia, l’esplorazione di queste vette è ancora nelle sue fasi iniziali, soprattutto a causa della grande distanza da comodi punti di appoggio. È proprio quest’ultimo fattore che negli ultimi anni ha reso famosa la regione del Fitz Roy e del Cerro Torre, e solo per questo le pareti delle due più famose montagne della Patagonia sono state scalate su tutti i versanti. Sebbene nei nostri Quaderni ci siamo occupati prima del Cerro Torre, per accuratezza storica e cronologia andina avremmo dovuto iniziare facendo riferimento al Fitz Roy.
È una delle architetture granitiche più impressionanti della terra e una delle vette più belle in senso assoluto. La sua piramide rocciosa, così perfetta, è visibile per molti chilometri prima di raggiungere le sue pendici: la sua armoniosa snellezza, che parte dai bianchi ghiacciai sparsi ai suoi piedi; il suo gioco di nascondersi tra le nuvole, ora dense e grigie, ora vaporose ed eteree, ha fatto sì che davvero possa rappresentare per molti alpinisti “la montagna ideale”. Per tutti i suddetti motivi, il Fitz Roy è la montagna più ricca di storia della Patagonia e sicuramente anche una delle vette più scalate dagli alpinisti che operano in quella regione. La nostra montagna si trova sul margine orientale della Cordigliera e, con molte altre vette minori, forma un gruppo distinto che si trova tra 49° 15′ e 49°20′ di latitudine sud.
Le rocce vulcaniche che formano queste montagne, così come quelle del vicino gruppo del Cerro Torre, sono chiare dioriti e tonaliti. Sono il risultato di enormi processi di intrusione avvenuti circa dodici milioni di anni fa.
Le rocce intrusive erano inizialmente ricoperte da una sorta di rivestimento roccioso più morbido che è stato successivamente rotto ed eroso nel corso del tardo Miocene, processo che è proseguito in epoche successive. Un tale fenomeno è ancora oggi visibile nel gruppo del Paine, dove molte montagne granitiche hanno ancora una calotta nera di scisti che ne ricopre la sommità. Come una sorta di sentinella, avanguardia di un esercito di vette, il Fitz Roy si affaccia sulla pampa e, con la sua possente mole, sembra voler scoraggiare tutti i curiosi che vorrebbero addentrarsi nel suo mondo di ghiaccio e rocce. Dietro di loro si trova il misterioso mondo dello Hielo Continental Sur, uno dei più grandi ghiacciai del globo. Data la sua posizione avanzata, è probabile che la nostra vetta fosse già conosciuta molti anni prima di essere ufficialmente “scoperta” dal mondo occidentale. Sicuramente gli indiani Tehuelche, nelle loro migrazioni, avevano osservato quell’imponente ago roccioso molti anni prima dell’arrivo dell’uomo bianco, senza che si possa sapere con precisione quanti, ma di certo molti anni prima. Mentre attraversavano la pampa, fermandosi intorno alle rive del grande Lago Argentino, gli indigeni avevano visto quelle montagne spesso avvolte da dense masse di nuvole e inoltre, nelle giornate più serene, avevano osservato come i vapori bianchi venivano deviati nella parte superiore sotto l’azione di forti venti. Scambiando le nuvole per fumo, i Tehuelches avevano pensato che lassù ci fosse un grande vulcano, o forse più di uno.
Tuttavia, come spesso accade con molti toponimi, c’era chi pensava che questo nome fosse troppo poco importante e indegno per apparire su una mappa e così il povero Chaltén ha visto cambiare il suo nome. A questo proposito, si può notare che, probabilmente, questa è stata una delle prime montagne del mondo a subire un destino così poco dignitoso.
Intorno agli stessi anni, il Chomo Lungma (Divina madre delle nevi o Dea madre della terra) e il Chogori (Grande montagna) cambiarono i loro nomi per diventare l’Everest e il K2, molto meno poetici. Cerchiamo quindi di ripercorrere la storia di El Chaltén dal giorno in cui il primo uomo bianco ha visto il suo profilo.
Tutte le informazioni collocano la prima ricognizione intorno al 1782, data in cui Don Antonio Viedma, dopo aver fondato il porto di San Julián, organizzò una spedizione per entrare nell’interno del territorio. Seguendo il corso del fiume Chalía, Viedma raggiunse il grande lago che oggi porta il suo nome e, lungo la sponda settentrionale, vide la montagna. Così lo descrive nella sua relazione: “In fondo a questa insenatura (del lago) ci sono due pietre a forma di torri, senza neve, una più alta dell’altra, le cui punte aguzze superano in altezza tutte le altre montagne vicine, e gli indigeni le chiamano “Chaltén”. Nonostante molti riconoscano il Cerro Torre nella seconda delle due “pietre”, si è portati a pensare che Viedma si riferisse a quell’altrettanto graziosa vetta, che si trova immediatamente a sud di El Chaltén e che oggi è conosciuta come Aguja Poincenot.
Il secondo uomo bianco a vedere la montagna fu Robert Fitz Roy, capitano della spedizione di studio promossa dall’Ammiragliato britannico per l’osservazione e il rilievo delle terre magellaniche. Nel corso di un’esplorazione, Fitz Roy, al comando di tre baleniere, seguì il corso del fiume Santa Cruz con l’intenzione di raggiungere il Lago Argentino. Dopo circa trecento chilometri, la spedizione fu costretta ad arrendersi quando l’obiettivo era a portata di mano. Tuttavia, fu proprio in prossimità del punto massimo raggiunto che il capitano inglese poté intravedere la montagna che avrebbe poi preso il suo nome.
Fu l’esperto argentino Francisco Pascasio Moreno a rendere questo omaggio obbligatorio a uno dei più grandi esploratori delle terre magellaniche. Inviato dal governo del suo paese per determinare i limiti tra Cile e Argentina, l’esperto Moreno scoprì il grande lago San Martín e, tornando al lago Viedma, percorse la valle del Río de las Vueltas, dominata nel suo corso inferiore dal massa di El Chaltén, che in quell’occasione cambiò nome in Cerro Fitz Roy.
In questa pubblicazione, per non offendere nessuno – non gli indiani Tehuelche che l’hanno battezzata, non Moreno o Fitz Roy – faremo riferimento alla montagna con entrambi i nomi con cui è conosciuta.
La prima esplorazione alpinistica delle pendici di El Chaltén è opera del famoso missionario padre Alberto Maria De Agostini, cui è stato dedicato il secondo dei Quaderni della Patagonia. Grazie alla grande quantità di materiale scritto e fotografico raccolto da padre De Agostini in vari volumi sulle Ande della Patagonia, gli alpinisti hanno iniziato ad interessarsi seriamente a scalare quella vetta eccezionale.
Probabilmente questo interesse derivava anche dal fatto che, rispetto alle altre vette granitiche che lo circondano, il Fitz Roy sembra dare una certa chance ai sogni di conquista; inoltre, è la vetta più alta della regione, fattore di primaria importanza, soprattutto in un momento in cui gli alpinisti preferivano evitare le difficoltà piuttosto che cercarle. Nel 1936 partì dall’Italia una spedizione privata guidata dal celebre conte Aldo Bonacossa, instancabile esploratore e scalatore di vette alpine, autore impareggiabile delle prime guide alpine delle Alpi.
