Lo scorso 2 giugno su “L’AltraMontagna” il professor Mauro Varotto, docente di Geografia culturale all’Università di Padova (e co-curatore con Ines Millesimi di Sacre Vette, libro del quale questo blog si è occupato qui), ha pubblicato un articolo con alcune personali considerazioni intorno al progetto “Monveso di Forzo – Montagna Sacra”, con il quale si propone di considerare “Montagna Sacra” il Monveso di Forzo, posto tra Valle Soana e Valle di Cogne entro il Parco Nazionale del Gran Paradiso, invitando all’astensione volontaria dalla salita alla vetta come proposta culturale forte e di valore altamente simbolico: un messaggio di responsabilità, nuovo e dirompente, per la tutela della natura, per il quale l’attributo “Sacra” va inteso nella sua forma di costrutto culturale sostanzialmente laico.
Le considerazioni del professor Varotto – che proponiamo di seguito e alle quali a breve si farà seguito – sono molto interessanti, in forza della loro articolazione e per come diano seguito a quello che è il fine principale del progetto della “Montagna Sacra”, anche prima delle proprie finalità programmatiche: agevolare il confronto e il dibattito su temi di grande importanza riguardo la frequentazione umana contemporanea e futura delle terre alte, verso i quali Varotto dimostra attenzione e considerazione alimentando l’esercizio del libero pensiero e del confronto aperto in un’epoca nella quale, troppo spesso, tale esercizio viene ridotto a uno scambio di frasi fatte pressoché prive di cognizione specifica e approfondimento.
Una “Montagna Sacra” nel Parco del Gran Paradiso? Tre grandi domande e numerosi dubbi
(di Mauro Varotto, pubblicato su “L’Altra Montagna” il 2 giugno 2024)
Il 2 giugno si è svolta la “camminata riflessiva e collettiva” ai piedi del Monveso di Forzo, identificato come luogo simbolo del Gran Paradiso. L’escursione rientra nel progetto “Una Montagna Sacra per il Gran Paradiso”, che ha raccolto più di mille firmatari, che comprendono persone di radici e culture diverse: alpinisti, escursionisti, naturalisti, giornalisti, scrittori, artisti, montanari. Si tratta di un’iniziativa nata nel 2022 per onorare i cent’anni del Parco nazionale Gran Paradiso con “un’azione di alto profilo simbolico” e che vanta l’adesione di un qualificato ventaglio di sostenitori, in forma associativa e individuale.
Leggendo la notizia del raduno avvenuto ieri per celebrare la “montagna sacra” del Monveso di Forzo, una vetta minore del Gruppo del Gran Paradiso (3322 metri) al confine tra Piemonte e Valle d’Aosta, da cui – a detta degli stessi promotori – “escludere la frequenza e la presenza umana”, la prima domanda che mi sono posto è stata questa: ma a che quota comincia e dove finisce una “montagna sacra”? Se il divieto si riferisce solo alla cima e ai suoi dintorni (100 metri? 200 metri dalla vetta?) forse i promotori avrebbero dovuto chiamarla “cima sacra” o “vetta sacra” (e in tal senso è stata interpretata nel libro appena uscito per Cierre edizioni, Sacre vette, 2024): le parole devono essere usate in maniera appropriata, ho pensato, altrimenti si rischia di veicolare l’idea che una montagna sia soprattutto o soltanto la sua vetta, una sineddoche spaziale (la figura retorica che prende una parte per il tutto) pericolosissima.
Questa prima domanda, a cui non sono riuscito a trovare una risposta soddisfacente, ha presto lasciato il posto ad una seconda: i promotori hanno deciso di “consacrare una vetta del Parco alla Natura”. Ma non è questa la finalità dell’intero Parco Nazionale del Gran Paradiso, nato esattamente a questo scopo oltre un secolo fa trasformando una riserva di caccia reale? O delle 13 Riserve naturali integrali dello Stato istituite allo scopo di proteggere in modo assoluto gli ambienti naturali, nelle quali è escluso ogni intervento antropico ad eccezione delle attività di studio e vigilanza? In che cosa una montagna sacra differisce allora da una riserva naturale, dove l’habitat può evolvere autonomamente, e dove le piante e gli animali vivono seguendo le sole regole della Natura, peraltro in aree ben più ampie di una semplice vetta? Cosa aggiunge una montagna sacra ad una riserva naturale integrale, o forse meglio: cosa toglie?
