Montagna magica – 04

Il sito Montagnamagica.com, associato al portale Sherpa, è in dismissione. Nella sua vita di otto anni (dal 2016) ha pubblicato più di una cinquantina di post sull’alpinismo, in genere extraeuropeo. Abbiamo deciso di riprenderne i migliori, in cinque puntate. Tutti gli articoli, a parte quelli diversamente attribuiti, sono di Federico Bernardi.

Denis Urubko ha rilasciato una importante intervista a Russianclimb.com; col suo personale permesso e quello di Elena Laletina, editor dell’importante sito russo, la traduzione del suo pensiero. Ringrazio Denis Urubko ed Elena Laletina di Russianclimb.com per avermi dato il permesso a tradurre questo testo; un particolare ringraziamento a Matteo Gallizioli per la sua gentilezza.

Denis Urubko: nulla è definitivo
di Denis Urubko (a cura di Elena Laletina)
(pubblicato il 2 marzo 2020)
Traduzione di Federico Bernardi con la collaborazione di… alcuni amici russi.

Vedo molte speculazioni negli ultimi tempi, la gente parla di me… “Bla bla bla”, lo fanno per promuovere se stessi. Per favore! Quante bugie… sia da cineasti sia da altri alpinisti.

E i giornalisti propongono al loro pubblico queste speculazioni come la verità ultima. Ma la maggior parte di esse sono sbagliate. L’unico su cui garantisco è Bohuslav Magrel (capo del Club Alpino Polacco), perché mi conosce bene. E ora preferisco dire la mia per fare chiarezza.

Non c’è nulla di definitivo per me. Al contrario. Tutto quello che faccio in montagna è mutevole: tattica, tecnica e stile di arrampicata. Solo l’obiettivo rimane costante.

Denis Urubko

Pertanto, nessuno si dovrà sorprendere se riapparirò in Himalaya, una o un paio di volte… Per esempio: perché non battere il record di Juanito Oiarzabal e scalare il Cho Oyu quattro volte in una stagione? Una cosa del genere sarebbe molto più sicura e divertente di quello che ho fatto finora.

Ma l’alpinismo estremo, le prime e le salite invernali alle vette dell’Himalaya non fanno più per me.
Tuttavia lascio una porta aperta, nel caso in cui mia moglie, Maria Jose Cardell, mi chieda di aiutarmi a tracciare una nuova via in stile alpino. In questo caso la aiuterò.

Quello che è certo è che avevo deciso di chiudere con l’alpinismo estremo ancor prima di provare il Broad Peak.

Scherzavo con i miei due “soci”, Don Bowie e Lotta Hintsa, sul fatto che questa era la mia ultima spedizione: contavo i giorni… Gli dicevo: altri 45, 30, 20 giorni prima della fine della mia carriera himalayana.

Comunque ho messo molta, molta forza e tutta la mia anima in questo ultimo tentativo. Ho fatto gran parte del lavoro di apertura della via. Avete visto i miei tre tentativi di vetta, incluso due assolo quando Don è stato male.

Ho dedicato molti anni all’alpinismo estremo, ne ho abbastanza. Ho soddisfatto le mie ambizioni e non vedo nient’altro che potrei fare.

Cosa sono riuscito a fare in eccellenza? “Shine on you crazy diamonds”: i miei “diamanti” sono le mie cinque nuove vie aperte in stile alpino sugli ottomila metri. Ho fatto scalate in alta velocità e ho stabilito record di velocità da 4.000 a 8000 m. Ha fatto due salite invernali a 8000 m.

Ho scalato vie estremamente difficili su roccia dai 2000 ai 7000 m, su bastioni e pareti in diverse parti del mondo, come il Kush-Kaya, lo Ushba, il Vittoria Peak, il Kali-Himal. Sono abbastanza soddisfatto di quello che ho fatto.

Dal punto di vista quantitativo… L’età è un problema da cui nessuno scappa. Non riesco a fare quello che potevo fare quando avevo 30 anni! È importante capirlo e non provare a correre come uno criceto su una ruota.

Ho lavorato come allenatore per 14 anni e ho riunito squadre forti. Ma tanti organizzatori e partecipanti spesso non hanno fatto abbastanza sforzi. Troppi confondono la libertà come un “fare nulla”, senza sforzo.

Un altro motivo per cui smetto è la responsabilità. Mia moglie, i miei figli e i miei genitori hanno bisogno di maggiore attenzione e sostegno. Dopotutto, mi dicono giustamente: un buon alpinista è un alpinista vivente. Voglio dedicare più tempo ai miei cari.

Soprattutto, sono stanco di perdere tempo. Questo è successo troppo spesso. Ho trascorso molto tempo ad allenarmi e per la mia famiglia e i miei amici sono mancato troppo spesso. Le spedizioni sono durate da due a tre mesi, i miei partner si sono spesso rivelati delle… zavorre, come è successo molte volte con Simone Moro.

Ed è stato lo stesso durante l’ultimo tentativo di scalare il K2 o al Broad Peak quest’anno, e intendo Don Bowie. Essere una brava persona è importante, ma non è abbastanza per raggiungere la vetta. Ho dovuto fermarmi così tante volte a causa dell’irresponsabilità delle altre persone. Ora preferisco passare il mio tempo facendo altro.

Non mi piacciono le montagne: ci ho perso molti amici lassù. Mi piacciono le azioni e voglio sentirmi libero di scegliere… il mio modo di essere libero.

Ora intendo vivere una vita comune a quella degli altri: lavoro, bambini, hobby… mi godrò la vita. E arrampicare su roccia, a livelli alti, ma in sicurezza. Sogno di arrivare, in arrampicata, a raggiungere l’8a.

Sì, è vero, ho salvato una dozzina di persone; e ne ho anche salvate molte da congelamento e altre lesioni. E per tre volte altri mi hanno salvato, per cui ringrazio i miei amici e compagni di spedizione. Ho salvato una dozzina di persone, ma questo andrebbe visto in modo diverso: pensiamo, ad esempio, ai medici dei reparti di emergenza che salvano centinaia di persone ogni giorno. L’assistenza medica è la norma nella vita per molte persone, questo rende la nostra vita migliore a Wroclaw o in altri posti.

