Vita breve di un rifugio

Vita breve di un rifugio
(la grotta del Cervino)
di Ledo Stefanini (Accademia Nazionale Virgiliana)

Nel 1867 sulle falde (questa l’espressione allora in uso) del Cervino, alla quota di 4134 m, venne realizzato un rifugio che per alcuni anni restò la sola possibilità di ricovero per chi volesse raggiungere la vetta per la Cresta del Leone. Georges Carrel, canonico di S. Orso di Aosta, ne aveva proposto la costruzione a Felice Giordano, geologo e alpinista, che era tra i fondatori del Club Alpino Italiano. Il tempo era quello immediatamente successivo alla prima salita del Matterhorn, riuscita all’inglese Edward Whymper per la cresta svizzera il 14 luglio 1865, e al valligiano di Valtournenche Jean-Antoine Carrel il 17 seguente, per la cresta italiana.

La ricognizione di Felice Giordano
Felice Giordano (Torino 1825 – Vallombrosa 1892), rappresentò l’edizione italiana degli alpinisti vittoriani. Geologo, dedicò gran parte della sua vita alla progettazione di miniere. Valente alpinista, nel 1863, con Quintino Sella, Bartolomeo Gastaldi, Giacinto di Saint-Robert e Giovanni Barracco, partecipò alla fondazione del Club Alpino Italiano, i cui fini erano ricalcati dal modello inglese. Dal punto di vista scientifico il maggior merito di Giordano fu la progettazione e la realizzazione della Carta Geologica d’Italia. Come alpinista, dimostrò il suo valore nel 1864 compiendo la seconda ascensione del Monte Bianco dal Colle del Gigante per il Mont Blanc du Tacul. Anche per questo, oltre che per i meriti scientifici, fu designato da Quintino Sella e dal Presidente Bartolomeo Gastaldi a dirigere le operazioni per la conquista italiana del Cervino in concorrenza con l’inglese Whymper.

Fig.1. Jean-Antoine Carrel, da Guido Rey, Il Monte Cervino, 1904

Com’è noto, questi ne raggiunse per primo la vetta dalla cresta svizzera il 14 luglio 1865, mentre il valdostano Jean-Antoine Carrel la raggiunse per la cresta italiana tre giorni dopo.

Una volta accettata, da parte della direzione del Club Alpino, la proposta di don Georges Carrel, canonico della collegiata di S. Orso di Aosta, di realizzare un ricovero per gli alpinisti che volevano raggiungere la vetta per la Cresta del Leone, si presentò la necessità di compiere un’ispezione del sito che era stato individuato; vale a dire una sorta di caverna su quella che era nota come la Cravatta del Cervino, ad una quota superiore ai 4000 m.

Recatosi il 18 luglio a Valtornanche (questa la scrittura adottata al tempo) Giordano, ingaggiò le tre guide che l’anno prima avevano compiuto la prima salita italiana, cioè Jean-Antoine Carrel, Jean-Baptiste Bich, Jean-Augustin Meynet. Il punto di partenza era l’albergo sopra il Breil, in località Giomein, e la data fissata per domenica 22. Nonostante la pressione atmosferica, accuratamente controllata da Giordano, fosse in calo, il gruppo partì alle 3 e mezza, con l’accompagnamento di cinque “portatori”, «destinati a portare tende, coperte, strumenti e bastevoli provviste sino al luogo assai elevato detto la Cravatta ove doveasi probabilmente stabilire il progettato ricovero».

A mezzogiorno il gruppo raggiunse una piccola piattaforma a 3830 m di quota, luogo in cui Whymper aveva bivaccato più volte, e dove ora sorge la capanna Carrel. Qui venne eretta una tenda che lo stesso Presidente Gastaldi aveva messo a disposizione. Il giorno successivo, grazie ad una robusta corda disposta l’anno precedente dalle guide a sostituirne un’altra, meno sicura, lasciata da Tyndall, superarono un ripido salto di roccia di 16 m. Solo a mezzogiorno raggiunsero la grande cengia della Cravatta. Per raggiungere il sito suggerito dal Canonico era necessario percorrerla per un centinaio di metri in direzione sud. Davanti alla cavità naturale si trovarono in sette: oltre a Giordano e alle tre guide, vi erano giunti anche tre dei portatori: Giuseppe e Pietro Maquignaz e Salomone Meynet che, nel pomeriggio, ridiscesero alla tenda più in basso. Mediante i diversi barometri di cui disponeva, Giordano stabilì la quota essere di 4134 m. Cosa confermata dal «Bollitore di Casella»: l’acqua bolliva infatti alla temperatura di 87°C.

Ispezionarono la cavità e ne misurarono le dimensioni: larga circa 8 m, con un’altezza variabile fra i 2 e i 4,5 m, ed una profondità fra i 2 e i 3 m.

I giorni 24, 25 e 26 il maltempo mantenne gli alpinisti al precario riparo della caverna, con temperature inferiori allo zero. Il 27 i barometri registrarono un aumento della pressione e Giordano decise di tentare di raggiungere la vetta; ma ben presto dovette rinunciare.

Io vedea distintamente su di questo il bastone della nostra bandiera piantatovi l’anno scorso da Carrel, e che ora stava alquanto inclinato al sud; un paio d’ore bastavano forse per superare li 200 m o poco più che ancora restavano. Dopo tormentate esse guide con le domande più insistenti per veder se non si potesse in qualche modo proseguire, dovetti con rammarico indicibile rinunciarvi mentre ancora non erano le 9 antimeridiane”.[1]

Ridisceso alla Cravatta verso mezzogiorno, a dispetto delle cattive condizioni atmosferiche annunciate dal barometro, Giordano decise di trascorrere un’altra notte davanti alla Balma. La mattina successiva, la rinuncia alla vetta divenne la decisione più ragionevole: a mezzogiorno erano alla tenda inferiore e prima di sera al Giomein. Partiti domenica 22, erano tornati il sabato 28, dimostrando un’altissima capacità di resistenza alle condizioni meteorologiche avverse.

