«Non c’era niente da fare. Per capire mio padre, il suo carattere, la sua personalità e in definitiva anche le sue scelte, non si può prescindere dalla sua passione per la montagna (Sabrina Rossa)».
A 42 anni dal suo sacrificio.
Guido Rossa
(raccolta di scritti in ricordo dell’operaio, sindacalista e alpinista)
Questa raccolta di scritti in memoria di Guido Rossa, a cura della Biblioteca nazionale del CAI, è stata stampata in 250 copie in occasione della commemorazione di sabato 19 gennaio 2019 nel Salone UGET, in Corso Francia 192 (Parco della Tesoriera), Torino.

Presentazione
di Enrico Camanni
Sono già passati quarant’anni dall’assassinio di Guido Rossa e la sua figura è più presente che mai. Perché, ci chiediamo. Da un lato per l’inattualità del suo rigore e delle sue scelte morali, che ci costringono a riconsiderare l’impegno sociale e umano come atti liberati dal narcisismo politico, dall’incapacità di ascolto, dalla mancanza di rispetto, dall’arroganza elevata a sistema. Dall’altro lato per la drammatica attualità delle sue denunce, che fotografano una situazione di povertà e di conflitti in gran parte insuperati, talvolta addirittura inaspriti da un mercato che detta legge sostituendosi all’etica e alla politica.
Per questo ci pare giusto ricordare Rossa a quarant’anni dal suo sacrificio, il 24 gennaio 1979. Forse più per noi che per lui, che si trarrebbe in disparte dicendo «non è il caso amici, mi avete già ricordato abbastanza, sono uno come tutti voi, ho fatto solo il mio dovere». Sì, lo facciamo per lui e per noi, soprattutto, perché ci serve una sferzata di coraggio per guardare al futuro, e ci manca quel nitido raggio di umanità.
Abbiamo selezionato alcuni scritti suoi e su di lui, a cominciare dalla straordinaria lettera che spedì a Ottavio Bastrenta il 4 marzo 1970, dopo un profondo esame di coscienza. In qualche modo la lettera di Rossa a Bastrenta anticipa il famoso articolo di Gian Piero Motti I falliti (1972), spostando il discorso sul piano politico e sociale.
Inoltre ripubblichiamo il discorso di Massimo Mila, pronunciato nel 1982 all’inaugurazione della palestra urbana di arrampicata a Palazzo a Vela che il Comune di Torino aveva voluto dedicare a Guido Rossa tre anni dopo la morte. Mila usò parole dure e inequivocabili com’era nel suo stile, e in quello della Torino più nobile e rara, e nello stile di Rossa.
Infine, per inquadrare la figura dell’alpinista, ma anche dell’uomo, e soprattutto per mettere insieme le due passioni che accesero la sua vita, proponiamo il ricordo di Carlo Moriondo su Stampa Sera, uscito subito dopo l’assassinio, e un capitolo tratto dal mio recente Alpi ribelli in cui Rossa non poteva mancare Ho incontrato molti alpinisti anarchici e sognatori, ma pochissimi hanno saputo dare un corpo ai sogni. Guido l’ha fatto.
Indice
1) Guido Rossa, Lettera a Bastrenta, trascrizione da manoscritto;
2) Massimo Mila, Ricordo di Guido Rossa, da Scritti di montagna, Einaudi 1992, pp. 396-403, poi ripubblicato in I due fili della mia esistenza, Club Alpino Italiano 2018, pp. 109-114;
3) Enrico Camanni, Sai che vogliono ammazzarmi? da Le Alpi ribelli, Laterza 2016, pp.180-189;
4) Carlo Moriondo, Guido Rossa, da Stampa Sera del 26 gennaio 1979, poi in Rivista mensile del Club Alpino Italiano n. 5-6 1979, pp. 222-223.
1) Lettera a Ottavio Bastrenta
di Guido Rossa
Ottavio carissimo,
l’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano nell’ambiente alpinistico in genere ma soprattutto in quello genovese, sono tra le squallide cose che mi lasciano scendere senza rimpianto la famosa “lizza” della mia stagione alpina.
Da ormai parecchi anni, mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicino l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile (e non nascondiamocelo, forse anche a noi stessi) dell’andare sui sassi. Che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno, quaranta milioni muoiono di fame!
Per questo, penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro, allargare fra tutti gli uomini la nostra solidarietà che porti al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale, che lasci una traccia, un segno, tra gli UOMINI di tutti i giorni e ci aiuti a rendere valida l’esistenza nostra e dei nostri figli.
Ma probabilmente queste prediche le rivolgo soprattutto a me stesso; perché, anche se fin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me il motivo dominante, sin’ora ho speso pochissime delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso.
Come vedi mi sono accinto all’arduo compito di rispondere alla tua lettera.
