Carlo Sicola (Milano 26/12/1919 – Milano 14/07/2007)
Nel ricordo di Giovanni Rossi e Alessandro Gogna
(già pubblicato su Annuario CAAI, 2007-2008)
Iniziato all’arrampicata difficile da Erminio Dones, leggendario precursore lombardo del sesto grado, di cui è stato anche emulo nella pratica agonistica del canottaggio, Carlo Sicola è stato tra i fondatori (1936) e per molti anni istruttore della Scuola Nazionale di Alpinismo Agostino Parravicini, collaborando con gli ‘storici’ direttori Pompeo Marimonti e Carlo Negri, ai quali era legato da amicizia e stima.
Durante i corsi estivi a Chiareggio (1936-37) aveva partecipato, giovanissimo, a varie prime ascensioni nei gruppi del Disgrazia (pareti sud-est e nord-est della Cima di Valbona, parete nord-nord-ovest del Monte Pioda) e del Bernina (parete sud-ovest della Sassa di Fora). Nel gruppo del Bernina aveva effettuato la prima ascensione italiana dello sperone nord (Zippert) della Vetta Occidentale del Pizzo Palù.

Ma le realizzazioni alpinistiche più notevoli sono state le ‘sue’ vie al Corno Miller (Adamello), lo sperone di destra della parete sud-est con Pino Gallotti e la cresta sud-ovest con Luigi Tagliabue, ambedue del 1941, vie che la seconda edizione della guida Adamello del CAI-TCI (di Pericle Sacchi) segnala come splendide arrampicate su granito, tra le più consigliabili del gruppo (una bella fotografia che lo ritrae in arrampicata durante la seconda di quelle salite si trova a pag. 328 del libro di Aurelio Garobbio Scoperta e conquista delle Alpi).
Nello stesso gruppo, durante una ricognizione sulla parete sud del Corno di Salarno (1941), aveva superato con mezzi ‘corretti’ il passaggio che, l’anno dopo, avrebbe richiesto ai primi salitori (noti e valenti scalatori) l’uso di un chiodo a pressione, uno dei primi della storia dell’alpinismo. Nello stesso 1941, Sicola compì con Paolo Gazzana Priaroggia una delle prime salite senza bivacco della cresta sud dell’Aiguille Noire (19a assoluta). Interrotta dalla partecipazione alla fase finale della seconda guerra mondiale, la sua attività alpinistica non poté essere ripresa a causa delle gravi conseguenze di un banale intervento chirurgico mal eseguito. Il lento recupero della forma fisica, perseguito con determinazione, gli consentì solo dopo molti anni di ritornare all’alpinismo attivo, nel gruppo del Monte Bianco, dove negli anni 1970 salì la via dello sperone della Brenva con l’amico Giorgio Bertone.
L’episodio del Corno di Salarno (riportato dalla guida citata, ma di cui Sicola ha parlato solo in ambito strettamente privato) ha assunto, per chi ha vissuto con lui gli anni del risveglio della coscienza ambientalistica degli alpinisti, un significato speciale, una specie di dimostrazione pratica anticipata di quanto poco fossero giustificate da motivi tecnici quelle prime aggressioni alla natura originaria della montagna, che hanno aperto la strada alla dilagante, e purtroppo irreversibile, deriva dei decenni successivi.
Nel 1987, dopo l’intensa partecipazione alla preparazione del Convegno CAAI di Biella, Sicola è stato uno dei soci fondatori di Mountain Wilderness, e uno dei punti di riferimento nella fase costitutiva dell’associazione. In seguito, ha rappresentato per molti anni il CAAI nel comitato internazionale delle associazioni per la protezione del Monte Bianco. Durante gli anni in cui sono stato presidente del CAAI, ho sempre avuto la sua approvazione e incoraggiamento in tutte le azioni intraprese a favore della cultura dell’alpinismo e a difesa dell’ambiente alpinistico.