Alpinismo inglese e alpinismo italiano
Non si può parlare del Cervino senza citare il Monviso, per la quota – 4478 m per il primo; 3841 m per il secondo – ma, soprattutto per le forme che li rendono singolari rispetto al panorama circostante. L’ascensione alla vetta del Monviso fu compiuta per la prima volta dagli inglesi William Mathews e Frederick Jacomb con le guide Jean-Baptiste Croz e Michel Croz di Chamonix, il 30 agosto 1861, quando il Regno d’Italia non esisteva che da sei mesi. La risposta italiana venne il 12 agosto 1863, quando una comitiva formata da Quintino Sella (allora ministro delle finanze del Regno d’Italia), dai fratelli Giacintoe Paolo Ballada di Saint Robert e dal calabrese Giovanni Barracco, deputato al parlamento,compì la prima ascensione italiana, con l’apporto prezioso delle guide locali Raimondo Gertoux, Giuseppe Bouduin e Giovan Battista Abbà. L’anno precedente un altro “viaggiatore” inglese, Francis Fox Tuckett, aveva trascorso la notte tra il 4 e il 5 luglio sulla cima della montagna.

Con ciò si concludeva il confronto sulla montagna piemontese; ma rimaneva aperto su quello che John Ruskin (uno dei padri dell’estetica della montagna) – nella manifesta speranza che non venisse “conquistato” – aveva definito «Il più nobile scoglio d’Europa». Invece, il 27 luglio 1862, lo scienziato-alpinista inglese John Tyndall era partito dal Breil (Questa la scrittura del tempo) accompagnato da due guide svizzere: Johann Joseph Benet (Bennen, per gli alpinisti inglesi, indicato talvolta con l’appellativo Garibaldi) e Anton Walters.

L’irlandese Tyndall, nato nel 1820, aveva cominciato a studiare alla fine degli anni Cinquanta l’interazione fra le onde elettromagnetiche e i gas. Con uno spettrofotometro di sua costruzione misurò il potere assorbente di vari gas (vapore acqueo, anidride carbonica, ozono) gettando le basi della spiegazione scientifica del colore del cielo. Fu il primo a rivelare l’alto potere di assorbimento dei gas prima citati, che spiega il ruolo prevalente che il vapore acqueo svolge nel processo di controllo della temperatura sulla superficie terrestre. Fu anche il primo a studiare gli effetti sul clima delle fluttuazioni nella concentrazione atmosferica di vapore acqueo e anidride carbonica.

Alla metà di luglio del 1862 Tyndall, con le due guide, prese stanza al Giomein e ne ingaggiò due locali come “portatori”: César Carrel e suo cugino Jean-Antoine. Quest’ultimo aveva servito come soldato (era noto come il Bersagliere) in tre campagne militari e solo tre anni prima aveva partecipato alla battaglia di Solferino. Tyndall lo qualificava come «extremely handy and useful companion» e gli riconosceva dei «climbing powers very superior».

La sera del giorno dopo, trascorso a controllare le picche e a predisporre i materiali, incontrarono Edward Whymper disceso allora da un tentativo alla cresta italiana. Questi aveva abbandonato la propria tenda su un terrazzo a circa 4000 m e, spontaneamente, diede al compatriota il permesso di utilizzarla.

Partita il 27 all’alba, prima del tramonto, la comitiva raggiunse il luogo del bivacco, dove li aspettava la tenda di Whymper. Ne avevano portata anche un’altra, destinata al capo-spedizione. Fu montata al riparo di una grande roccia sporgente che offriva riparo dalle cannonate che giungevano dall’alto. [2]

Interessante, per i moderni frequentatori della montagna, è anche la tecnica di progressione della cordata:
«Il nostro modo di procedere era il seguente: Bennen avanzava mentre io mi tenevo ad una roccia, preparato allo strappo se fosse scivolato. Una volta che lui si fosse assicurato, chiamava, “Ich bin fest, kommen Sie”. Allora anch’io avanzavo, fermandomi talvolta dove lui aveva fatto sosta, oppure sorpassandolo fino a raggiungere un sicuro ancoraggio, da cui era il suo turno andare davanti. Così ciascuno di noi aspettava fino a quando l’altro poteva raggiungere un ancoraggio capace di resistere allo strappo di un’eventuale caduta. In certi punti Bennen disponeva anche assicurazioni ulteriori quando le riteneva necessarie; e in tal caso enfatizzava la sua affermazione di essere “fest” con una sorta di rafforzativo: “Ich bin fest wie ein Mauer” oppure “Fest wie ein Berg, ich halte Sie gewiss” o espressioni simili».[3]

Il luogo del bivacco è la Balma, che ospiterà Giordano quattro anni dopo. La mattina successiva, con un tempo magnifico, ripresero la scalata, ma si trovarono di fronte ad una parete verticale di alcuni metri che, a prima vista appariva impossibile da superare.

Esaminammo il precipizio che avevamo di fronte e cambiammo opinione. Bennen deviò a destra e a sinistra per completarne l’esame. Non c’era alternativa; dovevamo superare la parete o rinunciare al nostro tentativo. Raggiungemmo la sua base, ci legammo insieme e ci avvicinammo al precipizio. Walters era il primo e Bennen il secondo, e lo aiutava con spinte e sostegni. Walters, afferrandosi a sottili cornici, riuscì ad appoggiare le sue scarpe ferrate sulla roccia, sostenendosi solo per l’attrito. Bennen era appena sotto di lui aiutandolo con un braccio, un ginocchio o una spalla. Una volta raggiunta una cengia, fu in grado, a sua volta, di aiutare Bennen. Procedemmo così, forzando, tirando e aderendo alla roccia con la forza della disperazione, ma con la mente perfettamente fredda. Raggiungemmo le cenge in successione; ciascuno di quelli davanti facendo sicurezza al compagno dietro e ricevendone a sua volta aiuto nel prosieguo. Un ultimo forte sforzo portò Walters a superare la parete e, una volta che fu in sicurezza, anche il nostro successo risultò assicurato”.[4]