Caro Ottavio, tu sei forse l’unico tra i miei amici, che sin dai primi giorni della nostra amicizia ti sei interessato oltre alle scuole di alpinismo… anche alle questioni sociali e mi sei sempre servito da stimolo e da esempio.
Qualche volta mi ricordo di una sera al rifugio della Valle Stretta, quando a bruciapelo mi chiedesti: – Tu sei comunista? – Ed io prontamente risposi “sì”, pensando “questa volta mi sono giocato un compagno di corda e un amico!”.
Qualche cosa da allora è cambiato, la paura del rosso (come dicono gli studenti parigini) oggi è proprio solo rimasta alle bestie cornute!
Risponderò alle tue domande a grandi linee, mi è più facile.
In una società altamente sviluppata come Stati Uniti ed alcune grandi città europee, sono sostanzialmente d’accordo con Marcuse (del quale ti riassumerò la prefazione di “Saggio sulla liberazione”). Penso che sia giunto il momento di opporre alla società stabilita il “grande rifiuto”. Si deve sottrarre l’uomo all’apparato che soddisfacendone i bisogni ne perpetua la servitù: la libertà diverrebbe l’ambiente naturale di un organismo non più capace di adattarsi alle prestazioni competitive richieste dal benessere, né di tollerare l’aggressività, la bruttezza del modo di vita imposto dalle società capitalistiche.
Al dominio mondiale del capitalismo fondato sulle grandi società per azioni e alla loro capacità di assoggettare la maggioranza della popolazione alla produttività schiacciante, comincia a inserirsi un’alternativa. Uomini e donne di tutto il mondo resistono e negano il massiccio potere di sfruttamento del capitalismo azionario anche nelle sue più comode e liberali realizzazioni e lottano per l’edificazione di una società libera: tale cioè da comprendere anche la liberazione dalle libertà dell’ordine sociale sfruttatore. Nel proclamare il “grande rifiuto”, essi hanno risuscitato uno spettro (e questa volta uno spettro che ossessiona non soltanto la borghesia ma tutte le burocrazie sfruttatrici): lo spettro di una rivoluzione che subordina lo sviluppo delle forze produttive e l’elevazione del tenore di vita alla creazione di una solidarietà tra gli uomini, che porti all’abolizione della povertà e del bisogno, al di là di ogni frontiera nazionale e di sfera d’interessi, e al raggiungimento della pace.
Essi sanno che la posta in gioco è la loro vita, la vita di esseri umani che è diventata un balocco nelle mani dei politici, degli alti dirigenti e dei generali. Vogliono toglierla da queste mani e renderla degna di essere vissuta.
L’Italia con i suoi gravi contrasti presenta una situazione politica particolare. Prima che si sviluppi e faccia presa fuori dall’ambiente studentesco il “grande rifiuto” sfociato nel “maggio francese”, temo proprio che bisognerà attendere la fine dello stato di necessità. D’altronde la situazione non è tanto grave e disperata come in certi stati dell’America Latina o dell’Africa, da prospettare tra le soluzioni possibili, una rivoluzione totale, tanto più con gli americani in casa.
Dunque, l’unica possibilità è quella del riformismo e dell’allargamento della sinistra, allargando l’esercizio del diritto dei lavoratori di partecipare al potere decisionale, e questa penso sia la via italiana del P.C.I.
Le lotte sindacali di questi ultimi mesi hanno avuto per obiettivo – tra gli altri – la democrazia sui luoghi di lavoro, e il diritto dei lavoratori di indagare sul processo produttivo e sulle condizioni ambientali in cui esso si svolge. Negli anni 70 la lotta dei lavoratori sarà tesa a portare il potere decisionale dal vertice alla base in tutti i campi della vita pubblica.
Problema fondamentale dello sviluppo democratico nazionale è l’intervento dei lavoratori nella produzione industriale. Nuove conquiste sono necessarie. Partendo dallo stato dei diritti dei lavoratori, perché gli operai possano pesare nell’organizzazione della produzione e per l’affermazione e la difesa dei propri diritti di lavoratori e di cittadini.
L’esperienza ha già proposto l’esigenza di forme diverse e articolate di assemblea intorno a tutti i problemi che interessano i lavoratori. Ci batteremo a fondo perché all’assemblea sia riconosciuto il diritto di intervento sulla organizzazione del lavoro, sulle condizioni di vita nella fabbrica, sulla sicurezza nel lavoro, sulla difesa degli organici, sulla piena occupazione e su tutti gli aspetti che riguardano la produzione e i lavoratori. Siamo stufi di promesse e di paternalismo, finalmente vogliamo decidere anche noi della nostra vita e di quella dei nostri figli.