Insieme a Bonacossa facevano parte della spedizione Titta Gilberti, Leo Dubosc ed Ettore Castiglioni, tutti ottimi alpinisti, abituati alle difficoltà tecniche delle più difficili salite su roccia dell’epoca. Il 26 gennaio 1937, la spedizione raggiunse il versante sud del Fitz Roy, intuendo che questo era il più adatto ad una scalata. Tuttavia, le grandi difficoltà che trovarono negli ultimi 400 metri che li separavano dalla cima li hanno costretti alla ritirata. Dovettero passare altri dieci anni prima che qualche altro alpinista raggiungesse le pendici di El Chaltén con l’intenzione di raggiungerne la cima. Nel 1947, Hans Zechner effettuò, in effetti, una serie di ricognizioni per scoprire un lato debole nella perfetta piramide rocciosa. Nel 1948 tornò all’assalto con gli italiani Mario Bertone e Nestor Gianolini, ma non riuscì a scalare il versante sud-ovest e neppure la cresta nord.
L’anno successivo Zechner tornò con Rodolfo Dangl, Roberto Matzi e Agustine Guzzi Lantschner, ma anche questa volta tutte le illusioni furono presto frustrate. L’unica consolazione è stata forse l’aver individuato una via che, seppur lunga e difficile, sembrava un po’ più agevole di quella tentata dagli italiani di Bonacossa. Zechner ha individuato un lunghissimo canale di scolo che corre lungo tutta la parete ovest-nord-ovest e termina sulla cresta sud-ovest, poco prima della vetta. Questo solco, di quasi 2000 metri, costituirà in seguito la via più naturale per raggiungere la vetta, ed è noto come Supercanaleta.
Il Fitz Roy comincia già a far parlare di sé su riviste specializzate di alpinismo, e l’immagine delle sue pareti granitiche raggiunge gli occhi attenti di tanti gruppi di alpinisti europei.
La sfida francese
I primi a raccogliere la sfida sono i francesi, che nel 1952 organizzano una spedizione altamente preparata. La caratteristica curiosa di questa spedizione è che non è stata organizzata da un club alpino nazionale, e nemmeno da alpinisti nel vero senso della parola. Coloro che hanno voluto mettersi alla prova provando il Fitz Roy sono stati i cosiddetti Bleausard, non più alpinisti abituati a pareti di ghiaccio e tempeste, ma “semplici” virtuosi del free climbing, che trascorrevano gran parte del loro tempo esercitandosi e scalando le piccole rocce che punteggiano la foresta di Fontainebleau, situata a pochi chilometri da Parigi.
Su queste rocce, gli alpinisti francesi avevano creato una scuola di arrampicata, dove i migliori e più allenati potevano superare facilmente situazioni che avrebbero scoraggiato chiunque altro. Forti nell’azione e nella tecnica, erano in grado di affrontare praticamente tutte le salite più difficili della giornata con grande facilità, sebbene in generale non amassero troppo le lunghe marce di avvicinamento, i bivacchi, il maltempo e tutti i tipi di attività, altri disagi di montagna.
In realtà quello che a prima vista può apparire come un atto di presunzione, era al contrario un calcolo abbastanza esatto: la montagna presentava le sue maggiori difficoltà in alto: uno scudo di lastre di granito alte 400 metri. Chi se non uomini abituati a muoversi su grandi difficoltà avrebbe potuto averne ragione?
Per sopperire all’eventuale mancanza di esperienza su terreno ghiacciato, innevato o misto, sarebbe bastato avere nel gruppo anche un buon alpinista. In poco tempo il gruppo si è integrato, e quindi comprendeva: Jacques Poincenot, Guido Magnone, Marc Antonin Azéma, Lionel Terray, René Ferlet, Louis Lliboutry, Louis Depasse e Georges Strouvé. Insieme agli alpinisti puri, come Poincenot e Magnone, c’era quindi un vero leone di montagna, Lionel Terray, uno dei più grandi alpinisti di tutti i tempi.
Il gruppo parte nel dicembre 1951, e nei primi giorni del gennaio 1952 raggiunge le pendici della montagna, dove stabilisce una prima base, nei pressi del ranch di Andreas Madsen.
Dalla bocca di Madsen, allevatore, filosofo e scrittore, i francesi ascoltano quella che si potrebbe definire la “leggenda del Fitz Roy”. Secondo l’allevatore, El Chaltén è la montagna scelta da Dio per indicare un limite oltre il quale ogni capacità umana deve sottomettersi: “Sì, è vero: la levigatezza dei muri, l’irruenza dei venti, lo sgretolamento delle pietre, tutto di questo può essere superato, ma come si sconfigge l’incanto della montagna? Tra le montagne, una è stata scelta da Dio perché dica all’uomo: “Voglio distruggere il tuo orgoglio; non passerai da qui”. “E questa montagna – continua a raccontare Azéma, autore di Fitz Roy, Cerro di Patagonia e capo della spedizione francese – è il Fitz Roy. È un muro di luce in fondo a questa valle che è la terra; è il confine di quegli spazi senza confini e di quelle terre senza proprietari in cui Madsen sognava da bambino e che poi, alla fine della sua vita senza confini, ha ritrovato”.
Purtroppo, i misteriosi avvertimenti di Madsen sembrano trovare tragica conferma quando, partito per una ricognizione insieme a Terray, Jacques Poincenot incontra una tragica morte nei flutti vorticosi del fiume Fitz Roy mentre tenta di guadarlo. Questa versione ufficiale, data dalla spedizione, contrasta con alcune voci che sostengono che le cause della morte del giovane alpinista francese siano ben diverse. Sembra, infatti, che, non insensibile agli incantesimi di una bellissima estanciera, Poicenot avrebbe subito l’ira mortale del marito geloso. Lasciamo ai lettori la scelta tra le due soluzioni, secondo la maggiore verosimiglianza, e proseguiamo la nostra narrazione.
La spedizione francese proseguì, infatti, con il compito di stabilire il campo base nella foresta situata vicino al fiume Blanco, ai piedi del versante morenico che, ripido, sale verso il bacino che contiene la Laguna de los Tres. Ancora oggi questo è il luogo scelto come base per le spedizioni che vogliono risalire le pendici meridionali e orientali del Fitz Roy. In pochi giorni vengono preparati tre campi avanzati, di cui l’ultimo, nella Brecha degli Italiani – il punto più alto raggiunto dalla spedizione Bonacossa nel 1937 – è la base ideale per lanciare l’attacco contro le difficoltà finali.
Un lungo periodo di maltempo blocca i francesi per diversi giorni, al punto da temere il fallimento. Inaspettatamente, il 30 gennaio il cielo è di nuovo azzurro e limpido, generando un nuovo entusiasmo tra gli alpinisti, che sanno di dover sfruttare al meglio questo bel tempo.
Nuovo cibo e materiali vengono portati al campo tre e il 31 Lionel Terray e Guido Magnone sono pronti per iniziare la loro leggendaria ascesa. Le difficoltà opposte dal granito del Chaltén sono tante, ma non insormontabili, e i due, alternando l’arrampicata artificiale con l’arrampicata libera, riescono a superare un primo tratto difficile e compiono una lunga traversata verso destra, verso un nevaio triangolare che sembra l’inizio dell’unica prosecuzione possibile.