In questo modo tutti i componenti della carovana superarono quello che nelle relazioni verrà definito mauvais passage. Dopo cinque ore e mezza dalla partenza, Tyndall e i suoi compagni raggiunsero la cresta che porta il suo nome, dove costruirono due piramidi di pietra alle quali fissarono due grossi bastoni con piccole bandierine. Raggiunsero così una prima cornice sulla quale il primo di cordata fissò una corda, grazie alla quale anche gli altri salirono e si assicurarono il ritorno. La prima delle vette era raggiuta ed erano in vista della cresta sommitale. Bennen gridò: «Vittoria», ma era troppo presto: un’altra parete “insuperabile“ ostacolava la progressione. Tyndall ricorda che delle quattro guide, solo Bennen non pronunciò la parola «Impossibile»:
«Ci trovavamo ormai ad un tiro di sasso dalla vetta e la rinuncia sarebbe stata estremamente amara. Bennen, eccitato, individuò una traccia che si sarebbe potuto percorrere. Parlò di pericolo, di difficoltà, ma mai di impossibilità, anche se questa era l’opinione degli altri tre. Come sempre, la mia guida lasciò a me la responsabilità di una rinuncia, con il solito risultato: “Ovunque vai, ti seguirò; sia su che giù”. Chiese mezzora per prendere una decisione; ma alla fine anche lui dovette arrendersi. D’altra parte, che cosa avrebbe potuto fare? Gli altri furono totalmente d’accordo e cominciammo a pensare alla ritirata. Tagliato un pezzo di sei piedi da un lato della nostra scala, lo piantammo sul terrazzo su cui ci eravamo fermati. Lo fissammo con cura e, protetto com’era dal tetto che lo sovrastava, sarebbe rimasto in quella posizione fino a quando quelli che lo avevano infisso si sarebbero scordati del Matterhorn». [5]

Si era fatto tardi e il gruppo decise per la ritirata. Questa ascensione di Tyndall, sebbene non completa, ha significativamente facilitato quella vittoriosa di Carrel del 1865 e quelle successive del 1866 e 1867 che utilizzarono la corda posta in loco da Bennen per superare la paretina verticale e insicura. La corda collocata dalla spedizione Tyndall il 28 luglio del 1862, quantunque imbiancata dagli eventi atmosferici, ebbe un ruolo nella prima salita italiana per le Cresta del Leone, non avendo perso le sue caratteristiche di resistenza. Felice Giordano che guidò la prima ascensione con clienti nel 1866, provvide a sostituirla con una corda doppia di 16 metri di lunghezza.

La Gran Becca italiana
La prima narrazione della scalata del Cervino dalla spalla del Breuil fu redatta dal canonico Georges Carrel nell’autunno del 1865:

Jean-Antoine Carrel, dit le Bersalier, guide-chef, Jean-Baptiste Bich, dit Bardolet, Aimé Gorret et Jean-Augustin Meynet, tous de Valtornenche, partent du Breuil vers les 7 heures du matin, le 16 juillet 1865, et se dirigent vers le Mont Cervin dans l’intention d’en faire l’ascension quand-méme”.[6]

Questo l’incipit della prima narrazione di una vicenda che è stata raccontata in libri, film e documentari televisivi – anche se in modi non sempre concordi – e piegata talvolta a bassi fini commerciali.

Nello stesso fascicolo Carrel pubblicò una “Proposta di costruire un ricovero sulle falde del Gran Cervino”:
«Je suis d’avis de faire une grotte dans la roche vive, précisément à la traverse de neige dite Collier-de-la-Vierge sous le signal Tyndall, soit l’Epaule, longue et large d’environ 3 mètres sur deux bons mètres de hauteur; cela ne ferait que 18 mètres cubes à creuser.

La dépense ne pourra pas ètre extravagante. J’ignore la qualité de la roche, je crois cependant qu’elle ne sera pas très dure. L’ouverture extérieure, soit la porte, ne sera large que de m. 0,80 et haute m 1,80; il faudra une bonne battue fait au ciseau, et une porte en bois avec fenétre vitree au milieu. Si le rocher est compacte, ce sera mieux, parce qu’il n’y aurait aucune filtration d’eau, mais la dépense sera un peu plus forte. Vous comprenez que cette grotte offrirait toutes les sùretés possibles, surtout contre la foudre pendant les orages.

J’évalue la dépense à 6 ou 700 francs. On lisserait au burin fin une paroi de la grotte et on y mettrait les noms de tous les souscripteurs». [7]

Il soggiorno sulla Cravatta alla fine del luglio 1866 dell’ing. Felice Giordano, con le guide Carrel, Bich e Meynet, che avevano compiuto la prima italiana l’anno precedente, aveva come scopo, oltre agli studi sulla natura geologica del monte, quello di fare una revisione in loco della possibilità di realizzare sulla Cravatta un ricovero per gli alpinisti. Come abbiamo visto, la prima ricognizione suscitò in Giordano qualche dubbio:
Questo nome di Cravatta viene dato ad una lunga striscia di neve perenne che trovasi sulla faccia meridionale del contrafforte al piede d’un erto dirupo il quale forma poi la punta detta Spalla del Cervino. […] La neve non vi è già piana ma inclinata in ripida scarpa di 35° a 40°, onde conviene camminarvi con precauzione. Seguendola per un centinaio di metri verso sud, giungiamo al sito predesignato per costruirvi un ricovero. — Ivi infatti ed al piede di quell’alta parete già trovasi una specie di cavità naturale, detta in vernacolo balma, che si formò pel naturale scoscendersi nel corso degli anni d’alcuni banchi di più labile roccia”. [8]