E per dare una risposta a coloro che consideravano la durezza degli ultimi scioperi durante la lotta contrattuale come “manovre di interessati”, dimostreremo uniti che gli interessati ci sono, e sono i lavoratori e la loro decisa volontà di ottenere l’inizio immediato di una politica di riforme sociali e di rinnovamento democratico, di un’energica lotta contro i parassitismi e gli sprechi, colpendo i consumi di lusso, le posizioni di rendita, gli sprechi enormi legati alla caoticità della macchina statale e sociale, le esorbitanti retribuzioni di gruppi privilegiati e di alti burocrati.
I lavoratori uniti lotteranno per realizzare l’espansione del potere pubblico nei punti chiave dell’industria e della ricerca scientifica. Lotteranno per realizzare il passaggio sotto il controllo pubblico di quelle concentrazioni industriali dalle cui scelte dipende non solo la sorte di centinaia di migliaia di lavoratori ma, più ancora, l’orientamento dell’economia e l’avvenire del paese.
Esso comporta misure diverse, ivi comprese le nazionalizzazioni. Questo processo deve abbracciare innanzitutto i settori di base e quelli legati ai consumi sociali indispensabili (chimica, cemento, farmaceutica, zucchero, ecc.). Ogni nazionalizzazione richiede il controllo da parte della collettività e dei lavoratori. Il settore pubblico già assai esteso, sfugge completamente ad ogni forma di controllo democratico. Senza di ciò il settore pubblico diventa (come i fatti provano) subalterno e sussidiario rispetto alle grandi concentrazioni private e al sistema di scelte per gli investimenti e per i consumi dettate dalla logica del massimo profitto.
Perciò l’obiettivo del controllo democratico è essenza stessa di una politica di programmazione e della lotta per essa. Tale controllo deve esercitarsi, a partire dal settore pubblico, attraverso il Parlamento e gli Enti locali, deve trovare nelle regioni un nuovo e deciso strumento, deve articolarsi nella fabbrica attraverso la partecipazione diretta dei lavoratori, di tutti i lavoratori e delle loro organizzazioni.
Altro problema che si pone con urgenza è la gestione diretta da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni, degli istituti previdenziali: mutua, pensioni, liquidazione, ecc. Ma soprattutto prendendo nelle proprie mani il problema della difesa della salute.
Il progresso sociale e scientifico ha mutato profondamente la patologia umana, facendo scomparire o quasi le malattie infettive. Ma in pari tempo si è accresciuta quella che viene chiamata “patologia degenerativa”. Sotto forma di malattie dell’apparato circolatorio, di tumori maligni, allergie, malattie da usura e da sostanze tossiche. Sono dunque in causa i ritmi stressanti di lavoro e di vita e dall’altra le sostanze chimiche sempre nuove che inquinano l’aria; il terreno, l’acqua e i cibi. Entrambi questi tipi di fattori di malattia colpiscono prevalentemente la classe operaia. Queste nuove malattie, proprio perché a differenza di quelle infettive, non sono determinate da agenti fisici o biologici presenti in natura, bensì da fattori creati artificialmente dall’uomo – più che del progresso si potrebbero chiamare “malattie del profitto”.
Sono malattie non causate dall’evoluzione tecnica ma dalle sue distorsioni, perciò non mali inevitabili ma frutto del prevalere delle leggi del profitto sulle esigenze dell’uomo.
La durata della vita si è allungata – altro segno, si dirà, della società del benessere – con una media di 65 anni; ma è stato calcolato che i lavoratori addetti a mestieri logoranti vivono di meno: ad esempio il lavoro del minatore accorcia la vita media di 10 anni, un operaio addetto ad una catena di montaggio di una fabbrica metalmeccanica è già vecchio a 40 anni e, in generale l’invecchiamento è più rapido nei settori dove è più alta la produttività.
Gli infortuni sul lavoro.
Nel 1954 su un totale di 19 milioni 69.000 occupati si ebbe un valore del prodotto industriale interno netto di 10 miliardi 153 milioni e parallelamente 1 milione 55.828 infortunati sul lavoro di cui 3.748 mortali.
Nel 1968 con 18 milioni 569.00 occupati si è avuto un prodotto di 42 miliardi 887 milioni e 1 milione 592.830 infortunati sul lavoro di cui 4.779 mortali.
Ecco in queste cifre la dimostrazione, nei suoi termini più elementari e drammatici, di un sistema e di una classe dirigente che è riuscita ad estorcere in 15 anni, un valore produttivo quattro volte maggiore da un numero di lavoratori inferiore di mezzo milione. Una tale impresa, anche per l’assenza di adeguati investimenti per l’ammodernamento degli impianti poteva riuscire ad una sola condizione: accentuando lo sfruttamento, esasperando i ritmi di lavoro. Le conseguenze sono mezzo milione in più di infortuni l’anno ed un aumento di mille morti l’anno per infortuni sul lavoro. A questo punto sarebbe facile fare delle previsioni per gli anni 70, facile e terrificante se si ritenesse che la vita degli italiani continuasse a svolgersi secondo gli stessi schemi dettati da un sistema economico e sociale dominati dalla legge del massimo profitto.