A corda doppia i due scendono al campo, scavano una buca nella neve e si riuniscono ad Azéma e agli altri. La giornata è stata dura e, in particolare, è stato difficile superare la prima fessura. Vediamo come Azéma descrive l’uscita di Magnone dal difficile tratto: “Tenendo tutto il peso del suo corpo sospeso con una mano, tenendo la spalla incuneata sotto lo strapiombo, stende la mano destra al di sopra. La roccia è convessa, nuda e liscia; le dita disperatamente sentono, graffiano, puliscono il granito. La mano sinistra si contrae; i piedi, a poco a poco, scivolano. No! Devi resistere! Ah, finalmente! Dio sia lodato! Una fessura! Le dita la sentono, misurano la sua lunghezza. Quindi la mano destra scende verso il basso, con cautela; cerca febbrilmente un chiodo nella cintura, cerca di tirarlo fuori (oh, questi moschettoni che s’impigliano!) e finalmente ci riesce, torna su con la mano. Adesso sembra che Magnone si stia dicendo: ‘Non resisto più! Ah, ecco la fessura! Su, forza, alza i piedi, vecchio bruto!’… Il martello colpisce; dapprima sbaglia, colpisce di lato, sulla roccia; poi, a poco a poco, sull’unghia. E il colpo provoca un suono metallico. Forza, quindi, più forte. Sì, sta entrando. Andiamo, sbrigati. Sì, regge! Presto! Un moschettone e, all’interno, una delle due corde. Tira presto! È fatta! Tira, Lionel! Tira, per l’amor di Dio!“.
Il primo giorno di febbraio Magnone e Terray partono per l’attacco finale; superano velocemente il tratto attrezzato il giorno prima, ma la montagna oppone altri ostacoli molto duri durante la giornata. Camini incrostati di ghiaccio, blocchi instabili, fessure inchiodabili, lunghe traversate costringono i due alpinisti all’esaurimento senza mai concedere loro la certezza del successo. Ogni metro è un misterp esasperante. Nel pomeriggio, Terray raggiunge un buon punto per bivaccare, ma il tempo sta già dando segni di voler cambiare. L’alba del 2 febbraio è grigia, appena allietata da un pallido sole che non promette nulla di buono. Il riposo è stato scarso ed entrambi non sono riusciti nemmeno a dissetarsi visto che, confondendo le borracce, si sono portati dietro una bottiglia di alcol combustibile!!
La salita prosegue con le solite incognite e il tempo sembra peggiorare. Di fronte a un ennesimo ostacolo, Terray vive un momento di incertezza: la sua grande esperienza di alpinista e guida gli consiglia di non sfidare più la montagna. Continuare e rimanere prigionieri della tempesta significherebbe morte certa.
Magnone, al contrario, come tutti i giovani, è animato da un’irresistibile voglia di vittoria, anche a costo della vita. Una breve discussione tra i due si conclude con un patto: Terray concede al compagno altre due ore di salita, e poi, se le difficoltà non diminuiranno, inizieranno a scendere.
Incoraggiato dallo slancio di chi sa che tutto deve essere giocato per tutto, Magnone si propone di superare passaggi delicati e pericolosi senza quasi accorgersene, con tanta audacia da suscitare un commento di ammirazione dal grande Terray: “Questo maledetto Magnone è un Lachenal nei suoi grandi giorni!” (Lachenal era il compagno di cordata preferito di Terray. Insieme hanno formato una delle corde più forti ed esperte delle Alpi e hanno effettuato salite molto difficili in tempi incredibili).
Ma in ogni situazione in cui sembrava aver risolto il problema, altri ostacoli si frapponevano per arrivare in cima. L’ultimo strapiombo prima del passaggio che segna la vera fine delle difficoltà, sembra voler giocare un ultimo brutto scherzo ai due alpinisti. Ecco ancora la descrizione di Azéma di questo momento: “Guido prende il comando della cordata, perché solo la tecnica dell’arrampicata artificiale può superare l’ostacolo… E lì Guido è in piedi, o meglio, ha il piede sul gradino superiore (della staffa) e la cintura all’altezza del moschettone. L’altro piede dondola nel vuoto; le mani sentono la roccia… Magnone è a tre metri da Lionel… La fessura continua verso l’alto ma si restringe notevolmente.
– Se riusciamo a piantare un chiodo, è fatta: il Fitz Roy è nostro! La sua sorte dipende da… un solo chiodo.
Magnone si guarda la cintura. Gli rimangono solo due chiodi, entrambi storti, entrambi danneggiati dalle martellate… Ne prende uno dalla cintura… tiene il martello con la sinistra, prende bene la misura, colpisce piano. Maledizione! Il chiodo… cade nell’abisso.
– Che sfiga! Proviamo l’altro.
Con il cuore in gola, Guido ricomincia l’operazione. È l’ultimo chiodo! E non ha nemmeno un cordino con cui assicurarlo… Questa volta il martello colpisce normalmente sulla testa di ferro e la punta penetra nella roccia di mezzo centimetro… La fessura è troppo stretta e, sotto i furiosi colpi del martello i bordi cadono a pezzi, ma l’unghia non penetra. Ci vorrebbe un extrapiatto (un piccolo chiodo con lama fine, NdR). Magnone piange di rabbia e disperazione.
– Lionel, è finita!
È in quel momento che, inaspettatamente, Terray ricorda di aver usato un extraplat per aprire una scatola di sardine durante il bivacco e poi rimetterla nello zaino.
“… Apri lo zaino, metti dentro la mano, cerca! Un grido di gioia: – Eccolo!
Tra le sue grosse dita gonfie c’è l’oggetto necessario, minuscolo ma bastante a cambiare la situazione…”.
E così, grazie a un minuscolo pezzo di ferro e ad un coraggio smodato, la “porta di bronzo” del Fitz Roy si apre e loro due possono raggiungere felicemente la vetta poco tempo dopo. In cima, Terray e Magnone hanno lasciato un moschettone prodotto dall’azienda di Riccardo Cassin, il lequés (lecchese) che con le sue salite ha segnato un’epoca nella storia dell’alpinismo.
In un articolo scritto nel 1956 sul Bollettino del Groupe Haute Montagne, Lionel Terray ha ricordato la sua impresa: “Di tutte le salite che ho fatto, il Fitz Roy è quella che, soprattutto, ha richiamato tutte le mie energie fisiche e mentali. Tecnicamente è forse un po’ sotto a quelle che ho fatto di recente sulle pareti granitiche delle Alpi, ma una grande salita è più della somma delle sue lunghezze di corda”.
La Via dei Francesi aveva, quindi, dissipato l’alone leggendario dell’inviolabilità della montagna, e aperto l’era, non ancora conclusa, dell’esplorazione alpinistica di tutti gli altri versanti non esplorati.