Lo studio scientifico della realtà alpina, cioè della natura geologica, delle caratteristiche dei ghiacciai, della temperatura atmosferica e la stessa determinazione della quota sul livello del mare, era prevalente rispetto a quello che si sarebbe configurato come «alpinismo». Ciò era tanto più vero in Italia, dove la fondazione del Club Alpino Italiano era in prevalenza opera di scienziati come Quintino Sella, Felice Giordano e i conti Ballada di Saint Robert. La situazione economica del Paese, uscito esausto dalle guerre di indipendenza non era paragonabile a quella, florida, dell’impero della Regina Vittoria. Non per niente, anche all’interno dell’Alpine Club si manifestavano le prime crepe ideologiche fra gli scienziati come Tyndall, gli artisti come John Ruskin, e i mentori dell’alpinismo finalizzato all’esaltazione delle qualità umane come Leslie Stephen e Mummery.[9]

Il primo studio scientifico sulla struttura geologica del Cervino fu realizzato da Giordano proprio in occasione del suo lungo soggiorno sui suoi fianchi alla fine di luglio del 1866.

Fig.2. Carta geologica del Cervino realizzata da Felice Giordano.

Per quanto riguardava la possibilità di trasformare la balma in una vera e propria grotta che fungesse da ricovero, l’ispezione di Giordano non diede esito positivo:
Essa è però molto aperta, onde per farne un buon ricovero occorrerebbe od escavare assai nella roccia, ovvero chiuderne la fronte ed i lati con muri. Quest’ultimo partito ci parve il più semplice e migliore, poiché le pareti di quella non troppo solida roccia presentano pur troppo numerosi spacchi che lasciano temere col tempo qualche mossa e caduta. Lo scavo d’una grotta non farebbe che provocare tale pericolo, mentre invece li muri, servendo di sostegno, potranno prevenirlo. L’abbondanza poi nel sito istesso di sassi d’ogni dimensione ne rende facile ed economica la costruzione. Si decise pertanto che, dopo ben sgombrato il sito dalle macerie, vi si alzassero sino al cielo della grotta de’ muri a secco grossi non meno di 0,80 metri, formando per ora due stanze di 3 m per 2,50, l’una pei viaggiatori e l’altra per le guide. I muri potrebbero imbottirsi di terra grassa che ivi abbonda tra le fessure della roccia talcosa in sfacelo. Riesce poi anche facilissimo il preparare innanzi alla casetta uno spianato lungo 20 e più metri, che potrà servire di comodo passeggiatoio”.[10]

La realizzazione fu aderente a questo progetto.

Un gentiluomo vittoriano
Florence Crauford Grove era un nome importante, e del credito che godeva nel mondo degli alpinisti è testimonianza il fatto che venne eletto alla presidenza dell’Alpine Club. L’anno precedente a quello della conquista del Matterhorn, con le guide Jakob e Melchior Anderegg e avendo come compagno Leslie Stephen, aveva compiuto la prima salita dello Zinalrothorn. Nel 1874 avrebbe realizzato, con la guida svizzera Peter Knubel, la prima ascensione al Monte Elbrus 5642 m.

Nel 1867 (14 agosto) e nel 1868 Grove compì due ascensioni al Matterhorn per le due creste. Le cronache narrano che la via italiana non era ancora facilitata dalle corde disposte in seguito dalle guide di Valtournenche. In una relazione che venne pubblicata dalla Saturday Review il 7 marzo 1868, e poi ripresa dal Bollettino del CAI, a proposito del rifugio, Grove racconta:
Questo strano nido alpino merita di essere descritto. La Cravate o, come era detta prima chi il Matterhorn venisse scalato, Le Collier de la Vierge, è una sottile striscia di neve che attraversa la parete meridionale della spalla, a circa trecento piedi dalla sommità di questo pilastro. In un punto della parte superiore della striscia, la roccia, dapprima arretra con un angolo stretto e poi sporge in fuori. Sulla parte rientrante della roccia si è spianato uno spiazzo ed eretto una piccola capanna riparata dal tetto sporgente. La neve davanti forma una sorta di terrazza ovvero una spianata rivolta su un tremendo precipizio. Non è possibile esprimere a parole la desolazione che regna intorno a questo meraviglioso nido d’aquila. Chi vi fa sosta si trova circondato da rupi gigantesche. Una smisurata e frastagliata quinta, che ha superato con difficoltà, gli nasconde la traccia percorsa; dall’altra parte un precipizio incommensurabile; al di sopra un tetto di roccia incombente; di fronte uno strano terrazzo di neve, che porta ad uno spaventoso abisso. Siamo usi definire nidi d’aquila i ricoveri eretti su alte cime; ma questo è un sito su cui davvero un’aquila o un avvoltoio potrebbero costruire il loro nido e, probabilmente, in nessun’altra parte del mondo l’uomo si è preparato un ricovero tanto isolato e tanto difficilmente raggiungibile. La quota della grotta è 4162 m, quella della spalla 4260 e quella della vetta 4506,70 m”. [11]

Un mese dopo l’impresa di Crauford, il 12 settembre, dal Giomein partì una spedizione memorabile per due motivi: perché era costituita interamente da valligiani e perché fra di loro vi era una donna. Vi facevano parte i fratelli Jean-Joseph, Jean-Pierre e Victor Maquignaz, poi César Carrel e Jean-Baptiste Carrel, cacciatore di camosci, e da sua figlia Félicité, di 18 anni. Partiti all’alba, alle 3 del pomeriggio avevano raggiunto il rifugio della Cravatta, dove passarono la notte. La mattina successiva ripartirono (ad eccezione di Jean-Baptiste Carrel) diretti alla vetta raggiungendo una sorta di colle che l’inglese Leighton Jordan chiamò «Col Felicité». I fratelli Maquignaz, dopo aver esplorato il colle, trovarono una via più diretta di quella dei primi salitori, raggiunsero l’antecima Tyndall e attaccarono al bastone là infisso dall’inglese una bandiera rossa e bianca. Raggiunsero poi i compagni che avevano lasciato più in basso con l’intenzione di condurli a loro volta sulla cima; ma questi, paghi di ciò che avevano fatto, rinunciarono (In quella occasione fu aperta la nuova via nel tratto terminale, interamente italiana, detta “della Scala”. Solo Jean-Joseph Maquignaz e Jean-Pierre Maquignaz giunsero in vetta, NdR). Rientrarono quindi nel rifugio dove trovarono il barone De Warint con quattro guide e qui passarono la notte tutti insieme. Il giorno successivo i Maquignaz e i Carrel scesero al Breil. Pertanto, il rifugio era in funzione.