Tutto questo mentre io e altri alpinisti, in realtà, realizziamo semplicemente le nostre ambizioni egoistiche o sportive.

Quando ho salvato Anna e Marchin, ovviamente, entrambi avevano bisogno del mio aiuto, ma loro stessi hanno trovato forza in quelle situazioni. Senza i propri sforzi, quando si è in difficoltà, tutto richiederebbe più tempo e il rischio sarebbe rischio enorme.

Mi dispiace per le persone che mentono prima, durante e dopo la spedizione. Trascorrere tre mesi in una squadra piena di alpinisti deboli, perdenti ingannevoli e pigri? Preferirei aver rifiutato.

C’erano tre o quattro buoni scalatori nella squadra K2. Questi sono Marchin, Adam, Rafal e il giovane Maciej. Ma era impossibile agire nella palude creata dagli altri alpinisti, dall’organizzazione e dalla direzione della spedizione. In effetti, negli ultimi anni abbiamo osservato [dal punto di vista dei risultati, NdT] quasi a uno zero completo nel vero stile polacco dell’arrampicata in alta quota. Sì, c’è stato Andrzej Bargel. Apprezzo quello che fa, ma è qualcosa di diverso.

Molte parole, troppe scuse, questa è è stata la realtà che ho visto. Si sono spese molte parole sul passato eroico, sui successi di Chihi, Kukuchka, Kurtika e altri, ma l’ultima generazione non è pronta per l’arrampicata sportiva.

Successi recenti per l’alpinismo polacco? Peter Moravsky e la scalata invernale sullo Shishapangma e la mia nuova via sul Gasherbrum II . Non mi sembra tanto, giusto? Nel caso in cui dimenticassi qualcosa, chiedo scusa…

Non voglio costringere nessuno a fare gli Ottomila, ma devo dire la verità. Spero che tutto ciò cambi presto, i polacchi hanno buone possibilità di fare scalate invernali sul Broad Peak, sul G1 e sul K2 . Nuove vie sula parete ovest dell’Annapurna, sulla Nord del Kanchenjunga. Scalate ad alta velocità sul Broad Peak e sul Cho Oyu attendono i veri alpinisti. E questa potrebbe essere “la nostra musica” [per i polacchi, NdT] in Himalaya e Karakorum.

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Matteo Berna Bernasconi, classe 1982, Ragno di Lecco dal 2003, guida alpina dal 2011 è morto ieri 12 maggio 2020, travolto da una valanga nel Canale della Malgina in Valtellina.

Per Matteo Berna Bernasconi
(pubblicato il 13 maggio 2020)

Matteo Bernasconi (nato a Lecco nel 1982, Ragno di Lecco nel 2003, Guida alpina dal 2011)
– 2006 nuova cascata di ghiaccio sulla parete sud-est del Baratro in Val di Mello con Giovanni Ongaro
– 2006 con Hervé Barmasse, Lorenzo Lanfranchi e Giovanni Ongaro ha aperto una nuova via sull’allora inviolata parete nord del San Lorenzo (Patagonia)
– 2008 con Fabio Salini compie la prima ripetizione italiana – e settima assoluta – della leggendaria via dei Ragni sul Cerro Torre (Patagonia)
– tra il 2010 e il 2013 tre tentativi di salire l’ultima grande parete ancora inviolata nel massiccio del Cerro Torre, ovvero la Ovest della Torre Egger, risolta infine dai compagni Matteo della Bordella e Luca Schiera nel marzo 2013 pochi giorni dopo il rientro in Italia di Bernasconi per impegni lavorativi.
– 2017 in Patagonia con Matteo Della Bordella e David Bacci apre una nuova via sulla parete est del Cerro Murallon
– 2020 (febbraio) in Patagonia con Matteo Della Bordella e Matteo Pasquetto ha aperto Il dado è tratto sulla nord dell’Aguja Standhardt, poco prima di ripetere la Via del 40esimo dei Ragni di Lecco sulla parete nord dell’Aguja Poincenot.

Il Berna

Ho già avuto modo di accennare alla parte più buia della mia passione nel raccontare storie di montagna, il confronto con la morte di donne, uomini, amiche, amici, famigliari; la scarsa attitudine di confrontarsi col mistero della scomparsa fisica, l’ineluttabilità degli eventi che in montagna travolgono anche i più prudenti.

Non si è mai preparati quando muore un giovane padre, una figura così amata come quella di Berna: con i suoi riccioli, il suo sorriso e la sua simpatia travolgente, la sua disponibilità umile e professionale di alpinista e guida alpina.

Stamattina, mentre sorseggiavo il caffè, ho visto un post muto sulla bacheca di Riky Felderer, c’era una foto del Berna. Un pugno nello stomaco.

Nel 2013 ho cominciato a scrivere grazie a una serie di messaggi scambiati con Matteo Bernasconi, che l’anno prima aveva sfiorato la clamorosa impresa sulla parete ovest della Torre Egger assieme a Matteo Della Bordella, quando i due rimasero appesi alla vita “With a Little Help from… a friend” dopo una caduta, appesi entrambi a un friend dello 0.3 mm .

Matteo Bernasconi (a sinistra) e Matteo Della Bordella. Foto: Archivio Ragni Lecco.

Così è cominciata la mia personale vicenda di modesto scrittore e cronista di cose di montagna: per la simpatia travolgente, per la professionalità, la passione che Matteo Bernasconi mi trasmise immediatamente – e lo stesso vale per l’attuale Presidente dei Ragni di Lecco, il suo grande amico Matteo Della Bordella.

Il fatto che anche il suo soprannome sia anche un po’ il mio, “Berna”, sembra buffo e sciocco, contava qualcosa di speciale per me. Non lo scrivo per retorica, lo penso davvero: senza di te, probabilmente, non avrei trovato il coraggio di scrivere ad alpinisti famosi, esperti, per cominciare il mio cammino in questa passione per persone straordinarie, capaci di imprese straordinarie, come te. GRAZIE BERNA.