Difendere la salute dentro e fuori la fabbrica e assicurare il progresso del sapere scientifico sono aspetti di un unico problema: un problema di democrazia, un problema di passaggio di potere, dal meccanismo del profitto alla volontà cosciente dei lavoratori.
In questa trasformazione occorre dare priorità anche ai grandi consumi collettivi e sociali (scuola, salute, trasporti, organizzazione del territorio), dai quali dipende un elevamento della produttività generale.
Nel programma di riforme, quattro esigenze si presentano particolarmente urgenti:
1) Una riforma della scuola che ne spezzi l’attuale struttura autoritaria e classista, si fondi sulla realizzazione del diritto allo studio, sulla autonomia e sull’autogoverno delle università e concepisca l’università come il centro di formazione di una cultura diretta a rinnovare la società.
2) Una riforma urbanistica che restituisca il suolo urbano, liberato dal peso della speculazione, alla collettività, dando nuovi poteri agli enti locali per rendere razionale l’uso del territorio, per combattere lo sviluppo caotico e disumano della città e per una moderna politica della casa, che sia concepita come un decisivo servizio sociale a basso prezzo.
3) Una riforma agraria che dia la terra a chi la lavora.
4) Una riforma sanitaria che garantisca una assistenza adeguata efficiente e gratuita a tutti i cittadini.
Il servizio nazionale dovrà assumersi i seguenti compiti:
a) cambiare gli ambienti di lavoro e di vita: la fabbrica, le città, le campagne: per preservarne la salute
b) porre freno alla vergognosa speculazione dei monopoli farmaceutici mediante l’intervento diretto dello Stato nella produzione dei farmaci
c) assicurare ai lavoratori in caso di malattia e senza limiti di tempo una indennità pari alla retribuzione.
Infine altro problema urgente è quello di democratizzare l’intero sistema delle informazioni di massa, a cominciare dalla RAI-TV.
Su questa linea di profondo rinnovamento mi sembra che si muovano le proposte dei comunisti. Purtroppo contrastate dalla volontà antidemocratica delle classi dominanti che nell’attuale momento, ed in legame al dominio delle grandi concentrazioni monopolistiche, si manifesta con la repressione e con il tentativo di svuotare di potere le conquiste sindacali e gli istituti democratici rappresentativi.
Le tendenze attuali, autoritarie e tecnocratiche, investono non solo l’organizzazione politica del potere ma anche la vita sociale e civile (vedi aumento dei prezzi, tentativo da parte della FIAT di assorbire il centro siderurgico Italsider di Piombino ecc.) e tutto questo nonostante le affermazioni del ministro del lavoro che diceva: – L’aumento retributivo tiene conto dell’andamento economico che il nostro sistema ha registrato negli ultimi tre anni ed appare perfettamente sopportabile. Nel 1967 e ’68 mentre il reddito nazionale è aumentato del 17,5%, le retribuzioni sono salite (tenendo conto della svalutazione monetaria) del 7,1%. Nel 1970 il costo del lavoro sfiorerà il 13% circa.
Gli aumenti di produttività previsti possono assorbire il 7% del costo del lavoro, mentre parte dell’onere restante può essere assorbito dagli alti profitti realizzati negli anni passati.
Invece la FIAT con l’aumento del 5% sul prodotto e con l’aumento della produzione ha quasi ricuperato l’aumento del costo del lavoro.
Nel quadro di questa battaglia sappiamo che le classi dominanti mantengono un’ostilità di fondo nei confronti del sistema democratico. Il pericolo che esse facciano ricorso alla violenza è sempre aperto. Lo sviluppo dell’organizzazione politica e sindacale e con la partecipazione di larghe masse, servirà ad impedire a queste classi il ricorso ad avventure e a colpi di mano reazionari.
È inoltre indispensabile all’Italia una nuova politica estera che garantisca la pace. L’Italia deve restare fuori da qualsiasi conflitto convenzionale o nucleare. Ciò è possibile solo con una politica di piena indipendenza nazionale. La politica atlantica ha avuto per l’Italia la conseguenza di una subordinazione sempre più pesante e in tutti i campi alla politica e agli interessi dell’imperialismo americano.
Sono state costruite sul suolo italiano basi straniere atomiche missilistiche. La sicurezza nazionale è in pericolo. Le più gravi decisioni potrebbero essere prese da comandi stranieri all’insaputa delle stesse autorità italiane, con il rischio di fare del nostro territorio l’avamposto dell’imperialismo americano e coinvolgere il nostro paese in disastrose avventure.
L’unica prospettiva reale di pace sta nello svincolamento dell’Italia dal Patto Atlantico e nell’uscita dalla NATO.