La Supercanaleta e il Pilastro Est
Tra tutte le linee logiche di ascensione, la Supercanaleta era senza dubbio quella da preferire, nonostante la sua lunghezza e la parziale esposizione a pericoli oggettivi. Lo stretto solco corre lungo la parete ovest-nord-ovest per 1800 metri e si presta ad una tattica di risalita basata soprattutto sulla velocità di esecuzione. Questo magnifico canale sarà la via scelta dagli argentini José Luis Fonrouge e Carlos Comesaña per effettuare la seconda salita del Fitz Roy.
La spedizione, composta da cinque persone, si è diretta al ghiacciaio del Fitz Roy, guardando verso l’immenso versante nord-ovest della montagna, e, con uno stile estremamente moderno e audace, Fonrouge e Comesaña hanno affrontato il canale. La salita è durata tre giorni tra andata e ritorno, che è stato effettuato per la stessa via, e ancora oggi è l’unica prima salita al Fitz Roy compiuta senza l’ausilio di corde precedentemente fissate in più tentativi. Il 16 gennaio 1965 i due alpinisti argentini raggiunsero la vetta.
La salita della Supercanaleta costituisce, a nostro avviso, una pietra miliare nella storia dell’arrampicata sul Fitz Roy, sia per lo stile pulito con cui è stata effettuata sia per il fatto che la tecnica della piolet traction, che dà grande velocità nella progressione su ghiaccio, non era ancora conosciuta: questo accresce notevolmente il valore del risultato tecnico e sportivo raggiunto.
Questa via molto logica è stata seguita da poche altre cordate, forse perché meno comoda rispetto a quelle del versante sud-est, o forse perché non priva di pericoli oggettivi, anche gravi.
A dimostrazione di quanto è stato appena sostenuto, dobbiamo ora ricordare la bella prestazione dei californiani Yvon Chouinard, Dick Dorworth, Lito Tejada-Flores, Chris Jones e Doug Tompkins. Partito in camion dalle assolate spiagge della California, il gruppo, da loro battezzato “Fun hogs” (maialini lieti), ha attraversato l’intero continente americano, per arrivare, dopo mille incidenti, ai piedi della tanto sognata montagna.
Chouinard e Flores erano alpinisti altamente qualificati, tra i migliori del Nord America. Sulle alte mura del Capitan nella Yosemite Valley, avevano accumulato abbastanza esperienza e tenacia per risolvere qualsiasi problema. Ancora una volta, come nella prima salita, si mettevano alla prova del Fitz Roy gli specialisti della roccia piuttosto che alpinisti classici.
I californiani decisero di aprire una nuova via che seguisse il lato sinistro della stretta parete sud. Per fare ciò, una volta raggiunto il colletto degli Italiani, hanno traversato ancora a sinistra, fino ad una piccola concavità chiamata Col del Cineasta. Un violento temporale ha bloccato per sei giorni gli uomini nei loro rifugi, scavati nella neve. Alla fine, la loro pazienza è stata premiata e hanno potuto affrontare la salita.
Durante la scalata sono state applicate tutte le tecniche raffinate e sono stati utilizzati i materiali d’avanguardia appositamente preparati per le grandi salite. In trenta ore di salita gli americani hanno raggiunto la vetta, aprendo quella che ancora oggi è la via più bella e classica dell’intera montagna, e, quindi, la più ripetuta se si considera che fino ad ora le ripetizioni sono almeno una ventina (ovviamente è riferito al 1991, NdR). La cima è stata raggiunta da tutti i membri della spedizione il 20 dicembre 1969.
A questo punto, considerati risolti i problemi più logici, gli alpinisti, gente sempre alla ricerca di “qualcos’altro”, non ci mettono molto a mettere lo sguardo sulle vie e sulle pareti più ardue del Chaltén.
Già durante la spedizione del 1957 i francesi, come sempre in prima linea e particolarmente innamorati delle linee estetiche, avevano notato il perfetto e imponente pilastro orientale, che, come una gigantesca colonna portante, sorregge tutto il pendio di quel versante della montagna. È una delle strutture più belle e armoniche che si possano immaginare, come sintesi di bellezza e potenza che vi si fondono in proporzioni difficili da trovare altrove.
Il pilastro scende dalla sommità per 1500 metri, allungandosi gradualmente fino a toccare il ghiacciaio sottostante. I primi tentativi risalgono al 1967, quando una spedizione francese effettuò un test, ma furono presto scoraggiati dalle grandissime difficoltà che il granito presentava.
Tra il 1971 e il 1973 ci furono due spedizioni italiane al pilastro (di Rovereto e di Monza). I progressi raggiunti furono però abbastanza limitati: anche per le Big Wall servino uomini, abituati a lavorare per giorni e giorni tra le difficoltà più forti. Arrivarono così ai piedi del pilastro gli svizzeri Hans-Peter Kasper e Toni Holdener, insieme ad altri tre compagni (Robert Wenger ed Ernst e Andrea Scherrer). Senza dubbio avevano le carte in regola per vincere. I due facevano parte di un’avanguardia svizzera conosciuta come il “gruppo Arosa”, che, uscendo dalle normali convenzioni dell’alpinismo svizzero, aveva intrapreso un alpinismo molto più tecnico e complesso. Anche Kasper, come Holdener, era stato in Yosemite, al Capitan, dove aveva ripetuto le vie più difficili, tra cui la North America Wall, la “via più difficile del mondo” (Yvon Chouinard era nel gruppo dei primi salitori di questa via). Incoraggiati da queste esperienze, profondi conoscitori del granito, gli svizzeri hanno lavorato molto sul pilastro e attrezzato la via fino a duecento metri dalla vetta. Erano arrivati alla fine delle grandi difficoltà!
Purtroppo un lungo periodo di maltempo e i tanti giorni già trascorsi a risalire il pilastro li hanno costretti ad un ritiro forzato senza aver provato la gioia di ottenere la meritata vittoria che sportivamente andrebbe loro riconosciuta.
I Ragni di Lecco
Due anni dopo, nel 1976, è l’occasione per i Ragni di Lecco, guidati da Casimiro Ferrari. La spedizione, composta da dieci uomini, assediò praticamente la montagna; tuttavia, più che il grande dispiegamento di mezzi (fu costruita anche una funivia per il trasporto dei materiali), prevalse la determinazione di Casimiro Ferrari. Infatti, quando, a causa della defezione di alcuni membri della spedizione, tutto sembrava compromesso, Ferrari si fece carico della situazione. Giunto al termine delle corde fisse insieme a Vittorio Meles, ha proseguito in stile alpino superando le ultime difficoltà che opponeva il pilastro, fino a raggiungere la vetta il 23 febbraio. L’avanzamento della cordata non è stato fermato nemmeno da un incidente occorso al Ferrari, il quale, a seguito di una brutta caduta, aveva perso tre denti a causa della violenta collisione con la roccia. Un simile incidente avrebbe indotto molti altri alla ritirata, ma i due lecchesi erano troppo vicini alla vittoria per poter pensare di rinunciare proprio in quel momento.