Il canonico promotore del rifugio
Dietro le vicende che portarono alla conquista della Gran Becca e a quelle che seguirono vi era un prete: Georges Carrel. Nato nel 1800, al tempo delle vicende di cui ci occupiamo, era ormai troppo anziano per avervi parte attiva sul terreno; ma seguì con attenzione gli accadimenti che si susseguirono ai piedi della grande montagna. Canonico prestigioso, naturalista di riconosciuto valore, professore di scienze naturali, Carrel promosse la fondazione della Societé de la Flore (1858) e del Club Alpin Valdôtain (1860). Tra i suoi meriti maggiori vi è quello di aver elaborato una vera e propria strategia di diffusione di un’immagine della Vallée finalizzata ad attrarre i viaggiatori e in particolare gli inglesi: infatti, era conosciuto anche come “amico degli inglesi”. A Carrel dobbiamo la relazione sulla prima dal versante italiano del 17 luglio 1865 della cordata di Carrel (Jean-Antoine), Jean-Baptiste Bich e Jean-Augustin Meynet, basata sulle testimonianze dell’abate Aimé Gorret che pure vi aveva partecipato[12].

Una volta accertata la possibilità della salita dal versante italiano, riconoscendone l’elevata difficoltà, il canonico Carrel, con una lettera al presidente del CAI Gastaldi, avanzò la proposta della realizzazione di un ricovero nella località chiamata dalle guide “La Cravate” o “Collier-de-la-Vierge” alla quota di 4114 m.

E’ su questa banda di neve che converrebbe scavare una caverna nella roccia viva della capacità almeno di 18-20 metri cubi per potervi passare confortevolmente la notte. Vi si sarebbe al riparo dei rigori del freddo e di qualunque altro accidente. Davanti alla porta ci sarebbe un lungo e largo spiazzo per potervi passeggiare a proprio agio ed ammirare il vasto orizzonte che si offre a meridione fino alle pianure del Piemonte e persino dell’Italia settentrionale. Molti viaggiatori si accontenterebbero di arrivare fin là. Dal Breuil vi si può arrivare in otto ore di cammino, e non sarebbe troppo per una giornata. Da lassù si può facilmente raggiungere la vetta in quattro ore”.[13]

A tale scopo, si aprì una sottoscrizione fra i soci del CAI, aperta da una offerta di 50 franchi dello stesso canonico. Sul Bollettino del CAI venne pubblicato l’elenco dei sottoscrittori fra i quali si possono riconoscere alcune personalità notevoli.

Il contributo più importante – di 125 Franchi – venne dall’inglese, G.A. Crowder di Shinfield; Quintino Sella, Ministro delle Finanze e fondatore del CAI, contribuì con 100 Fr., Felice Giordano con 50 Fr. La stessa somma venne offerta dagli inglesi John Tyndall, Richard Henry Budden, Francis Fox Tuckett, Elijah Walton, pittore, Ph. Frescot, John Ball. Alcune guide di Valtournenche si tassarono per la stessa quota: Marc-Antoine Pession, Augustin Pellissier, Salomon Meynet e Jean-Antoine Carrel, primo salitore della Gran Becca. Abbiamo già detto che il canonico Georges Carrel, promotore dell’iniziativa, aveva contribuito con 50 Fr. Il Presidente del Club Alpino Italiano, Bartolomeo Gastaldi, si limitò a 30 Fr. Con la stessa somma partecipò il Comune di Chatillon, mentre quello di Valtournenche si limitò a 10 Fr. Gaspard, curato di Saint-Pierre di Valtournenche, offrì 5 Fr. Con la stessa somma contribuirono altre ventidue guide di Valtournenche: Agostino Ansermin, Jean-Baptiste Bich, Daniel Bich, François Bich, Joseph Bich, abate Pierre Bich, Cèsar Carrel, Pierre Carrel, Gaspard Crépin, Augustin Gorret, Charles Emmanuel Gorret, Ambroise Hérin, Pierre Maquigraz, Abraham Perron, Jean-Antoine Pession, Charles Pession, Grégoire Pession, François Pession, Basile Pession, Augustine Meynet, Gabriel Meynet, Jean-Baptiste Ravaz. In totale si raccolse una somma di 1400 franchi.

Il Sig. Cavaliere Leighton Jordan mi ha dato una somma sufficiente per comperare una corda e fissarla sull’ultimo mammellone. Joseph Maquignaz ne vuole fare una scala. Ho anche comperato per conto dello stesso inglese dodici pelli di pecora con la lana per farne due coperte per le guide. Così dobbiamo chiamarle scala e coperte Jordan.
Il Sig. Richard Henry Budden, inglese, fece dono, per la grotta del Gran Cervino, di un buon materasso portatile in caucciù e di una piccola cucina portatile chiamata Rob Roy Cuisine. È composta da una piccola casseruola in rame con il suo coperchio per il tè, il caffè, o anche la minestra e la frittata. Contiene un fornelletto russo ad alcol, un recipiente, un colabrodo, scatole di fiammiferi, sale, cucchiai, tazze, il tutto contenuto in un involucro di caucciù. In sette minuti il viaggiatore può fare il tè, il caffè… Saranno il materasso e la cucina Budden. Viva la generosità inglese!”.[14]