In vista della scadenza ventennale del “patto atlantico” occorrono iniziative di lotta che scuotano tutto il paese. Sarà questo un essenziale banco di prova per tutte le forze che intendono richiamarsi ai principi di pace del movimento cattolico democratico.
Con le lotte dell’autunno caldo il movimento operaio ha dimostrato, a chi pensava come ad una ripetizione dell’esperienza del maggio francese, di saper fare di più e meglio.
La classe operaia ha saputo rifiutare il discorso strategicamente infantile e semplicistico del “tutto o nulla”, non nel senso che il movimento di classe abbia rifiutato la prospettiva di una lotta rivoluzionaria; ma valutando che, nelle società a capitalismo avanzato, la via della rivoluzione sociale non è solo il frutto di minoranze coscienti e combattive, ma è invece il risultato delle conquiste della classe operaia e di ampi strati sociali, di uno sforzo da condurre ogni giorno, nella fabbrica e nella società per limitare il potere dei gruppi monopolistici.
In questo senso è perciò giusto parlare dell’esperienza italiana come di un movimento che ponendo al suo centro il problema di una profonda trasformazione dei rapporti sociali si è sviluppato attraverso la costruzione di un ampio fronte di lotta che saldando tra loro i problemi delle lotte rivendicative e quelli delle riforme, ha posto il problema degli sbocchi politici come frutto di una originale combinazione tra costruzione di un nuovo potere operaio in fabbrica e lotta per importanti riforme sociali.
Io penso che il compito nostro non sia quello di elaborare modelli delle società future, ma sia proprio questo: capire il movimento reale, di classe concretamente presente oggi, che può portare al superamento dell’attuale società.
In quanto “all’uomo nuovo” o a migliorare l’uomo, personalmente ho già una grande fiducia in quello attuale e penso che basterebbe poterlo inserire in una società come questa:
“Aperta a tutti i valori, a tutte le concretezze umane, alla originalità di tutte le coscienze; una società dalla quale sia bandita la “concorrenza come suprema legge dell’economia” e “il profitto come motore essenziale del progresso economico”. Una società che non si fondi sul dominio del denaro che genera la schiavitù dell’uomo, nella quale il valore di ciascuno non si misuri dal danaro che possiede. Una società nella quale ogni attività abbia realmente una funzione comunitaria, originale contributo della persona messo a disposizione della crescita degli altri; una società che sia veramente una comunità di lavoratori egualmente responsabili, uomini liberi e uguali, nella comunione con gli altri ai quali devono portare il loro autentico originale contributo; una società nella quale l’autorità, invece di pretendere l’integrazione della vivacità spirituale nel suo schema artefatto, sia un servizio alla crescita della libertà per l’arricchimento della comunità; una società guidata da uno stato profondamente laico, nella quale possano incontrarsi, dialogare e vicendevolmente arricchirsi le varie coscienze, le diverse concezioni della vita, senza posizioni di privilegio per chicchessia; una società nella quale lo Stato più che difendere i diritti di alcune classi e di alcune religioni, difenda i diritti dell’uomo, di ogni uomo (Don Nicola Calbi)”.
A questo punto la smetto, prima che tu mi mandi a quel paese, anche se ho dimenticato qualche cosetta.
Ho scritto tutto questo per farti sapere che i problemi li conosciamo e più o meno bene sappiamo come risolverli e a costo appunto di perdersi – nel riformismo o nel sindacalismo -, vogliamo che tutti raggiungano la fine dello “stato di necessità”, e dopo per la prima volta in vita nostra saremo liberi di pensare a ciò che dovremo fare.
Ti mando queste recensioni sulla “Storia” di Spriano (naturalmente tratte dall’Unità!).
Di Russell e di Marcuse avrei molto da leggere ma sempre più me ne manca il tempo.
Qualche sera fa sono stato a proiettare quelle diapositive su Genova in casa Pertusio, erano presenti oltre la famiglia (nonna ottantenne compresa), urbanisti architetti e giù di lì; la parte storica è stata molto apprezzata, quella sociale un po’ meno: un tipo è arrivato a dirmi che «le bandiere rosse finali c’entravano come i cavoli a merenda». Comunque sono stato invitato ufficialmente al “centro studi Pirelli” di Milano e a “Italia Nostra” sembra per dimostrare il carattere estremamente democratico della nostra società, aperta a tutte le opinioni!
Da poco mi hanno eletto con regolari votazioni “delegato di reparto”, come previsto dall’ultimo contratto (uno ogni trecento dipendenti). Inizia qui e probabilmente finisce la mia carriera di sindacalista. Avrei voluto rimanerne fuori ma mi hanno messo alle strette, dicono che parlarne solo non basta! E fin dal primo giorno sono partito all’attacco, tanto per tre o quattro anni non potranno buttarmi fuori.