La salita è stata compiuta da Ferrari e Meles in un totale di sei giorni di arrampicata. Di quei giorni, tra l’altro, i più intensi furono gli ultimi due. Dice Ferrari: “La mattina del 22 abbiamo attaccato la parete (è l’ultima parete, cioè gli ultimi 300 metri, NdR) per arrivare in cima. Siamo partiti abbastanza stanchi, lasciando montata la tenda da bivacco e portandoci dietro solo l’imbottitura… Abbiamo superato 100 metri di corde fisse e affrontato altri due o tre tiri difficili senza chiodi a pressione; traversiamo a sinistra con un pendolo quando il granito non consente altre soluzioni, e arriviamo in un punto abbastanza agevole, a circa 100 metri dalla vetta. Erano le sei del pomeriggio e in un paio d’ore saremmo arrivati in cima…
Senza più grandi difficoltà, eravamo sul III grado, non di più. All’improvviso perdo l’appoggio e volo verso Meles, sbatto con la faccia sulla roccia, mi fermo sorretto dalla corda. Sento qualcosa di caldo: è sangue in bocca. Ho perso dei denti! Penso che se scendessi, forse il giorno dopo non sarei più in grado di risalire. A trenta metri dalla cima – erano le nove di sera – comparve un banco di nebbia che ci avrebbe sicuramente fatto perdere l’orientamento, e così bivaccammo…
Il 23 febbraio, con uno splendido sole, Vittorio Meles e poi io siamo arrivati in vetta“.
La nostra storia continua. Facciamo un salto indietro nel tempo, visto che, quasi contemporaneamente ai primi tentativi sul pilastro orientale, gli anglo-americani gli inglesi Ian Wade, Guy Lee, Dave Nicol, Eddie Birch e Julian Anthonie assieme all’americano Larry Derby, sono riusciti a superare la parete sud, tra la via dei californiani e quella dei francesi.
In verità anche loro intendevano salire il pilastro, ma le grandi difficoltà dell’arrampicata artificiale li hanno portati a cercare una via più naturale. La bella conquista fu effettuata l’11 dicembre 1972, con tutti i membri al vertice. Anche in questo caso la vittoria è stata dovuta principalmente alla grande perseveranza degli alpinisti, che hanno dovuto aspettare 16 giorni perché il maltempo patagonico desse loro una tregua.
Renato Casarotto
Dopo questa breve parentesi temporale, torniamo al filo del racconto, proseguendo con la cronologia storica della montagna.
Arriviamo così a quella che può essere considerata una delle più belle avventure patagoniche di tutti i tempi, e anche della storia dell’alpinismo stesso. Si parla, qui, della salita solitaria dell’alpinista vicentino Renato Casarotto, sull’ancora vergine pilastro nord.
Il pilastro poneva una domanda cui si poteva rispondere solo in modo diretto e logico. Il pilastro si alza con la dirittura del filo di una spada fino al Colle del Blocco incastrato e, dopo l’interruzione di quel gradino, prosegue con la stessa eleganza fino alla vetta.
Casarotto aveva provato due volte l’impresa, ma varie cause gli avevano sempre impedito la prosecuzione. L’italiano era, tuttavia, un grande arrampicatore solitario: dava il meglio di sé proprio quando era solo. Alla fine, optò per quella soluzione: salire da solo.
Per il resto aveva conquistato, da solo, la parete settentrionale dello Huascaran nelle Ande peruviane, il Diedro Cozzolino al Piccolo Mangart durante la stagione invernale; sempre in inverno aveva scalato in un fantastic concatenamento la parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, la parete sud di Punta Gugliermina e il Pilone Centrale del Frêney al Monte Blanco. Abituato a giorni e giorni di solitudine su quelle pareti, Casarotto era l’uomo ideale per risolvere il problema del pilastro nord del Fitz Roy.
Abbandonato dai componenti dell’ultima spedizione, Casarotto resta ai piedi del Fitz Roy con la moglie Goretta e inizia la sua lunga lotta contro la montagna. Arrampica da solo e attrezza le lunghezze, quindi scende alla sua tenda, che ha allestito un po’ più in basso del colletto alla base del pilastro, al riparo dai venti. Prima di morire per una caduta in un crepaccio ai piedi del K2, Casarotto ha ricordato in uno scritto la sua salita. Ecco alcuni frammenti:
“Mi sono vestito come un astronauta: leggings, due paia di pantaloni, giacca a vento ‘gore-tex’, gilet da montagna, piumino, due cappelli, guanti senza dita, normali scarponi da arrampicata. Per tutto il giorno sono riuscito a salire solo 60 metri. Neve che è entrata sotto i vestiti, vento spaventoso: davvero, incredibile”.
Colto dalla tempesta nel corso del primo tentativo, Casarotto raggiunse comunque la sommità del pilastro stesso: “In cima al pilastro ho visto corde fisse ingrossate fino a 15 centimetri. Dovevo scuoterle, rimuovere il ghiaccio, controllare il numero di fili che rimanevano all’interno. Gli jumar lì non funzionavano”.
Per dieci giorni l’alpinista vicentino attende un nuovo miglioramento del tempo, e finalmente, quando ciò accade, torna al colletto alla base del pilastro, notando che il vento ha danneggiato le corde fisse lasciate lì, tanto da essere quasi inutilizzabili. “Mentre salgo su una corda fissa vedo che il suo capo dondola nel vuoto. A cosa mi sto aggrappando? Salgo con attenzione, arrampicandomi senza tirare lo jumar. Raggiungo il punto critico. La corda è stata spezzata. Il vento l’ha tagliata, facendola sfregare continuamente contro la roccia. E quando lo spezzone è caduto si è impigliato tra una sporgenza e la parete. Poi il ghiaccio l’ha bloccato”. Casarotto comunque ce la fa a raggiungere il punto massimo dei tentativi precedenti e finalmente, dopo un’altra giornata di duro lavoro, raggiunge la vetta. È il 1 gennaio 1979.
Per le sue caratteristiche, che favoriscono in particolare l’arrampicata libera, il pilastro Casarotto del Fitz Roy costituisce senza dubbio la miglior opzione tra le tre del versante sud-orientale (Via dei Francesi, Via dei Californiani e Via degli Inglesi). La salita si svolge lungo un sistema di fessure parallele che attraversano l’intero pilastro, e presenta difficoltà di VII grado e arrampicata artificiale.
Altre ascensioni
Nel 1984 i nordamericani Alan Kearney e Robert Knight salirono l’intero pilastro in arrampicata libera, utilizzando l’artificiale in soli quattro punti. L’anno successivo gli svizzeri Marco Pedrini e Kurt Locher, nel corso di una ripetizione, aprirono una lunga variante a destra della via originaria, raggiungendo la sommità del pilastro ma non la sommità a causa di un incidente. Dato che la salita ha solo i primi due tratti in comune con la via originaria, si può giustamente parlare di una via veramente nuova che, in ventuno lunghezze, raggiunge la sommità del pilastro. Il percorso Chimichurri y Tortas Fritas presenta difficoltà fino all’ottavo grado inferiore.
Negli stessi giorni in cui Casarotto stava scalando la montagna, un gruppetto di francesi era determinato a risolvere uno dei maggiori problemi posti dal Fitz Roy, quello di riuscire ad aprire una via di roccia a lato dell’altissima parete occidentale che cade sul ghiacciaio con un salto che varia tra i 1700 e i 2300 metri.