Tentativo sulla Siula Grande, Matteo Bernasconi. Foto: Archivio Ragni Lecco.

Matteo, sei andato avanti troppo presto. Un immenso abbraccio alla tua piccola, alla tua compagna, ai Ragni di Lecco e a tutti gli amici.

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Altitudine, Stile e Sfinimento sullo Spantik
(pubblicato l’8 luglio 2020)

Campo Base dello Spantik. Foto: Graham Wyllie.

“Il meno difficile” dei 7000? Nell’agosto del 2019 ho seguito e poi letto la storia di una salita allo Spantik, una montagna di 7027 m nella Hunza Valley in Pakistan; lo Spantik è una meta piuttosto comune per chi si approccia alle alte quote, per la sua relativa assenza di grandi difficoltà tecniche lungo la via normale, tuttavia niente affatto facile per il lunghissimo sviluppo e alcune sezioni tecniche.

Portatori sul ghiacciaio. Foto: Graham Wyllie.

Se poi la via non è attrezzata con corde fisse e traccia, come nel caso in questione, la “relativa facilità” viene del tutto meno; i due alpinisti, infatti, affronteranno l’attacco alla vetta partendo da 5500 m su terreno completamente vergine e sconosciuto, senza corde né traccia. Per Graham, dopo una partenza fulminante e in gran forma, nel lungo attacco alla vetta, arriveranno i sintomi di mal di montagna ben conosciuti: allucinazioni e sfinimento – fortunatamente gestiti in modo eccellente e con l’aiuto della grandissima esperienza di Giampaolo, che scegliendo la tattica di salita e discesa altrettanto veloce e senza bivacchi, ha portato i due al Campo Base felicemente e senza conseguenze.

Protagonisti di questa storia sono due alpinisti di ben diversa esperienza: Graham Wyllie, 31enne e forte alpinista scozzese ma senza esperienza di alta quota e il veterano Giampaolo Corona, guida alpina Della Valle Del Primiero nelle Dolomiti, 47enne che ha scalato parecchi ottomila e altre vette importanti in Himalaya e Karakorum. Entrambi partiti in solitaria per lo Spantik, condividendo la logistica con altre spedizioni, si sono conosciuti e hanno deciso di attaccare la vetta assieme: quella che segue è la storia di questa salita scritta da Graham; un esempio di buono stile, di una nuova amicizia e di grande perseveranza su un terreno a lui sconosciuto, con l’aiuto – comunque reciproco – di Jumpy Corona.

Pur non rappresentando una impresa di particolare rilevanza alpinistica, penso che questa storia racchiuda alcuni dei valori più importanti nell’alpinismo . Ringraziando Graham per l’intervista, le splendide foto e il permesso di tradurre l’articolo apparso nel suo blog l’anno scorso,e Giampaolo per la lunga chiacchierata, il suo racconto e la visione del video ancora inedito dell’impresa (di cui sopra vedete il trailer), vi auguro buona lettura.

Giampaolo Corona, il veterano
Giampaolo Corona è una Guida Alpina con un curriculum impressionante, ma si è sempre tenuto un po’ sotto “ai radar” dei grandi media.

Ha raccontato la scalata con Graham allo Spantik QUI. Durante una lunga e piacevolissima chiacchierata al telefono, credo di aver capito alcune cose fondamentali della filosofia di Giampaolo; prima di tutto, la distinzione tra le spedizioni agli 8000 e quelle a cime più basse ma molto più tecniche: nelle prime, spesso Giampaolo parte da solo, aggregandosi per la logistica del Campo Base ad altre spedizioni commerciali, ma non utilizzando – o facendolo al minimo possibile – corde fisse né aiuto dei portatori. Scala sempre in stile alpino e leggero, in entrambi i casi. Ma sugli 8000 o sui 7000 come lo Spantik, trova generalmente in loco qualche compagno estemporaneo nella salita, e lo sceglie “molto a pelle”. La sua esperienza gli permette subito di capire se può condividere la salita. Nelle spedizioni più tecniche, invece, prepara e sceglie accuratamente il team di scalatori. Mi ha spiegato quanto sia importante per lui fare nuove amicizie, conoscere nuove persone e godersi molto il viaggio. Ma la sua preparazione è sempre accurata e approfondita. Dalla sua prima esperienza himalayana mi ha detto di essersi immerso in testi e trattati tecnici sulla preparazione per l’alta quota. Per lui è importante ottimizzare molto il tempo di acclimatamento e poi salire il più velocemente possibile, portandosi dietro lo stretto necessario.

Infatti scrive:
Considero il mio corpo come un motore da preparare, l’attrezzatura è il mio hardware, la testa è il mio software. Hai la testa o no. Senza di essa è meglio non andarsene.
Sto cercando la semplicità, l’essenziale. La perfezione si ottiene quando non c’è più niente da togliere, non quando non c’è più niente da aggiungere. L’arrampicata veloce e leggera sembra facile, in realtà è il risultato di un enorme lavoro a monte (preparazione sia tecnica che fisica oltre che psicologica). Nulla è inventato
”.

E poi spiega:
La via di salita per lo Spantik è lunga e complessa (cresta, zone miste, ripidi pendii di neve e ghiaccio, lunghissimo “altopiano. Un percorso che si snoda per 8 km, 2500 metri di salita. Dopo soli 8 giorni dall’arrivo al campo base, mi sentivo pronto. Avrei usato un solo punto di supporto a 5500 m di altitudine dove avevo lasciato la mia tenda e gli elementi essenziali per un bivacco, saltando il classico campo 1 e 3. Mi ero imposto una volta raggiunta la cima di scendere dritto al campo base”.

Avrei persino accettato di provare ad arrampicare completamente da solo… Per caso poi ho incontrato lì un giovane e forte alpinista scozzese, Graham Wyllie, che era d’accordo con me su leggerezza e semplicità, quindi mi sono detto: perché non provarci insieme?“.