Siamo stati la prima settimana di febbraio a Canazei. Ho fatto delle discrete fotografie e dei bellissimi giri in sci con alcuni amici dell’Italsider. Sabina ha imparato a scendere a spazzaneve, spero proprio nel prossimo anno di poter portarla con me.
Chiarella mi aveva telefonato per il pranzo del CAI di Chiavari, ma per una serie di circostanze non ci sono andato. Vorrei andarlo a trovare, ma penso che forse sarebbe meglio combinare un giro in Apuane secondo le sue possibilità, cosa ne pensi?
Tu cosa fai? Vai spesso a Torino? Hai visto che quelli non scherzano, sono tutti redattori… e sempre molto impegnati!
Il tuo tempo libero come lo impieghi? Ti interessi ancora di statistica e di economia? E di lotte sindacali?
Qui mi saresti di estrema utilità per i consigli legali che potrei scroccarti! Nell’applicazione spicciola del contratto i cavilli e le contestazioni nascono come funghi.
Ti vedrei molto bene inserito nella realtà di qualche sindacato o partito politico, a promuovere e curare gli interessi di coloro che pur essendone coscienti, non hanno alcun potere sull’impiego della propria esistenza. Comunque ora ben più importanti eventi ti attendono.
Annabella sta bene? Ricordati che ha bisogno in questo momento di molta protezione e serenità.
Vedi un po’ di perdonarmi! Vi abbraccio
Guido Rossa
Salutami tua madre
(Genova, 4 marzo 1970)
2) Ricordo di Guido Rossa
di Massimo Mila
(Commemorazione tenuta da Massimo Mila il 18 gennaio 1982, in occasione dell’inaugurazione e intitolazione della prima palestra italiana di arrampicata al coperto nel Palazzo a Vela di Torino, a ricordo di Guido Rossa, accademico del CAAI, ucciso dalle Brigate rosse il 24 gennaio 1979) da Scritti di montagna, Einaudi 1992, pp. 396-403, poi ripubblicato in I due fili della mia esistenza, Club Alpino Italiano 2018, pp. 109-114
Ringrazio gli amici e i colleghi di Torino dell’Accademico per avermi invitato, per avermi fatto l’onore di commemorare qui, nell’occasione dell’intitolazione a lui di questo grosso e bellissimo giocattolo che abbiamo tanto sognato da giovani quando, con Gervasutti, con Boc- calatte, con Rivero, con Chabod ci si andava ad arrampicare sui pilastri di Corso Vittorio in mancanza di meglio. Molti di loro amici e colleghi dell’Accademico qui di Torino avrebbero potuto ricordare Guido Rossa meglio di me. Per esempio il presidente del Gruppo Occidentale Dino Rabbi che nel propormi questo incarico mi scriveva:
«Avrei dovuto farlo io stesso com’è mio preciso dovere ma confesso di non ritenermi in grado di contenere l’emozione e la commozione nel rievocare i tanti ricordi e l’amicizia che a lui mi legava».
Questo pericolo non lo corro perché purtroppo non ho conosciuto molto da vicino Guido Rossa. A parte qualche incontro sfuggevole nelle riunioni dell’Accademico, ho incontrato una volta Guido Rossa in montagna da soli: io scendevo e lui saliva in Valle Gesso e come succede sempre ai solitari della montagna, appena vedono qualcuno sono felici di trovare compagnia; abbiamo fatto una lunghissima chiacchierata e lì ho scoperto per esempio uno dei pregi di Guido Rossa: che non aveva nessuna vocazione a fare il padreterno. Non ci potevamo quasi conoscere in montagna perché lui volava alto come l’aquila e invece io strisciavo come un verme, ma si interessò molto gentilmente delle salite che facevo ed ebbe la bontà di trovarle interessanti, importanti, e ne fui veramente conquistato. Però poi questa relazione, questa amicizia possibile non ebbe occasione di continuare.
Ora nel ricordare Guido Rossa io mi fondo soprattutto sui dati e sui documenti che mi hanno fornito gli amici suoi.