I francesi indirizzarono il loro tentativo verso l’inviolata cresta nord-ovest che, sebbene molto lunga, sembrava offrire maggiori possibilità di ascesa. Jean Afanassieff, astro nascente dell’alpinismo francese, faceva parte del gruppo: aveva in dote numerose e belle realizzazioni sulle montagne di tutto il mondo, e due anni prima era già stato in cima al Fitz Roy con l’americano Mike Weiss. In sole diciannove ore i due avevano scalato, nella prima ripetizione, la Supercanaleta. Nella spedizione del 1979, assieme ad Afanassieff, c’erano suo fratello Michel, Guy Albert, Jean Fabre e Gilles Sourice. Nonostante il tempo terribile, sono riusciti a trasportare rifornimenti e attrezzature ai piedi della cresta. Dieci giorni dopo il loro arrivo il tempo si è schiarito, permettendo l’inizio della vera salita. Mentre i due fratelli conducevano i difficili tratti di corda, Sourice filmava e gli altri attrezzavano la via con alcune corde fisse. Dopo trecento metri in questo stile, è stato raggiunto il punto massimo raggiunto in precedenti tentativi di altre spedizioni. Tre giorni dopo, quando i francesi tornarono, trovarono la loro tenda distrutta e le corde fisse quasi inutilizzabili. Tuttavia, il 24 dicembre, in perfetto stile alpino, hanno ripreso la salita e, nonostante grandi difficoltà tecniche (V grado e A2) e con il tempo sempre in peggioramento, hanno raggiunto la vetta dopo aver bivaccato quattro volte in parete.
Il percorso di Afanassieff e dei suoi compagni è stato anche il primo – Supercanaleta a parte – che ha permesso di superare l’alto versante nord-ovest della montagna, dando inizio a una nuova era per la sua esplorazione “andinistica”.
Alcuni tentativi erano già stati fatti negli anni precedenti, ma, in generale, tutti erano stati frustrati dal maltempo e dalle grandi difficoltà rappresentate dall’imponente crestone. Tra tutti i tentativi, merita di essere ricordato quello compiuto nel 1977 dagli inglesi Rab Carrington e Alan Rouse. Entrambi erano tra i migliori alpinisti anglosassoni dell’epoca e, a riprova di ciò, basta solo fare riferimento allo stile che adottarono per tentare la scalata del Fitz Roy.
Solo in due, senza preventiva attrezzatura, in perfetto stile alpino, Carrington e Rouse hanno preferito tentare la parete ovest inesplorata, la più alta dell’intera montagna, delimitata a sinistra dalla “Supercanaleta”. Nel pomeriggio della prima giornata i due avevano superato tutta la parte inferiore, che si poteva considerare uno zoccolo, ed erano giunti all’inizio delle vere difficoltà. Il giorno successivo la salita è proseguita in diagonale verso destra, sfruttando la linea naturale suggerita dalla parete, che in alto mostra una vera sciabola nella roccia, una fenditura diagonale che successivamente si snoda per raggiungere la parte terminale della Via dei Californiani. Le difficoltà divennero però alquanto eccessive per due uomini da soli che volevano muoversi in stile alpino e che non disponevano, tra l’altro, di attrezzature sufficienti. Superato un pericolosissimo tratto di blocchi instabili, i due inglesi hanno raggiunto la base della grande spaccatura e lì hanno bivaccato. Il terzo giorno il tempo, che si stava deteriorando, e grandi difficoltà tecniche li hanno costretti alla ritirata.
Dice Carrington: “È stato un incubo: tutte le doppie s’incastravano, in mezzo a una continua caduta di sassi. Era il crepuscolo e la mia torcia elettrica si era rotta con i colpi che lo zaino si era preso durante il suo recupero, lunghezza dopo lunghezza. La preparazione di ogni punto di discesa ci ha richiesto un’eternità: tutte le fessure sembravano precarie e siamo stati costretti a usare i chiodi. È stata una cosa molto ‘stressante’ assicurarsi che tutti gli ancoraggi fossero ben saldi, pregare che le corde non s’incastrassero nella fase di recupero, fare attenzione a non perdere il prezioso discensore a ‘otto’“.
Lo stesso risultato è stato ottenuto dai due in un secondo tentativo che hanno effettuato pochi giorni dopo. Tuttavia, quando hanno abbandonato la parete, Rouse e Carrington erano stati comunque quelli che avevano raggiunto il punto più alto, dopo aver scalato i due terzi del totale. Pochi giorni dopo stavano aprendo una nuova via sulla Aguja Poincenot, e negli anni successivi i loro successi sulle montagne dell’Himalaya, in particolare quelli di Rouse, fecero storia. È interessante notare che Alan Rouse ha perso la vita sul K2, nello stesso periodo in cui vi è morto anche Renato Casarotto. La via seguita dai due inglesi fu nuovamente percorsa e completata nel 1983 da una forte spedizione cecoslovacca, dopo due anni di assedio.
I cecoslovacchi avevano fatto un primo tentativo nell’estate australe del 1981-82, ma nonostante quasi tre mesi di tentativi, non erano riusciti. Robert Gálfy, uno dei membri della spedizione, si esprime così: “Abbiamo iniziato le operazioni il 30 dicembre e abbiamo trasportato i materiali alla base del muro.
Da quel giorno io e i miei colleghi (Michal Orolín, Daniel Bakoš, Zdenek Brabec, Vladimír Petrík, Dusan Kovac) abbiamo fatto vari tentativi, sempre frustrati dal maltempo. Poiché la discesa lungo la parete ovest era pericolosa a causa dell’instabilità dei grossi blocchi di granito, in tre occasioni abbiamo raggiunto il Colletto degli Italiani per scendere il versante est. Per tre volte, quindi, abbiamo quasi completamente fatto il giro della montagna per tornare al campo base. Sono quasi 40 km!
L’ultima discesa, invece, l’abbiamo fatta lungo la parete ovest, sotto un violento temporale. Il 17 febbraio siamo tornati a casa. La parete ovest era ancora da salire”.
Nel 1983 Gálfy tornò, deciso a non cedere. Insieme a lui ci sono di nuovo Orolín, Petrík e Brabec, più tre nuovi amici, il dr. Frantiseki Kele, Milan Hoholik e Tibor Surka. Questa volta le cose stanno andando un po’ meglio e, nel corso di un tentativo piuttosto accelerato, i cecoslovacchi riescono a raggiungere la connessione con la Via dei Californiani: la parete ovest è stata conquistata. Tuttavia, l’etica rigorosa di questi alpinisti orientali li costringe a raggiungere anche la vetta. Purtroppo l’avanzata, anche se su terreno ora più agevole e familiare, è nuovamente ostacolata dal maltempo. Ancora una volta si ritirano al campo base con un sentimento di rabbia e frustrazione difficilmente immaginabile. Alle 3.30 del 14 gennaio il tempo sembra migliorare. Gálfy, Orolín e Petrík partono dal campo base. In venti ore di salita, i tre raggiungono la Via dei Californiani, salgono ancora un po’ e poi bivaccano. Gálfy ricorda ancora: “Anche se siamo molto vicini alla vetta, non voglio pensarci. Il maltempo ci ha respinti altre otto volte! Adesso il tempo sembra buono. Ogni momento sbircio fuori dal saccopiuma per scrutare il cielo“.