Alla fine, Giampaolo si è trovato molto bene con il giovane Graham, ed è nata una vera amicizia. Questo, per Giampaolo, è il vero valore aggiunto nel vivere un alpinismo pulito e leale. 

Intervista a Graham Wyllie

Graham Wyllie con due portatori pakistani, Arandu Bridge, in avvicinamento allo Spantik

Questa è stata la tua prima esperienza in Karakorum/Himalaya? Come hai organizzato la spedizione e quanto tempo hai dedicato a prepararti, logistica, attrezzature, ecc.?
Questo è stato il mio secondo viaggio sulle grandi montagne dell’Asia. La mia prima volta è stata nel 2008, quando ho fatto parte di una squadra di 4 persone che ha tentato un picco a sud del Masherbrum chiamato Cathedral Peak (6247 m). Il tempo era brutto e abbiamo raggiunto solo poco più di 5500m in quota. Avevo 19 anni allora, la spedizione mi ha dato una preziosa esperienza e un punto di riferimento su cui basare le mie future spedizioni. Mi ha aiutato molto per lo Spantik,avendo molte meno incognite dal punto di vista logistico. Alcuni amici di arrampicata erano interessati al viaggio verso la fine del 2018, ma quando alla partenza nel giugno 2019 siamo rimasti in due, il sottoscritto e Andra.

Abbiamo usato la stessa agenzia locale usata nel 2008 e abbiamo acquistato solo un servizio logistico per il campo base. Questo ci ha sollevato dallo stress nell’avvicinamento alla montagna e ci siamo rilassati e concentrati sull’acclimatamento e sul godersi la bellezza impressionante dei luoghi. Avevamo una tenda, niente portatori e niente corde fisse.

Tenda comune al campo base. Foto: Graham Wyllie.

Abbiamo scalato il più possibile in stile alpino e avevo con me l’attrezzatura e il vestiario simile a quello che uso in Scozia in inverno. A prima vista, lo “stile alpino” dovrebbe essere leggero, ma quando si sposta una tenda, un sacco a pelo, un fornello, un cibo, ecc. non è proprio così! Per l’equipaggiamento da spedizione come radio, tenda d’altitudine, telefono satellitare, ecc., Andra è membro del Club alpino olandese (NKBV) che ci ha permesso di prendere in prestito praticamente tutto il kit specifico di cui avevamo bisogno, il che è stato fantastico.

Il campo 1. Foto: Graham Wyllie.

Come ti sei preparato – se l’hai fatto – per l’alta quota e per questa spedizione?
Per l’altitudine non ho fatto nulla di specifico prima del viaggio. Il punto più alto della Scozia è 1345 m, quindi cercare di ottenere un po ‘di acclimatazione naturale avrebbe significato andare all’estero. Ero più concentrato sulla mia forma fisica e sui miei livelli di energia. Nell’estate del 2018 avevo lasciato il lavoro e trascorso 2 mesi nelle Alpi. Ciò, combinato con molte arrampicate invernali in Scozia, mi ha fornito una grande base specifica di fitness aerobico. Ho dovuto fare alcuni lunghi viaggi di lavoro durante la primavera, ma era un lavoro piuttosto fisico e potevo anche usare la palestra, quindi sono riuscito a rimanere abbastanza allenato. Il mese prima del viaggio ho fatto un po’ di corsa in collina e qualche arrampicata su roccia. Dopo essermi sforzato molto in inverno e poi con i viaggi con il lavoro, sono stato attento a non esaurirmi e ho puntato ad arrivare nel Karakorum ben riposato.

D. Quanti anni hai e qual’è, in breve, la tua storia con l’arrampicata e l’alpinismo?
Ho 31 anni e frequento e amo le montagne dall’età di 9 anni, quando mio padre iniziò a portarmi in collina in Scozia. Durante l’adolescenza andavamo in vacanza sulle Alpi. Vedere picchi come il Dent du Géant e il Weisshorn mi ha davvero ispirato ad arrampicarmi e acquisire le competenze necessarie per affrontare le grandi montagne europee. È stato in questo periodo che ho iniziato a leggere la letteratura alpinistica che ha aggiunto più combustibile al fuoco della passione. Alla fine del 2007 ho intrapreso la mia prima via invernale facile in Scozia e ho iniziato il lungo processo di costruzione dell’esperienza e delle conoscenze tecniche alpinistiche. Nel 2008 ho cominciato i miei primi 4000 m sulle Alpi e ho partecipato alla mia prima spedizione extraeuropea. Ho proseguito lentamente scalando molte vie, anche sulle Alpi. Attualmente mi concentro sull’arrampicata più tecnica in Scozia, sia in estate che in inverno, e spero di potermi dedicare a obiettivi seri ed entusiasmanti sulle Alpi e sulle Catene Asiatiche nei prossimi anni.

Spantik: il racconto di Graham

Ritorno dal C2. Foto: Graham Wyllie.

Ero più alto di quanto non fossi mai stato. Da qualche parte sopra i 6500 m sulla cresta sommitale dello Spantik. Ci sono volute tre settimane per arrivare a questo punto. Tre settimane di volo, guida, trekking, arrampicata e acclimatazione. Mi sentivo in gran forma quando abbiamo lasciato il Campo 2 a 5500 m verso le 01:30 di mattina, ma ora l’altitudine rendeva i pochi passi che stavo facendo pieni da pause e respiro pesante. I progressi erano lenti e ho avuto l’allucinazione di vedere Messner con una giacca con cappuccio davanti a me.

Andra sulla via del C2. Foto: Graham Wyllie.

A parte il mio corpo, anche la mia mente sentiva l’altitudine, giocando brutti scherzi e inquinando la mia concentrazione con confusione e giocandosi di me. Non era Messner che vedevo ogni tanto, era Jumpy (Giampi Corona, NdR) una guida italiana delle Dolomiti.

Questo è stato il nostro primo giorno in assoluto di scalata insieme: ci siamo incontrati appena una settimana fa ma le circostanze ci hanno uniti.