Questo ricordo di Guido Rossa si svolgerà su due versanti opposti. Quando fu ucciso tre anni fa i mezzi di informazione, i giornali, la radio, ci misero molto tempo a capire che era stato stroncato uno dei più grandi alpinisti italiani. Lo presentarono come un operaio che andava la domenica in montagna a fare una scampagnata e quindi questo fatto venne fuori col tempo. D’altra parte molti dei suoi amici della montagna, io per primo, cademmo dalle nuvole a sentire l’impegno politico che quest’uomo aveva contratto. Perciò, come dico, questo ricordo sarà su due versanti: per una parte ricordare chi è stato Guido Rossa alpinista e questo sarà un banale lungo elenco di salite, di scalate: fra le moltissime sue scalate ricordiamo la cresta Sud della Noire fatta tre volte di cui due in solitaria, la parete Ovest della Noire de Peutérey per la via Ratti, la Nord del Lyskamm, la Nord del Gran Paradiso, la parete Sud del Dente del Gigante, il Gran Capucin per la via Bonatti, il Grépon Mer de Glace con la fessura Knubel, il Cervino invernale, la parete Nord-Est del Badile via di Cassin, il Corno Stella quattro volte per i versanti e le vie più difficili: la via Rabbi alla parete Nord, la via Allain alla parete Sud-Est e moltissime belle vie nelle Dolomiti: Cima della Madonna per lo spigolo del Velo, la via Steger sulla Est del Catinaccio, la via Graffer sul Campanil Basso, lo Spigolo Giallo alla Cima Piccola che se non sbaglio fece a diciassette anni di età. La Grande di Lavaredo per la parete Nord, via Comici, ancora la Ovest di Lavaredo per lo spigolo Demuth, la Piccolissima di Lavaredo per la via Cassin, la via Comici alla Punta Frida, alla Marmolada la parete Sud, la via Soldà e la via Vinatzer, la via Tissi alla Torre Venezia in Civetta e, forse il do di petto dell’alpinismo super estremo nelle Dolomiti, la via Livanos alla Cima Su Alto e la via H. Buhl alla Roda di Vael.
Queste salite a cui va aggiunta una sola spedizione extraeuropea, la Spedizione al Lirung nell’Himalaya del Nepal che finì tragicamente con la morte di due alpinisti torinesi – Giorgio Rossi e Cesare Volante – e che si completa con innumerevoli altre salite, potrà anche parere modesta ai moderni assi del 7° grado, e bisogna subito spiegare un particolare: Rossa era un operaio, un operaio legato ad un orario di fabbrica, andava in montagna nei week end del sabato pomeriggio e domenica, nell’estate aveva sì e no venti giorni di tempo. L’alpinismo è purtroppo uno sport da signori. Ci vuole time and money, ci vuole tempo e denaro oppure bisogna fare come fanno alcuni grandi come il nostro amico Messner, come faceva un Bertone, come faceva un Bonatti: dedicare interamente la propria vita, passare al professionismo. Altrimenti credetemi che nelle condizioni in cui faceva l’alpinismo, Guido Rossa ha fatto dei miracoli incredibili, straordinari! Certo non c’è nemmeno una grande via nuova; le sue vie nuove ci sono ma sono su piccole montagne qui nel Piemonte non lontano da Torino. Ci sono delle vie di palestre terribili, la via delle Placche Gialle alla Sbarua, ma non poteva permettersi certi lussi se si pensa che semplicemente fare la Nord dell’Eiger o la Nord delle Jorasses richiede di preparativi una buona settimana di tempo e una modesta spedizioncina in Himalaya richiede 40 giorni di tempo, che Guido Rossa non ebbe mai, tanto meno li ebbe poi quando si sviluppò in lui la passione sindacale e politica.
Abbiamo delle testimonianze commoventi veramente, che lui stesso scrisse ad un amico: «Continuo ad andare in montagna anche se molto meno di prima». Man mano che cresceva in lui l’impegno politico e sindacale incominciava ad abbandonare in parte l’alpinismo. Ciononostante tutti gli anni in estate dedica almeno dieci giorni all’alpinismo, dieci giorni d’estate!
Nel frattempo, come vedremo, si era trasferito a Genova e praticò molto le bellissime, piccole ma bellissime, Alpi Apuane e lì aveva imparato a conoscere la fatica dei lavoratori del marmo (…)».
E veniamo a dire brevemente chi era: Guido Rossa era nato a Cesio Maggiore in provincia di Belluno il 1° dicembre 1934, ma ci rimase sì e no 18 mesi. Suo padre, minatore naturalmente malato di silicosi, dovette cambiare lavoro e venne a Torino come custode in una fabbrica di cuscinetti a sfera; fabbrica nella quale entrò pure Guido appena l’età glielo permise e cioè a 14 anni. Pare che in questa fabbrica abbia stretto amicizia con un anziano operaio alpinista e sindacalista che lo indirizzò verso quella che fu la sua vita (…).
Fece il servizio militare come alpino paracadutista, era il meno che col suo fisico potesse fare, e poi prolungò la ferma di un anno come istruttore di alpinismo. Poi sposò una signorina di Genova, la sua Silvia, e questo fece sì che a un certo punto si trasferì a Genova cambiando amici, cambiando compagni soprattutto. Questo avvenne nel 1959. Entrò nell’Italsider di Cor- nigliano nel reparto di manutenzione strumenti di alta precisione, micrometri, comparatori. Ricorda un suo compagno che lo commemorò molto bene in una rivista sindacale «lavorava sul piccolo e sul piccolissimo». Divenne presto un elemento di primo piano nella linea sindacale della fabbrica. Fu nominato delegato di fabbrica con 225 voti su 250 del suo reparto. Ricorda questo suo collega di lavoro, che nel suo studio dove riparava questi apparecchietti minuscoli c’era una finestrella al di là della quale venivano i suoi colleghi, compagni ed operai, a chiedergli consigli, consigli di lavoro certamente, consigli sindacali, ma anche consigli di tutt’altro genere, consigli privati, consigli per la loro vita.