Ne conservo testimonianze significative, oggi per me commoventi, tra cui le conversazioni a Courmayeur, in occasione dei convegni ambientalistici degli anni 1994-1995, in cui – un po’ ingenuamente – riponevamo molte speranze. In accordo con i suoi molteplici interessi (dall’arte grafica alla musica classica, ai rapporti tra scienza e tecnica), e con la sua mentalità, Carlo Sicola si è occupato in modo molto serio degli aspetti culturali della montagna e dell’alpinismo: ha collaborato all’Annuario del CAAI (facendo anche parte per alcuni anni del gruppo di redazione), e vi ha pubblicato due importanti studi sulla toponomastica delle valli Veny e Ferret. Purtroppo, i problemi di salute degli ultimi anni gli hanno impedito di completare l’opera con un terzo studio sull’etnografia valdostana, che ci aveva annunciato.
Giovanni Rossi
La morte, che so bene essere parte integrante ed essenziale della vita, non mi assilla tutti i giorni per fortuna, e non mi perseguita con immagini morbose e terrorizzanti. Ogni volta che una persona cara se ne va, il pensiero della morte diventa per qualche tempo inevitabile, come un temporale più o meno lungo può disturbare una serie di belle giornate di sole.
Ci sono individui a me cari che, passati a miglior vita, ho incasellato in sezioni separate delle celle della mia memoria. Loro, come in una splendida variante del gioco di palla-avvelenata, possono impunentemente colpire i giocatori della parte avversaria. Le loro figure sono attive come prima, forti come prima se non di più. Una di queste è Carlo Sicola, quello che all’inizio riconoscevo solo come anziano accademico del CAAI, poi invece diventata grande presenza, anche perché padre del mio amico Giovanni.

In quei giorni di agosto 1988 stavamo organizzando la provocatoria manifestazione di Mountain Wilderness per richiedere lo smantellamento delle telecabine della Vallée Blanche e gentilmente Carlo ci aveva permesso di installare il nostro quartier generale nella sua casa estiva di Entrèves, anzi praticamente ci aveva invitati.
Furono giorni davvero lieti, perché esaltanti ma anche sereni. Un po’ si arrampicava, un po’ si andava in cima al Grand Flambeaux per prendere le misure del diametro della fune d’acciaio che sorreggeva il pilone aereo… ma soprattutto la sera si stava in quella splendida casa rurale, rimessa sì a posto, ma lasciando struttura e arredo con il loro senso originario intatto. La casa è tuttora divisa in due costruzioni distinte, noi ospiti stavamo nella dependance, a pensione però da mamma Sicola tutte le colazioni e cene (talvolta anche a pranzo). Dentro alla casa principale non v’era tanta luce, le finestre erano state lasciate piccole. Vi si respirava un’aria di signorile nobiltà, che era poi la sua, unitamente all’odore della vecchia pietra, del legno antico e dei libri. Sì, tanti libri, evidentemente letti, usati per scrivere a propria volta saggi e articoli, magari di ricerca etimologica. Come fanno coloro che studiano, che sono più curiosi delle cose che hanno già visto tante volte che delle novità che si spacciano per tali. La chiacchierata poteva balzare da argomenti di cultura specifica alle futili battute di noi giovani spaccamontagne. Carlo non guidava mai una conversazione, preferiva seguire l’andazzo a più direzioni: e non faceva fatica ad adeguarsi alle intemperanze e perfino alle velate scurrilità. E comunque facevamo più fatica noi a stare sullo stesso piano quando il discorso diventava meno effimero, quando cioè si optava per la ricerca delle radici, delle ragioni o delle cause inerenti alla vita della montagna.
I preparativi per la manifestazione furono anche più lunghi del necessario, data la così gradita ospitalità. Lui quel giorno non salì a Punta Hellbronner, preferì stare in basso a seguire il caso dal punto di vista delle pubbliche relazioni. Tutto andò bene, ma molto lo dobbiamo a lui. Anche per esempio d’aver schivato che i carabinieri venissero a trovarci.
Quanto Carlo fosse bravo a vivere lo spirito di un’associazione già avevo avuto modo di impararlo allorché l’anno prima a Biella c’era stato il convegno internazionale di fondazione di Mountain Wilderness, cui era seguita una lunga e plenaria riunione dei garanti appena eletti per stilare le Tesi di Biella. Nella babele di lingue e mentalità diverse, più volte qualcuno aveva la tentazione di lasciar perdere o di mandare a quel paese qualcun altro. La volontà di andare avanti era cocciuta per tutti, ma la ferma determinazione di raggiungere l’obiettivo è un’altra cosa. È lì che ho cominciato a conoscere Carlo Sicola, persona di cui è difficile tracciare un profilo perché i suoi interessi erano vari e sempre approfonditi.
Bisogna amare le cose che stiamo facendo: e talvolta, quando ho bisogno di ripetermelo, me lo vedo seduto al suo tavolo, il busto leggermente chino su un testo, piegarsi impercettibilmente di lato a confrontarlo con qualche pagina di un altro libro, con aria seria e assorta fino a che il dubbio non gli si risolveva. Solo allora ti accorgevi che aveva inarcato un sopracciglio e aveva aggrottato la fronte.
Alessandro Gogna

Complimenti, articolo molto interessante