Quella volta il tempo è rimasto splendido, permettendo ai tre cecoslovacchi di raggiungere la vetta senza problemi. Alcuni di loro devono aver pensato che se lo meritavano davvero!
Il periodo alpinistico del 1983-84 coincise con la realizzazione di un’altra grande impresa sul versante orientale di El Chaltén. Tra il pilastro est e il pilastro nord la natura ha formato un diedro di dimensioni ciclopiche.
È ovvio che una struttura del genere non poteva passare inosservata, ed è anche necessario dire che fu proprio lungo il diedro che furono fatti alcuni dei primi tentativi di superare la parete orientale.
“La linea di salita è molto logica e sicura; inoltre la stessa struttura del diedro consente le maggiori possibilità di risalita, essendo sempre fessurato”. Questo era un po’ quello che pensavano gli alpinisti di quella via, ma non avevano tenuto conto delle dimensioni del Fitz Roy; le fessure, inoltre, non erano altro che grandi camini gelati e intasati di neve. Le possibilità di proteggersi durante la salita erano scarse e le difficoltà tecniche molto elevate. Così, dopo i primi tentativi (Carlos Comesaña e José Luis Fonrouge nel 1964; gli svizzeri nel 1976 e i giapponesi nel 1980), gli jugoslavi vennero a ritirare il guanto della sfida nel 1983.
La spedizione è composta da quattro membri: Stane Klemenc, Silvo Karo, Franček Knez e Janez Jeglič, di cui gli ultimi tre sono stati protagonisti di altre due grandi ascensioni sulle pareti del Cerro Torre. L’8 dicembre 1983 il tracciato fu completato quando finì per congiungersi a quello di Casarotto, all’incrocio del pilastro nord. Le difficoltà indicate sono di VI grado superiore e A2.
Sulla parete sud, invece, è la volta degli alpinisti argentini, che si distinguono per una nuova variante alla Via dei Francesi. Il 9 e 10 marzo 1984 Alberto Bendinger, Eduardo Brenner, Marcos Coach e Pedro Friedrich iniziarono a salire la parete lungo la Via dei Francesi, ma, dopo i primi tre tiri, proseguirono direttamente, evitando il lungo traverso a destra in direzione del nevaio triangolare.
La salita presenta più o meno le stesse difficoltà delle altre che compaiono su questo versante, e sebbene sia recente tende a diventare una via classica, che forse supererà, in numero di ripetizioni, la “vecchia” Via dei Californiani (di Chouinard e compagni).
Come si evince dalla cronaca di queste ultime salite, dalla ripetizione di Kearney e Knight sul pilastro di Casarotto inizia una ricerca più esasperata del contributo tecnico. I due americani sono saliti quasi interamente in free climbing, utilizzando solo quattro ancoraggi di salita in artificiale. Anche Marco Pedrini e Locher avevano compiuto un’impresa simile sullo stesso pilastro e sulla parete sud, già sovraccarica di percorsi e varianti.
Tutti i versanti del monte erano già noti ed erano stati percorsi da almeno una via, ad eccezione della poco appariscente parete sud-orientale, compresa tra il contrafforte meridionale e quel grandioso pilastro orientale che con la sua bellezza distoglie lo sguardo da qualunque parte lo si osservi.
I due fratelli spagnoli Miguel Ángel e José Luis García Gallego, una coppia estremamente affiatata e ben allenata, hanno pensato di risolvere il problema di quella parete, sempre alla ricerca di nuove grandi salite sulle pareti di tutto il mondo.
Sembra quasi che i due fratelli abbiano unito le forze per eternare il loro nome nel mondo: ad esempio, sono stati i primi europei a riuscire ad aprire una nuova via su El Capitan (Mediterraneo VI, 5.10, A4). Già nel 1982 i Gallegos avevano fatto un primo tentativo insieme ai loro compagni Miguel Gómez e Manuel del Castillo.
Purtroppo, come dice lo stesso Miguel Ángel Gallego: “Abbiamo trascorso quattro mesi pieni di difficoltà e complicazioni, iniziati il giorno della partenza per il campo base, quando, a causa di una caduta da cavallo, José Luis è stato costretto a tornare a Río Gallegos per stare lì per un mese con una gamba ingessata. E poi… una serie infinita di disgrazie e disavventure. Manolo, sepolto vivo da una valanga; una mia scivolata di oltre 200 metri; cadute nei crepacci dei ghiacciai; José Luis e Manolo, quasi travolti dalla parete per la caduta di una grossa frana staccatasi dall’alto“.
Nonostante tutte queste disavventure, i fratelli Gallego tornarono in Patagonia due anni dopo con l’intenzione di finire ciò che avevano iniziato. “Naturalmente – prosegue Miguel Ángel – anche nel 1984 sono stati numerosi i disagi. Una volta abbiamo visto come un grosso sacco, del peso di molti chili, sparisse oltre il crinale, sul versante nord, sollevato dalla forza del vento. Un’altra volta mi sono quasi trasformato in una torcia a causa di una stufa a gas che stavo maneggiando. Il mio vestito di nylon ha preso fuoco e ne sono uscito con gravi ustioni su mani e capelli“.
Ma la sfortuna non si è certo limitata a punirli durante l’azione: basti pensare che José Luis, al ritorno, è stato vittima di una presunta epatite che ha tenuto entrambi i fratelli in Argentina per più di un mese, mentre passavano da un medico all’altro…
Questo inizio avrebbe scoraggiato chiunque, ma non certo i Gallegos, che erano già corazzati contro tutte le avversità, anche le più strane e improbabili. Partiti a gennaio della Spagna, solo a febbraio riescono ad arrivare a vedere la meta agognata.
Aiutati dal loro amico Luis Herrero, un architetto senza esperienza di alpinismo, i due fratelli trasportano materiale alla base della parete. Hanno abbastanza attrezzatura per resistere fino a un mese intero in parete senza dover tornare al campo base! Per risparmiare tempo ed evitare la prima e pericolosissima parte della salita, molto esposta alla caduta di neve e sassi, e, per il resto, già superata nel tentativo del 1982, gli alpinisti decidono di fare una deviazione e riprendono il loro percorso passando per il Colletto degli Italiani e la lunga cengia innevata che è alla base della Via Franco-Argentina e che si estende a destra sulla parete sud-est. L’espediente è ottimale ma, comunque, sempre pericoloso a causa della ripidezza del pendio nevoso che ricopre il cornicione,
Alla fine, la grande pazienza riceve la sua ricompensa: un periodo inaspettato di sei giorni di bel tempo consente ai fratelli di raggiungere in sicurezza la parete e, utilizzando le corde fisse preparate in vari tentativi, di guadagnare rapidamente quota. Alla fine delle corde fisse, proseguono in stile alpino e si ritrovano in vetta, abbracciati anche per resistere al forte vento. È il 20 marzo 1984. La soluzione al problema posto dalla parete sud-est chiude idealmente un ciclo storico per aprirne un altro che, come abbiamo già sottolineato, aveva già avuto le sue prime manifestazioni.
Furono esplorati tutti i pendii della montagna; ora gli alpinisti che avessero voluto fare qualcosa di nuovo su El Chaltén avrebbero dovuto rivolgere la loro attenzione alle particolari strutture che caratterizzano le pareti. Spigoli e diedri costituiscono il terreno più adatto per questi percorsi “minori”.