Fig. 3. Il primo ricovero della Cravate, da Guido Rey, Il Monte Cervino, 1904

Pochi mesi dopo lo stesso canonico Carrel osservava che:
La lista dei sottoscrittori è già raddoppiata. Tanti hanno compreso l’importanza di questo ricovero. Una grotta destinata a diventare celebre, ne siamo certi, negli annali delle Alpi. Pertanto, i veri ammiratori delle nostre montagne, con riserbo, si affrettano ad ingrossare l’elenco dei sottoscrittori. Legare il proprio nome alla posterità ad un manufatto ad una quota superiore ai quattro mila metri sul livello del mare è motivo potente per coloro che sono sensibili al piacere di respirare aria pura e di dare una mano ad un amico su una delle cime più elevate delle Alpi.
Ventisei guide di Valtournenche vi hanno contribuito per la decima parte circa. I nove decimi restanti sono interamente dovuti ai membri del Club des Alpes, alla loro influenza e alle sollecitazioni e, soprattutto, allo zelo infaticabile di M. R.H. Budden, inglese, che fa parte della direzione di questa società. Ciò che ha fatto molto piacere è stato vedere comparire nella sottoscrizione i comuni di Chatillon e Valtournenche. Il loro appoggio morale è altrettanto apprezzato quanto le somme che hanno stanziato”.[15]

Un cantiere a quattromila metri
La maggior parte della somma raccolta venne provvisoriamente depositata presso la Cassa di Risparmio di Milano. Purtroppo, pochi mesi dopo questa venne dichiarata in liquidazione giudiziaria. Ciononostante, con la parte che riuscì a salvare, G. Carrel, tesoriere della sottoscrizione, poté finanziare la costruzione del ricovero.

Nel giugno 1866 alcune guide salirono alla Cravate allo scopo di esaminare il sito e la qualità della roccia da scavare, e raggiunsero la balma, vale a dire un riparo coperto dalla montagna strapiombante e constatarono che era possibile ricavarne due camerette per mezzo di due muri. Poiché questi sarebbero costati meno dello scavo della roccia e in considerazione del fatto che anche i minatori avrebbero avuto bisogno di un ricovero provvisorio, i responsabili del progetto pensarono che conveniva fare questo prima di tutto. Se si poteva costruirci un rifugio molto confortevole, e non soggetto ad alcun pericolo che il tetto di roccia crollasse né che il gelo sollevasse le fondamenta del muro, si sarebbe potuto evitare di scavare la grotta inizialmente progettata e impiegare il resto dei fondi per collocarvi qualche mobile essenziale. Il resto della somma raccolta si sarebbe potuta adibire ad attrezzare i passaggi più difficili al fine di facilitare l’ascensione. Questa fu l’opzione adottata, come racconta Guido Rey nel libro che dedicò alla montagna prediletta.[16]

Nella sua escursione del 1866 Felice Giordano aveva avuto modo di esaminare se fosse possibile ricavare dalla caverna naturale una sorta di rifugio. Essendo la lunghezza di 8 metri, pensò che vi si potessero ricavare due camere di 3 metri, per 2 metri e 50; l’una per i viaggiatori, l’altra per le guide. Quantunque fosse già in parola con Jean-Joseph Maquignaz, Giordano giudicò più conveniente affidare la costruzione a Jean-Antoine Carrel. Il Bersagliere prese l’incarico con calma e, per quell’anno, invece di due camere, ne realizzò una sola. Ma l’anno successivo si impegnò seriamente alla realizzazione del ricovero. Insieme a Jean-Baptiste Bich, Jean-Augustin e Salomon Meynet, mise mano alla realizzazione del progetto. Dopo aver spazzato via la neve e aver fatto due o tre metri di muro, giudicò necessario chiamare i fratelli Joseph e Victor Maquignaz verso la fine di luglio per aiutarlo a portare a termine l’impresa. Due settimane bastarono. Alcuni testimoni ricordano di aver visto, il 19 agosto, questi muratori d’alta quota scalare la montagna, con una finestra o una porta sulla schiena, e salire così su per la corda Tyndall diretti alla Cravate. In pochi giorni l’opera fu terminata e il 23 verso sera i sei operai arrivarono soddisfatti all’hotel del Giomein, dove i committenti li attendevano con una grola valdostana in mano.

Il rifugio della cravatta misurava 3,80 m di lunghezza all’interno dei muri e circa 2 m di larghezza. L’altezza era di 2 metri e mezzo e lo spessore dei muri di 80 cm. Aveva una finestra vetrata e una porta di legno sulla parte superiore della quale era stata fissata con delle viti una lamiera di zinco sulla quale si leggeva Club Alpino Italiano.

Il canonico Carrel osservò che, per i 19 metri cubi, la spesa era stata di 30 franchi al metro cubo e che, con la stessa spesa, si sarebbe potuto scavare altrettanti metri cubi nella roccia viva. Il lavoro ne sarebbe riuscito più solido e la grotta più confortevole. A favore della soluzione adottata vi era il fatto che il rifugio era posto in pieno versante sud ed era ben riparato dal vento da ovest. Per renderlo più caldo si progettò di rivestirne l’interno di legno, o stendervi un telo cerato. Non era da trascurare un possibile indebolimento del tetto naturale, e l’azione dell’acqua che poteva filtrare attraverso le fessure della roccia che, ghiacciando avrebbe incrinato i muri. Il canonico, a ricovero realizzato, confermava la sua opinione sulla necessità di scavare una grotta.

Il modesto ricovero fu quindi eretto nel 1867 e per alcuni anni corrispose alle necessità. Per esempio, nel 1877 una spedizione di cui facevano parte Luigi Dell’Oro e sua moglie Luigia Biraghi, a causa del maltempo, trascorse cinque giorni nella capanna.

Fig. 4. Il versante sud del Cervino, da Guido Rey, Il Monte Cervino, 1904. A sinistra della vetta è la sommità del Pic Tyndall: immediatamentre al di sotto del triangolo che ne costituisce la sommità è l’evidente striscia bianca della Cravate.