Jumpy Corona. Foto: Graham Wyllie.

Insieme a sensazioni di de-ja-vu sentivo un’altra presenza familiare con noi, una donna anziana, forse la madre di qualcuno che seguiva la nostra scia zigzagante attraverso la neve profonda fino alla caviglia.

C’era una sezione rocciosa con neve ripida davanti. Non sembrava mai arrivare, anche se vicina. Continuavo a seguire le tracce di Jumpy, ora ero troppo indietro per fare il mio turno aprendo la pista. Se fosse stato più vicino forse gli avrei detto che sarei tornato indietro.

Tra C2 e C3, sezione ripida e tecnica. Foto: Graham Wyllie.

Passò un po’ di tempo con ben pochi progressi. Una lotta costante e le stesse allucinazioni. In poco tempo il vento gelido diventò un problema e ogni 5-10 minuti facevamo sosta per scaldarci le mani gelide. Piano piano, avanzammo verso lo sperone roccioso. Solo altri 20 o 30 metri di lotta poi la vetta e finalmente scendere! Alla fine abbiamo superato la sezione ripida ma la cresta continuava verso l’alto. Ho raggiunto Jumpy. Ha detto che ci sarebbero voluti altri 50 m di altitudine. Ho provato a fare la traccia ma mi ha sorpassato.

Sul plateau prima della sezione sommitale. Foto: Graham Wyllie.

La lotta è andata avanti così, a lungo, poi siamo arrivati. Un nudo altopiano di neve. Ho colto finalmente il frutto di un’idea che ho avuto, in solitudine, in un bar di Canazei più di un anno fa e da allora c’è stata tutta la pianificazione, il viaggio e la spedizione, la scalata. Mi sono emozionato. La pura gioia, sperimentata ben poche volte prima di ciò: quando i sogni vengono realizzati, quando sei esattamente dove sai che dovresti essere.

Graham in vetta. Foto: Archivio Graham Wyllie.
Giampaolo in vetta. Foto: Graham Wyllie.

Non abbiamo trascorso molto tempo in vetta, forse dieci minuti poi la discesa alle 1130 circa. La prima parte della discesa è andata bene.
Abbiamo ripercorso i nostri passi lungo la cresta e raggiunto i nostri materiali lasciati sull’altopiano. Quindi ci siamo spostati verso la cima della cresta sud-est e verso la via normale per il Campo 3. La sezione tra questo e il Campo 2 è il punto cruciale del percorso: Andra (l’alpinista olandese suo iniziale partner, NdR) e io avevamo vissuto un po ‘di epopea qui la settimana precedente, quando abbiamo cercato di installare il Campo 3. Per la maggior parte degli scalatori questa sezione è stata percorsa in sicurezza da corde fisse, ma nessuna squadra l’ha sistemata in quasi un mese, lasciandola ora incompleta e tratti pericolosi. Arrampicarsi in buone condizioni è facile, arrampicarsi mentre si è esausti e dopo che il sole di mezzogiorno ha reclamato il suo pedaggio sullo stato del ghiaccio è una questione diversa.

Giampaolo in zona C3. Foto: Graham Wyllie.

Jumpy proseguiva. Non poteva fare molto per me. Procedevo metodicamente in avanti lungo il ripido ghiaccio zuccherino, fermandomi spesso per le pause. Ho accarezzato l’idea di fare un abalakov in corda doppia ma non era una soluzione pratica, avrebbe significato estrarre e srotolare la corda, che era ancora stivata nel mio sacco da tutto il giorno. Alla fine ho raggiunto un terreno più facile oltre un bergschund e ho fatto rapidi progressi lungo un pendio nevoso, quindi ho raggiunto lo sperone roccioso che corre per circa 100 metri al centro della parete. Passato questo punto, la metà inferiore della parete è più ghiacciata, sebbene meno ripido rispetto alla sezione più in alto. Senza stanchezza normalmente avrei fatto un rapido lavoro su questo terreno nonostante le sue pessime condizioni. Ma in questa giornata è andata diversamente. Avanzai affrontando il pendio e lottando costantemente per il mio equilibrio d’appoggio. La prima sezione è andata bene. Partendo dalla sezione successiva i miei ramponi hanno ceduto e ho iniziato a scivolare giù per il pendio. Dopo 10-15 m con una manovra d’arresto con piccozza mi sono fermato con una piccola valanga di ghiaccio zuccherino che scorreva intorno a me. Ho puntato rapido verso il resto del pendio.
Il resto della via fino a campo 2 è trascorso senza ulteriori incidenti. Qualche crepaccio ma ovvio e facile da attraversare o da evitare. L’unico altro problema era la neve. Resa molle dal caldo del sole era una tortura. Non importa, mi dissi, presto sarei potuto felicemente crollare nella mia tenda al campo 2. Verso le 16.30, quando arrivai, Jumpy aveva già smontato la sua tenda e mi stava aspettando. Mi informò del maltempo in arrivo e che quindi dovevamo scendere direttamente al campo base. Era l’ultima cosa che volevo sentire, ma aveva ragione e restare non era proprio un’opzione. Ho fatto i bagagli, messo le attrezzature per cucinare e dormire da parte e mi sono trovato con uno zaino piuttosto pesante.

In discesa sulla cresta sud-est. Foto: Graham Wyllie.