Se si sente la necessità di chiamare le stesse cose con altri nomi, significa che quei vecchi nomi (parco viene dal latino parcere, “moderarsi”, “astenersi”) non ci bastano più, hanno perso il loro valore. Il che, oltre che una risposta, induce ad una profonda riflessione: se per “dare senso compiuto e concreto al centenario del Parco” (i virgolettati sono sempre dei promotori) bisogna consacrarlo, allora dovremmo fare lo stesso in tutti i parchi d’Italia, con una nuova campagna di consacrazione dopo quella del XIX-XX secolo (infatti c’è chi ha già proposto di moltiplicare le “montagne sacre”, cfr.)? Ma soprattutto: se consacriamo come luoghi per la Natura solo le vette, non rischiamo di veicolare il messaggio opposto, ovvero che una volta rispettata la Natura lì, possiamo fare quel che ci pare qui, dove la Natura non ha la maiuscola? Non è accaduto questo negli ultimi decenni appena fuori dal perimetro dei Parchi, delle Riserve, dei patrimoni Unesco? E se la “montagna sacra” diventasse l’ennesima attrazione turistica per masse di consumatori che, ignari della propria impronta carbonica, iniziano a girargli attorno, nuovi adepti della sacralità? Non si rischia di alimentare l’ennesima operazione di greenwashing?
A questa domanda se ne è agganciata allora una terza, mentre pensavo che non sarei mai andato per questo motivo a vedere il Monveso di Forzo: la montagna (la vetta in realtà, poche centinaia di metri quadrati di superficie, è lecito supporre…) è concepita come “territorio da cui escludere la frequenza e la presenza umana, che invade e modifica ogni angolo del Pianeta”: anche qui non siamo di fronte ad una potente sineddoche, l’uomo moderno occidentale industriale che sta distruggendo il pianeta (Zygmunt Bauman lo definì Homo consumens, generando qualche problema con la grammatica latina), lo stesso che – per intenderci – ha inventato i parchi e l’alpinismo come misura compensatoria? E tutti gli altri uomini, vittime di questo Uomo con la maiuscola, quello della “conquista no-limits”, che fine fanno? Perché estendere il divieto anche a quegli uomini (e donne) che invece si sono adoperati per addomesticare, curare, favorire la biodiversità nel pianeta, vivere in faticosa armonia con la natura e che si sono permessi di considerare ridicola l’idea di una “montagna sacra”, apostrofati dai promotori come “gente che non ha capito”? I pastori, i malgari, i boscaioli, ma anche quegli alpinisti ante litteram che Andrea Zannini in Controstoria dell’alpinismo ha faticato tantissimo a trovare, proprio perché non hanno lasciato traccia delle loro azioni, non hanno scritto libri celebrativi, non hanno lasciato segni sulla vetta… anche quelli sono coinvolti nello stesso giudizio universale di condanna? E da che pulpito? Peraltro, se la proposta vuole essere “un messaggio di responsabilità nuovo e dirompente, per la tutela della Natura, di valore soprattutto simbolico”, e rivolto a chi vede la Natura come terra di conquista, perché scegliere una vetta minore, pressoché deserta per buona parte dell’anno, e non invece scegliere il Gran Paradiso (ben 4061 metri!), o ancora meglio il Monte Bianco? Allora sì che la proposta avrebbe potuto avere una forza dirompente, e il messaggio sarebbe stato certamente più forte.
Mentre tutte queste domande mi frullavano nella testa, mi è caduto l’occhio sui libri di Mircea Eliade, vecchie reminiscenze universitarie del periodo in cui avevo in mente di laurearmi in Storia delle religioni. Ho aperto il libro quasi a caso, e ho trovato questa frase: “Il sacro è un elemento della struttura della coscienza” (Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I, Sansoni, 1999, pag.7). Per Eliade tutto il mondo fisico può essere assunto al rango di sacro. “La pietra o l’albero possono essere investiti della potenza del sacro senza perdere le loro caratteristiche fisiche”. Nelle culture arcaiche non esiste il cosmo desacralizzato, è una scoperta recente della modernità. La società occidentale attuale ha perso la confidenza con la concezione sacra dell’esistenza: man mano che la cultura scientifico-razionale ha preso piede, progressivamente è scomparsa la presenza della dimensione del sacro che un tempo, nella vita di tutti i giorni, era presente in ogni cosa. Il sacro serve a tenere insieme il Tutto, a dare ad esso un senso trascendente. Il sacro non divide, non separa, non compartimenta Uomo e Natura: li unisce. Il sacro sta nella relazione intima con l’alterità. Senza volerlo avevo trovato la risposta a tutte le mie domande.
Condivido le parole del professor Varotto.
Sono un Valsoanino anche se risiedo in pianura, trovo assolutamente non logica la proposta di “Montagna Sacra” ancor di più per la scelta.
Chiaramente facile, perchè la Val Soana cenerentola delle valli del Parco, pochi la conoscono e la frequentano. Se facessimo un sondaggio su tutti quelli che hanno firmato ed aderito al progetto, forse un dieci per cento sa che la Valle Soana esiste ma son sicuro che la percentuale scenderebbe ancora e si riferisse a chi in val Soana c’è stato.
Perchè allora non scegliere per il progetto, una montagna più conosciuta e frequentata, dove veramente la troppa frequentazione porta al degrado ed al disturbo della fauna? Magari in Val D’Aosta.
Ora mi taccio perchè di considerazioni se ne potrebbero fare veramente tante, ed il mio fervore sull’argomento potrebbe diventare eccessivo.