Dissapori fra guide e gentiluomini
Abbiamo già ricordato che John Tyndall fu l’alpinista che, negli anni precedenti quello fatale della prima salita, la preparò trovando la via che conduce alla cresta che porta il suo nome. La corda che lasciò sul luogo favorì notevolmente Jean-Antoine Carrel e compagni nella scalata della cresta italiana.

Lo scienziato inglese tornò al Giomein nel luglio del 1867 intenzionato a portare a termine la scalata per la quale si era adoprato tanto a lungo. Allo scopo aveva sperato di procurarsi i servizi di Carrel, Bich e Meynet, scoprendo che il costo era di molto aumentato, tanto da superare le sue possibilità. Aveva portato con sé anche una guida savoiarda (Michel Christian); ma i tre valligiani rifiutarono di condividere con lui la responsabilità della scalata. La contrattazione si concluse con la rinuncia alla salita: «Hanno rifiutato la mia guida ed io rifiuto loro!». Non si dimentichi che Tyndall era colui che nell’estate del 1862 aveva disposto la corda che porta il suo nome e aveva contribuito per 50 franchi alla costruzione del rifugio alla Cravatta.

Il comportamento delle guide di Valtournenche venne criticato dai giornali locali e molti valligiani ne furono indignati. Fra questi il reverendo Carrel, che espresse direttamente a Tyndall e manifestò pubblicamente il suo dispiacere.

Non mancò chi arrivò a sostenere che la vera prima salita interamente italiana sia stata quella del settembre del 1867, realizzata dai i fratelli Maquignaz, con la partecipazione della diciottenne Felicité. I due fratelli Joseph e Pierre Maquignaz, avevano scelto di non seguire la via di Carrel e avevano optato per il lato meridionale in prossimità della cresta. Tutta la carovana trascorse la notte al rifugio della Cravate, insieme a quella del barone De Warint. Questi volle lasciarne testimonianza sul libro dell’albergo del Giomein: «Maquignaz Jean-Joseph è stata la prima guida che ha salito il Monte Cervino dalla parte italiana da una nuova via che è molto più corta della vecchia». Nel suo scritto sul Bollettino il canonico Carrel osservava che:
I fratelli Joseph e Pierre non avendo altra bussola che il genio ed il loro sesto senso per la montagna, hanno trovato un passaggio più corto, più sicuro e più facile. Alcuni hanno creduto di vedere quasi un enigma in questa ascensione. Potrei sbagliarmi ma penso che vi sia solo del patriottismo, dell’emulazione e della soddisfazione personale. Ne intravedo le motivazioni nelle parole del Sig. Edward Whymper, nel disappunto del Sig. Tyndall, e nelle difficoltà esagerate e nelle rodomontate di alcune guide, trovano un nuovo passaggio, più corto, più sicuro e più facile. […] Una giovane donna di 18 anni si aggiunge a loro e supera degli ostacoli di formidabile difficoltà. Le rodomontate hanno portato i loro frutti, ed il monopolio è stato distrutto, a tutto vantaggio dei viaggiatori e di tutta la valle. Tali sono a mio avviso, i motivi che hanno portato all’ascensione del 13 settembre 1867”.[17]

Nello stesso articolo, il canonico esprimeva la speranza che le guide provvedessero a collocare nei tratti difficili alcuni tratti del grande rotolo di corda che Felice Giordano aveva lasciato a Valtournenche: «Con ciò l’ascensione al Gran Cervino sarebbe divenuta meno costosa, più facile e più sicura».

L’Alpine Journal di Londra pubblicò nel 1865 un articolo (in francese) dell’abate Gorret, già apparso sulla stampa piemontese, che narrava la scalata italiana al Matterhorn. Di particolare interesse è la reazione dei dirigenti del Club Alpino e delle guide locali alla notizia della riuscita dell’impresa diretta da Whymper.

«Giordano non fece loro alcun rimprovero, anche se non mancò di rilevare il loro dispiacere; fece solo osservare che avrebbero almeno dovuto risolvere il problema della possibilità dell’ascensione dal versante italiano. La questione era sempre allo stesso punto di prima e sembrava diretta verso una soluzione negativa. L’ingegnere disse alle guide: Finora ho lavorato per l’onore di fare la per primo l’ascensione, la sorte mi è stata contraria, sono stato preceduto – pazienza! Se ora faccio qualche sacrificio sarà per voi, per il vostro onore e il vostro interesse. Volete ripartire per risolvere la questione? Che almeno non si facciano più illusioni laggiù. Le risposte furono incoerenti, imbarazzate, improvvisate, scoraggiate. Whymper aveva detto, lasciando l’albergo del Giomein, diretto in Svizzera: “Non combinerete mai niente con le guide di Valtornanche; non lavorano per l’onore, vogliono solo la giornata”. Quella che sul momento mi appariva come una battura dettata dalla stizza, poteva ora apparire una verità». [18]

In queste righe, di secondaria importanza nell’ambito della narrazione di Gorret, si incrociano i diversi filoni che agivano al tempo nell’ambito alpinistico. In primo luogo, quello nazionalistico, incarnato dall’ing. Giordano, che rappresentava il Club Alpino di recente fondato per rivendicare al neonato Regno d’Italia una posizione politicamente dignitosa accanto al Regno Unito. In secondo, la motivazione economica che riguardava la possibilità di uno sviluppo turistico per la valle, interpretata dal canonico Carrel e dall’abate Gorret. Infine, agiva anche la motivazione dell’orgoglio valligiano nei confronti dei “viaggiatori” inglesi che, con la loro gara alle prime salite (incomprensibile per i nativi, come aveva osservato Ruskin) portavano qualche ristoro alle loro condizioni di miseria; ma, nello stesso tempo, manifestavano un evidente senso di superiorità nei loro confronti.