Ormai conoscevo bene la via dal campo 2. Andra e io avevamo viaggiato alcune volte nei nostri sforzi per acclimatarci e prepararci per il nostro tentativo di vertice. Tra il campo 2 a 5500 m il campo 1 a 5050 m il percorso è una dorsale ondulata di neve lunga quattro chilometri. È abbastanza esposta e scenica in alcuni punti. Ci sono crepacci e cornici occasionali ma nulla di eccessivamente serio. Il problema principale quando si scende a questo orario è la condizione della neve. Jumpy proseguiva. Mi teneva d’occhio per assicurarsi che stessi proseguendo – ma non aveva senso che entrambi andassimo al mio ritmo, metodico ed esausto. A volte mentre sprofondavo sulle mie ginocchia nella neve capivo che eravamo vicini e mi sentivo un po’ meglio.
Alla fine sono arrivato al primo campo e si stava facendo buio, quindi ho indossato la torcia frontale. Ho iniziato a sentirmi un po ‘meglio e sono riuscito a muovermi un po’ più velocemente. Forse questo era l’effetto benefico della bassa quota c o il fatto che il percorso da qui fosse praticamente in discesa. Il percorso fino al campo base da qui è stato buono. Era ripido in alcuni punti ma ben segnalato e privo di neve; costituito principalmente da terra, ghiaia e roccia frantumata anche se abbastanza stabile. Vidi due luci che si avvicivano. Era Andra ad accoglierci e congratularsi, assieme a un emotivo Paco (il nostro cuoco / riparatore locale), che è emerso dall’oscurità e mi ha abbracciato. Penso di non aver mai incontrato una persona più felice a vedermi! Mi ha preso il sacco per le restanti poche centinaia di metri al campo base arrivando poco dopo il 21.00, dove siamo stati accolti dalla spedizione catalana, dai cuochi di Jagged Globe e da altri portatori che si congratularono con noi.

Il Campo Base visto dal C1. Foto: Graham Wyllie.

Alla fine sono molto soddisfatto dello stile della mia salita. Una lunga spinta dal campo 2 in vetta non sarebbe stata facile, soprattutto per tornare in BC lo stesso giorno. Con il senno di poi, io e Andra siamo riusciti a stabilire il campo 3, quindi credo che avremmo comunque fatto vetta insieme. Questo, tuttavia, ci avrebbe costretto a rimanere bloccati al campo 3 per un fine settimana di maltempo. Una lunga spinta dal campo 2 è diventata l’unica opzione dato il tempo che ci restava e questo non è stato certamente il modo più semplice per scalare lo Spantik. La mancanza di corde fisse significava anche che il rischio di una difficile discesa fino al campo 2 dall’altopiano, quando i livelli di energia erano bassi, e doveva essere attentamente valutata nella sua fattibilità. Sia per Jumpy, che ha una notevole esperienza sulle vette di 8000 m, sia per me lo Spantik è stato più duro di quanto la sua reputazione suggerisca. Ciò può essere riconducibile alla lunga scalata in stile alpino che è stata la nostra ascesa; ho comunque percepito che non è certo una montagna da sottovalutare. Si tratta di una vetta di 7000 m con un lungo percorso e passaggi tecnici soggetti al clima e alle condizioni del Karakorum.

Ci vuole un sacco di tempo e fatica per scalare picchi di questa scala. Ci sono volute 4 settimane di viaggio, trekking, acclimatazione e arrampicata e questo solo per avere una possibilità in vetta, senza includere la preparazione prima del viaggio per logistica, kit, permessi e visti. Il modo in cui si fa acclimatazione, il rimanere in salute ed essere abbastanza in forma sono tutti fattori decisivi e, naturalmente, si collegano al livello di rischio che si è disposti a correre in un ambiente ostile. Il tempo ha sempre voce in capitolo e puoi facilmente passare giorni seduti al campo aspettando che cambi, come ho fatto in una precedente spedizione senza successo a una vetta della zona. La metà del nostro tempo passato sullo Spantik è stata spesa riposando o aspettando le finestre di bel tempo al campo base. Anche il viaggio stesso, vale a dire i luoghi e le persone incontrate, devono essere fattori apprezzati perché se tutto fosse vissuto come “un intermezzo” per arrivare in cima, il viaggio risulterebbe assai deludente!

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Roberto Delle Monache: il mio alpinismo, il mio amico Daniele Nardi e la via sul Baghirathi. Ringrazio di cuore Roberto Delle Monache.

Il Seme Della Follia fa l’Albero della Saggezza
Roberto Delle Monache è un alpinista abruzzese, quindi ”appenninico”: cresciuto sulle montagne di casa, il Gran Sasso.

Come il suo grande amico Daniele Nardi, proviene dall’Italia Centrale. Persona riservata e sensibile, ha affrontato nella sua carriera vari infortuni ma continuando a perseguire un alpinismo leale e a sviluppare una grande esperienza di alte quote. Con Daniele Nardi ha ideato e creato una linea sulla parete ovest del Baghirathi III,tra imponenti muri di scisto e ghiaccio, terreno di sfida per gli alpinisti più esperti, che secondo me rappresenta il punto più alto della sua carriera e di quella di Daniele Nardi.

Roberto Delle Monache

Per questa via, i due hanno vinto il prestigioso Premio Consiglio, assegnato dagli Accademici del CAI, e ricevuto una nomination per i Piolet d’Or. E’ una via “incompiuta”, non hanno raggiunto la vetta: ma per come è stata scalata e discesa dai due, è una summa di creatività, improvvisazione, tenacia, tecnica e amicizia alpinistica su una parete iconica per ogni alpinista d’alta quota.

Dopo la morte di Daniele Nardi sullo sperone Mummery, assieme a Tom Ballard, Roberto Delle Monache non ha mai voluto partecipare a incontri, conferenze, commemorazioni per sua intima scelta; il dolore provato, che espresse al tempo con una scarna e commovente dichiarazione, non ha mai voluto esternarlo in pubblico. 

Roberto, da sempre, è un’alpinista schivo e umile. Scala per amore di scalare, senza alcun altro fine. Ricordo di averlo “visto” per la prima volta nel video di Nardi, diretto da Federico Santini Verso l’ignoto, in occasione di uno dei tentativi allo sperone Mummery del Nanga Parbat. Roberto appare umanissimo, e ben presto rinuncia alla scalata, per problemi alla schiena e perchè evidentemente non se la sentiva. (Incredibile che quell’anno, il 2015, questa rinuncia di Roberto finì per portare Daniele Nardi ad aggregarsi, su invito, al team di Alex Txikon e Ali Sadpara che tentava l’invernale sulla via “normale” Kinshofer. I tre arrivarono a 200 metri dalla vetta e si ritirarono per l’errore di Ali Sadpara nel trovare il canalone giusto e per le sue condizioni fisiche problematiche.)