Nell’estate australe del 1984 entrarono in azione i forti alpinisti dell’Europa dell’Est, che negli anni ’80 costituivano il fulcro di tutto l’alpinismo internazionale grazie ad una serie infinita di gesta eccezionali sulle montagne di tutto il mondo.
È la volta dei polacchi, che forse per la prima volta si sono messi alla prova sul Fitz Roy, avendo generalmente preferito le grandi salite in Himalaya. La meta prescelta è la scura parete nord, nel punto in cui mostra un marcato ed immenso diedro-camino formato dal pilastro Casarotto a sinistra e dalla cresta nord-ovest a destra.
L’ascensione dei polacchi è una di quelle che possiamo definire fortunate. Dopo aver allestito il campo base a Piedra del Fraile, stabiliscono un campo avanzato ai piedi della parete. In soli dodici giorni riescono a risolvere il problema. Di quei giorni, gli ultimi otto sono stati dedicati al tentativo finale, coronato dal successo. Il 24 dicembre Piotr Lutynski, Wieslaw Burzynski, Miroslaw Falco Dasal, Michal Kochanczyk e Jacek Kozaczkiewicz raggiungono la vetta e, due giorni dopo, sono di nuovo al campo base. La Via dei Polacchi si collega con quella di Casarotto all’altezza del Colletto del Blocco Incastrato. L’insolito bel tempo che ha prevalso nella regione nel 1983, 1984 e 1985 ha favorito questa bella conquista. Il primo successo del 1985 è la nuova Via Jugoslava sulla parete sud. Non si conoscono dettagli su questa. Dovrebbe essere situata tra le vie degli Inglesi e Argentina. Alpinisti: Bogdan Bišcak, Rado Fabjan e Matevž Lenarcic (tra il 21 e il 23 dicembre).
Tra il 1985 e il 1986, sulle pareti settentrionali del Fitz Roy agì anche la spedizione italiana organizzata radunando le forze dei Club Alpini di Mariano Comense, Firenze e Sezione XXX Ottobre di Trieste. I componenti sono tutti istruttori nazionali del Club Alpino Italiano: Carlo Barbolini e Massimo Boni di Firenze; Marco Sterni e Mauro Petronio di Trieste; Angelo Pozzi di Mariano Comense e Mauro Rontini di Borgo S. Lorenzo. L’obiettivo dichiarato è la salita del versante nord nella sua parte centrale, prendendo come linea guida il grande diedro che lo solca al centro. È indubbiamente un obiettivo ambito e di grande difficoltà, ma i componenti della spedizione sono tutti ottimi arrampicatori e alpinisti, e, quindi, con le carte potenzialmente buone per riuscirci. Anche la spedizione degli italiani subisce numerosi ritardi e lentezze a causa di una perdita nella consegna del carico spedito via mare. Tuttavia, una quindicina di giorni dopo la partenza dall’Italia – sebbene parte del materiale, comprese le scarpe da trekking, sia a New Delhi – inizia il trasporto dell’attrezzatura disponibile alla base della parete.
In un bellissimo articolo su quella spedizione, apparso sulla rivista Alp, Pozzi e Spinelli raccontano con semplicità ed efficienza gli stati d’animo dei componenti e le giornate più importanti del percorso. Alla base della parete, come è consuetudine in Patagonia, vengono scavate nella neve tre grotte che fungeranno da rifugio per gli alpinisti che si alternano nell’arrampicata. Si preferisce, per ovvi motivi, utilizzare lo stile di salita himalayano, che prevede l’attrezzatura della parete con corde fisse.
Dice Pozzi: “Guardando dritto alla verità del versante nord, ci diamo una misera possibilità di successo del venti per cento. Nello spirito, liberato dalla preoccupazione di perdere la reputazione in caso di rinunce, c’è grande spazio per la determinazione… Le nostre lettere di credito alpinistiche ci danno il diritto di iniziare l’incontro al centro del ring“. Un primo periodo di bel tempo permette una rapida progressione lungo le placche lisce del basamento, e in quattro giorni raggiungono la grande cengia che si trova esattamente al centro della parete e che muore alla base del diedro scelto per il seguito. La cengia è molto larga e comoda. Lì viene stabilito un campo avanzato che, vista la sua comodità, prenderà il nome di Grand Hotel. Il 15 gennaio Barbolini, Rontini e Boni attaccano il grande diedro. Sarà un lavoro duro, che richiede due giorni e sarà anche il capolavoro di Marco Sterni, che, a 21 anni, è il più giovane del gruppo. Con perseveranza, sempre al comando della cordata, Marco risolve il problema passando in arrampicata libera e suscitando l’ammirazione degli altri, che addirittura gli “dedicano” il diedro: “Diedro di Marco”.
Il 17 il gruppo riparte per l’assalto finale, e verso il pomeriggio, mentre si prepara un imminente temporale, raggiunge la cresta nord-ovest, a una cinquantina di metri dalla cima che però non è calpestabile a causa del vento.
La nostra storia del Chaltén sta per finire. Resta ancora da ricordare altri tipi di imprese alpinistiche come le salite in solitaria, le salite invernali e le salite femminili. Nel primo gruppo si era distinto Renato Casarotto, imbattibile. Bisogna però ricordare che nel 1985 avvenne la prima solitaria lungo la Via dei Californiani, del francese Ivés Astier, che portò a termine l’impresa in sole 12 ore. Più veloce di lui sarà l’austriaco Thomas Bubendorfer, che nel gennaio 1986 impiegò solo 7 ore e 30 minuti per la stessa via.
Il 27 luglio 1986, gli argentini Eduardo Brenner, Sebastián De La Cruz e Gabriel Ruiz salirono la Supercanaleta per la prima ascensione invernale della montagna (Brenner si fermò alla fine delle difficoltà e aspettò i compagni per la discesa, NdR); la seconda invernale alla vetta appartiene agli alpinisti lecchesi Paolo Crippa, Paolo Spreafico e Danilo Valsecchi che la effettuarono il 6-8 agosto 1988.
Particolarmente notevole è stata la salita degli alpinisti argentini, svolta in perfetto stile e con la massima velocità consentita dal forte vento e dalle intemperie. Nessuno dei tre aveva portato con sé il saccopiuma, per sentirsi più leggeri ed essere, quindi, più veloci.
Purtroppo Eduardo Brenner, autore di altre numerose e bellissime imprese ed elemento distinto dell’alpinismo argentino, è scomparso a causa del ribaltamento di una canoa durante la discesa del Río de las Vueltas.
Per quanto riguarda le salite femminili, per ora sembra che siano solo due (in realtà si annovera pure la prima femminile invernale, quella della neo-zelandese Erica Beuzenberg nel 1993, NdR). Nel 1978, una squadra sudafricana di tre membri raggiunse la vetta lungo la Via dei Californiani. Romy Drunshke faceva parte di quel gruppo, con suo marito Eckhard e Jerry Linke. Nel novembre 1987, Silvia Fitz Patrick ha effettuato la seconda salita femminile in cordata con Eduardo Brenner. Va notato che per Silvia quella era stata la sua seconda salita in Patagonia!