Si trattava di motivazioni che agivano anche all’interno dello stesso Alpine Club e che potevano sfociare in clamorose fratture come quella, famosa, fra Tyndall e Stephen.

Schaumann, Caroline: “Poetic Science and competitive vigor: John Tyndall and Edward Whymper” in Peak Pursuits: The Emergence of Mountaineering in the Nineteenth Century, Yale University Press, 2020, pp. 174–208.

E il rifugio della Cravatta? Non durò a lungo: troppo precaria la costruzione ed esposta alle violenze meteorologiche: Priva di adeguata manutenzione, poco più di dieci anni dopo era ridotta a rudere. Un ricovero meno precario venne eretto sul fianco della Grande Tour, alcune decine di metri sopra quella che è, attualmente, la Capanna per antonomasia, dedicata alla memoria di Carrel: Jean-Antoine, per intenderci.

Appendice sugli strumenti
Gli alpinisti che affrontavano i grandi picchi delle Alpi negli anni sessanta dell’Ottocento, salivano con un grave carico di strumenti scientifici. Il più importante costruttore di strumenti per l’esplorazione delle alte quote era Casella di Londra. La pubblicità della ditta era diffusa anche nei primi numeri del Bullettino Trimestrale del Club Alpino.

Fig, 5. Pubblicità della ditta Casella sul Bullettino (1866)

Anche dalla lettura della pubblicità si ricava qualche indicazione sullo spirito che animava i valorosi che si sottoponevano ai rischi dell’alta montagna, allora inesplorata. Il “viaggiatore” che partisse dall’Hotel Giomein per affrontare i picchi della conca del Breuil, doveva portare con sé un ipsometro che sarebbe ciò che attualmente ha preso il nome di altimetro; sostanzialmente un barometro sensibile alle piccole variazioni di pressione atmosferica. L’importanza dell’ipsometria era tale che a questa scienza era riservata una sezione dell’Alpine Journal, e ad essa aveva dato un importante contributo il conte Paolo Ballada di St. Robert, che aveva fatto parte del gruppo che aveva compiuto la prima salita italiana al Monviso.[19]

Non poteva mancare un termometro a massima e minima, ovvero capaci di registrare le temperature massima e minima raggiunte in un certo intervallo di tempo. Né un barometro da montagna, simile a quelli da laboratorio; ma con la caratteristica di conservare e proteggere dagli urti il serbatoio del mercurio; strumento indispensabile per la misura della quota e la previsione del tempo Il barometro aneroide era un’alternativa al barometro alpinistico, con la differenza che era completamente meccanico e non richiedeva mercurio.

Qualunque fosse la lettura del barometro, per ricavarne la quota era necessario confrontarla con quella della temperatura e dell’umidità atmosferica. Queste richiedevano l’utilizzo di un termometro e di un igrometro di alta sensibilità.

Per misurare la pendenza di uno scivolo di neve o ghiaccio era necessario disporre di un clinometro ovvero di uno strumento da tarare sull’azimut locale. In alternativa all’ipsometrobarometro, per la determinazione delle quote si poteva usare il bollitore Casella, uno strumento che consentiva di misurare la temperatura dei vapori d’acqua bollente. È noto infatti che la temperatura di ebollizione dell’acqua diminuisce al diminuire della pressione atmosferica, ovvero all’aumentare della quota sul livello del mare. A quella della Balma, Giordano registrava, con il bollitore Casella, che la temperatura di ebollizione era di 87°C.


Note

[1] Giordano, Felice, «Escursione al Gran Cervino», Bulletino del Club Alpino Italiano, 1866, N. 5, p. 17.

[2] Tyndall, John, Hours of Exercise in the Alps, Longmans, Green and Co., London 1871.

[3] Tyndall, op. cit., p. 120.

[4] Tyndall, op. cit., p. 161.

[5] Tyndall, op. cit., p. 162.

[6] Carrel, Georges, «Notes sur l’ascension du Mont-Cervin du 17 juillet 1865», Bullettino Trimestrale del Club Alpino di Torino, anno 1865, N. 2, pp. 15-19.

[7] Carrell, Georges, «Proposta di costruire un ricovero sulle falde del Gran Cervino», Bullettino Trimestrale del Club Alpino di Torino, anno 1865, N. 2, pp.29-30.

[8] Giordano, Felice, «Escursione al Gran Cervino», Bollettino CAI, XX, 1866, pp. 6-24.

[9] Kenny, Antony, (a cura di), Mountains, an Antology, John Murray, London, 1991, Chapt. 20.

[10] Giordano, op. cit., pp. 13-14.

[11] Crauford-Grove, Florence, «Salita al Matterhorn», Bullettino del Club Alpino Italiano, anno 1868, 1° semestre, N. 12, Cassone, Torino, 1868, pp. 73 – 80.

[12] Carrel, Georges, «La Vallée de Valtornanche en 1867», Bullettino del Club Alpino Italiano, n. 12, 1° semestre 1868, Cassone et Co. Torino 1868.

[13] Carrel, Georges, «Proposta del canonico Carrel di costruire un ricovero sulle falde del Gran Cervino», in Bollettino del C.A.I., I ,1865-66, pp. 29-30.

[14] Carrel, Georges, «Sottoscrizione per lo scavo di una grotta sul Monte Cervino onde facilitare le ascensioni dal lato italiano», Bullettino trimestrale del Club Alpino di Torino, 1866, N.4.

[15] Carrel, Georges, op. cit.

[16] Rey, Guido, Il Monte Cervino, Hoepli, Milano, 1904, pp. 149-151.

[17] Carrel, Georges, «La Vallée de Valtornanche», op. cit., pp. 62-63.

[18] Gorret, Aimé, «The Italian Ascent of the Matterhorn», Alpine Journal, Vol. II, 1865- 1866, p.239.

[19] Ballada de St. Robert, Paolo, «On the Measurements of Heights by the Barometer», Philosophical Magazine, June, 1864.

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