Così, il fatto che per la prima volta Daniele, su mio discreto invito, in occasione del suo compleanno nel mese di luglio, abbia accettato di ricordare quella esperienza e parlare del suo amico Nardi, rappresenta un momento di elaborazione del lutto e nello stesso tempo di celebrazione di una vera amicizia sulle montagne. E’ con grande piacere, e commozione, che vi propongo il suo racconto.

Il racconto di Roberto: su Daniele, assieme sul Baghirathi III
Dopo l’uscita dell’ultimo libro di Daniele, ho declinato tutti gli inviti alle presentazioni, non riuscivo a parlare di quello che è successo intorno al Nanga. Io e Daniele ci siamo conosciuti venti anni fa, e siamo praticamente cresciuti insieme sia alpinisticamente e sia come persone. Eravamo Amici.

Probabilmente ho sbagliato nel non andare a nessuna presentazione, ma purtroppo è stato più forte di me. Questa è la prima volta che scrivo qualcosa su Daniele e sul nostro rapporto.

La spedizione del 2011 in India è nata un po’ per scherzo un po’ per caso. Nel 2010 mi hanno ricostruito la spalla destra che mi ero distrutto due anni prima sempre con Daniele al Monte Bianco. A gennaio del 2011 ero in Val di Cogne con amici per cascate di ghiaccio quando mi arriva una telefonata, era Daniele.
– Dove sei?
Io gli rispondo che ero a Cogne per ricominciare a scalare un po’. Allora lui mi dice: “Va bene, fammi organizzare un po’ di cose e tra un paio di giorni sto su”.

Dopo due giorni era al parcheggio dell’albergo, e lì ha cominciato tutta la sua opera di convincimento. Quando si metteva una cosa in testa andava fino in fondo, alla fine mi ha preso per sfinimento.

Nell’agosto 2011 siamo in India, è stato un viaggio fantastico, ci siamo divertiti. Dovevamo fare tutt’altro ma le condizioni meteo non ci permettevano di scalare su roccia, si era creata una condizione di freddo umido che aveva incrostato tutto di ghiaccio, allora un giorno durante un giro per sgranchire un po’ le gambe la nostra attenzione è stata catturata dall’eleganza di una line bianca.

In un attimo siamo tornati al campo base, i siamo organizzati, abbiamo detto all’ufficiale di collegamento che andavamo a vedere quella cosa e che in una giornata massimo con un bivacco fuori poi saremmo rientrati. Il giorno dopo eravamo sulla via. E’ stato un viaggio fantastico! Ci siamo accorti subito che il ghiaccio non era dei migliori, ma abbiamo pensato che con l’aumentare della quota sarebbero migliorate anche le condizioni del ghiaccio, poi la curiosità di vedere dove ci portava quella linea era troppo forte, solo al momento del primo bivacco ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: ”questa volta ci siamo messi veramente nei casini” e ci siamo messi a ridere.

Tutto lo spirito di quella scalata è stato positivo, ci siamo resi conto che il ghiaccio non avrebbe tenuto il peso delle nostre doppie, non avevamo materiale sufficiente per attrezzare soste su roccia, pero sapevamo di avere l’esperienza e la capacità di capire che l’unica via di uscita era verso la cresta e che avevamo i mezzi per farlo. In fondo tra tutti e due lì di esperienza ce n’era… Così ci siamo detti! Abbiamo scalato tanto tutti e due, abbiamo risolto problemi e affrontato i pericoli sempre insieme, sempre legati. E nonostante tutto abbiamo continuato a divertirci e a sorridere.

Quando siamo sbucati in cresta erano quasi le 22.30, creata la truna per il bivacco ci siamo sistemati come potevamo, li ci siamo accorti di avere un principio di congelamento a mani e piedi.

Abbiamo preparato una tazza di acqua tiepida a testa e abbiamo mangiato quel poco che era rimasto, erano già 52 ore che eravamo in giro. Anche se eravamo quasi sfiniti e congelati eravamo contenti di aver scalato quella linea bianca lungo una parete di 1200 metri quella linea che ci aveva affascinato dal basso.

Il mattino seguente abbiamo tentato di seguire la cresta per arrivare in cima ma fatto pochi metri ci siamo resi conto che era troppo pericoloso, sul filo di cresta c’era oltre un metro di neve della consistenza dello zucchero.

Abbiamo capito che la cresta era impraticabile sia per arrivare in cima come anche per scendere, essendo anche l’unica via di discesa che ci avrebbe riportato verso il Bhāgīrathī III e di lì poi verso il campo base, allora abbiamo deciso di puntare giù dritti verso la verticalità della parete est con il poco materiale che avevamo.

Quella discesa è stata un’altra spedizione, quando siamo arrivati alla base della parete avevamo nebbia neve e vento forte con una visibilità di meno di 100metri, eravamo scesi dall’altra parte della montagna non avevamo punti di riferimento.

Quelle sedici ore del ritorno al campo base sono state le più dure, sentivamo il peso degli zaini ci facevano male le mani ed i piedi, avevamo bisogno di mangiare bere e dormire. Allora abbiamo deciso di camminare un po’ e di sederci circa 2 minuti, tempo in cui riuscivamo a dormire. Sono state 16 ore molto pesanti.

Quando in piena notte l’ufficiale di collegamento ci vede abbiamo realizzato che ci aveva dati per dispersi. Eravamo usciti per una ricognizione di una giornata e con quello che serviva, alla fine siamo stati in giro per 68 ore in totale isolamento.

In questa avventura la nostra priorità non è mai stata la corsa dietro il risultato, eravamo solo due amici dentro uno parete grandiosa attratti dalla sua eleganza, per me è stata l’esperienza alpinistica più gratificante. Sicuramente ha cambiato il mio rapporto con la montagna e con l’alpinismo, ha sicuramente definito con chiarezza che tipo di alpinista sono. Sono stati tre giorni di grande alpinismo.

Il giorno dopo arriva al campo base la notizia della morte di Walter Bonatti e ci è sembrato giusto dedicargli Il seme della follia… fa l’albero della saggezza!

Dopo qualche giorno per riprenderci ed organizzare il rientro, con piedi che a malapena entravano nelle scarpe, le mani gonfie e doloranti, malincuore e naso in su per quante altre possibilità di scalata c’erano in quel paradiso di roccia e ghiaccio siamo costretti a rientrare.

Roberto Delle Monache: la mia storia alpinistica
Ho cominciato relativamente tardi nel 1994 con amici per curiosità, prima falesie poi le montagne di casa, il Gran Sasso, e le prime esperienze in Monte Bianco, Monte Rosa e Cervino. Nel 1998 la prima esperienza extraeuropea, nello Zanskar (India) sul Kun 7077 m: il tentativo si ferma a 6000 m.

Poi nel 2000 arriva l’Argentina, l’Aconcagua 6962 m per il versante dei polacchi: la spedizione va a buon fine.

Durante gli allenamenti per l’Aconcagua ho incontrato Daniele, e nel giugno del 2001 ci troviamo ai piedi del Gasherbrum II 8035 m: il nostro tentativo finisce per maltempo ma soprattutto per inesperienza a 7400 m. Nel 2003 al Shisha Pangma 8013 m il mio tentativo si ferma a 7300 m, un’altra cima mancata per un mio stupido errore.

Tornato a casa durante l’inverno mi sono infortunato al ginocchio destro per una caduta con gli sci, fermo per quasi due anni. Nel 2006 vado al Cho Oyu 8201 m: il mio tentativo si ferma al campo 2, a 7200 metri per un forte dolore al fianco. A questo punto il mio morale era sotto terra, tre tentativi andati male.

A Kathmandu incontro Silvio Gnaro Mondinelli, con il quale avevo già condiviso due spedizioni, che mi dice vieni in primavera al Broad Peak così io faccio l’ultimo e tu fai il primo. A primavera facevo il trekking lungo il ghiacciaio del Baltoro e il 12 luglio del 2007 con mille difficoltà metto piede a 8000 metri, sulla cima del Broad Peak Middle 8040 m.

Nel 2008 e 2009 giro un po’ le Alpi con Daniele facendo belle ascensioni tra cui la Cresta des Hirondelles e il Pilone Centrale del Frêney, e infortunandomi alla spalla. Nel 2010 sono stato operato alla spalla. Nel 2011 con Daniele in India al Bhāgīrathī. Nel 2012 mi sono rotto il legamento crociato del ginocchio sinistro.

E poi nel 2015 Daniele mi chiede di andare con lui al Nanga per dargli una mano con Federico Santini, fotografo cineoperatore e regista del docufilm Verso l’ignoto. Io nel mentre ho trovato anche tempo per farmi male anche alla schiena, non dovevo scalare, pero poi mi sono ritrovate sotto lo sperone.

Ho aggiunto anche i miei infortuni perché questi hanno segnato seriamente la mia carriera.

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Dopo la bella prima del K6 Central di Jeff e Priti Wright, un altro duo francese ha effettuato una notevole prima in Karakorum: Revers gagnant, di Pierrick Fine e Symon Welfringer. 2500 m, 90°/M4+/WI4+, 16-20 ottobre 2020.
Ecco il loro racconto, ringraziando Ali Saltoro di Alpine Adventure Guides per la solita disponibilità nell’aggiornarci.

Sani Pakkush, parete sud: team francese per una grande prima 

Pierrick Fine e Symon Welfringer in cima al Sani Pakkush. Foto: Fine/Welfringer.

Arrivati ​​all’inizio di ottobre sul ghiacciaio Toltar ci siamo acclimatati intorno al nostro campo base situato alla base della massiccia parete sud del Sani Pakkush 6953 m, finora inviolata.

Dopo due settimane di acclimatamento ci siamo sentiti pronti per cimentarci in questa grande sfida alpinistica. Le cattive condizioni meteorologiche ci hanno fatto aspettare alcuni giorni ma finalmente il sole e bel tempo per una settimana ci hanno permesso di tentare la difficile prova.
Il primo giorno, dopo una partenza anticipata alle 2 del mattino dal nostro campo base, abbiamo incontrato le prime difficoltà a quota 5000 m proprio all’inizio della parete, con alcuni tiri di ghiaccio sostenuti; seguiti poi da alcuni più facili tratti innevati e di misto. A circa 5600m abbiamo fatto uno dei tiri più difficili di M4+/M5,per poi trovare una piccola cengia che ci ha concesso un bivacco un po’ scomodo.
Il secondo giorno siamo riusciti a salire in parete e abbiamo fatto due fantastici tiri di ghiaccio puro. A circa 6200 m cercavamo un bivacco disperato ma non riuscivamo a trovarlo!

Alla fine siamo stati costretti ad aspettare l’alba appoggiati al muro.
Il terzo giorno eravamo davvero esausti, dopo questi due brutti bivacchi. Abbiamo deciso di mettere la nostra tenda a quota 6400 m sulla cresta sommitale, dove finalmente abbiamo trovato uncomodo crepaccio per riposarci.
Il 19 ottobre abbiamo deciso di tentare la vetta leggeri, senza tanti attrezzi. Abbiamo lasciato il bivacco e abbiamo percorso gli ultimi 500 m sulla cresta sommitale innevata. Cresta di qualità in cambiamento costante, sempre più difficile arrivare in vetta, ma dopo 7 ore di duro lavoro, a volte scavando nella neve fresca, siamo arrivati ​​alle 14 completamente esausti sulla cima del Sani Pakkush a 6953 m!

Abbiamo trascorso il nostro ultimo giorno scendendo da questa massiccia parete di 2500 m, effettuando dalle 20 alle 25 doppie. Nel tardo pomeriggio del 20 ottobre, siamo tornati sani e salvi al campo base, vuoti di tutte le nostre energie e di molte emozioni nelle nostre menti.

La parete sud del Sani Pakkush. Foto: Fine/Welfringer.
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