Guido Rossa aveva proprio la vocazione di consigliere, dell’amico degli uomini: mi pare di vederlo da questa finestrella dare un’udienza agli amici e compagni.
Aveva un talento meccanico spiccatissimo: a quanto mi raccontano i suoi amici si fabbricava da sé i nostri arnesi della montagna chiodi, martelli, moschettoni e ancora adesso si parla di un certo chiodo ad espansione fabbricato da lui che pare non abbia l’eguale in tutta la storia dell’alpinismo. Aveva anche un naturale talento artistico. Questa sua capacità meccanica si manifestava anche nella pittura e nella scultura. Ma soprattutto a poco a poco si sviluppò in lui questa vocazione straordinaria alla partecipazione della vita lavorativa.
E qui debbo ricorrere volentieri ai documenti che mi sono stati forniti dagli amici suoi e principalmente ad una incredibile, straordinaria, lettera di trenta pagine scritta da lui al suo amico e compagno di corda Ottavio Bastrenta.
Trenta pagine! Una lettera di trenta pagine: pensate oggi nei giorni in cui imperversa la furia telefonica più nessuno scrive lettere: quest’uomo scrive una lettera di trenta pagine. Questa lettera è un vero manifesto politico quale potrebbe mettere insieme un partito riunendo tutte le forze intellettuali, riunendo tutti i migliori cervelloni che possiede. Questo, Guido Rossa se lo è scritto tutto da sé! È una lettera che comincia con una contestazione un po’ malinconica dell’incompatibilità dell’alpinismo a tempo pieno e della politica a tempo pieno. Parla dell’assoluta necessità di trovare «un valido interesse per l’esistenza, un interesse che si contrapponga a quello quasi inutile dell’andar sui sassi, un interesse che ci liberi dal vizio di quella droga che ci fa dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e di ingiustizie, di un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica. Per questo anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini a lottare con loro, allargando la nostra solidarietà che porti al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale».
Ecco manifestarsi in Guido Rossa questa sete di comunione con gli altri uomini. «Sin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me il motivo dominante» e scriveva a questo suo amico Bastrenta (che credo sia qui presente): «Qualche volta mi ricordo di una sera al Rifugio di Valle Stretta quando a bruciapelo mi chiedesti: tu sei comunista? ed io prontamente risposi: sì, pensando… questa volta mi sono giocato un compagno di corda e un amico». Invece non si giocò un bel niente, e al Bastrenta poteva scrivere appunto questo straordinario manifesto. Che tra l’altro denota in Guido Rossa una saggezza politica ben lontana da qualsiasi estremismo utopistico. Pensate come sapeva di tutto. Diceva: «In una società altamente sviluppata come Stati Uniti ed alcune grandi città europee sono sostanzialmente d’accordo con il Marcuse che sarebbe l’ora di opporre alla società stabilita “grande rifiuto”».
Grande teoria di Marcuse del grande rifiuto. «Si deve sottrarre l’uomo all’apparato che soddisfacendone i bisogni ne perpetua la servitù: non bisogna tollerare l’aggressività, la bruttezza del modo di vita imposto dalla società capitalistica».
Guido Rossa stava scoprendo quello che è stato il programma esposto da Carlo Rosselli, il promotore del movimento di Giustizia e Libertà e il progenitore di quel Partito d’Azione che fu silurato e boicottato improvvisamente da chi meno avrebbe dovuto farlo e cioè, come si intitolava il libro principale di C. Rosselli Socialismo Liberale. Guido Rossa cercava disperatamente questo socialismo liberale.
Una società dalla quale sia bandita la concorrenza come suprema legge dell’economia e il profitto come motore essenziale del progresso economico, queste frasi Guido Rossa le mette tra ironiche virgolette. Ora io avrei voluto conoscerlo meglio allora e soprattutto vorrei averlo qui per poter discorrere con lui di queste cose e dirgli: «Guarda, ma credi che basti mettere questi termini tra virgolette ironiche per distruggerli? Forse queste leggi dell’economia esistono davvero e hanno tanta forza come quelle della fisica. Perlomeno così mi insegnava un tempo Ernesto Rossi in una cella di Regina Coeli. Tanto poco probabile è che la produzione economica si organizzi in modo soddisfacente senza l’incentivo del profitto».
Ma allora se ci sono queste persone non tutto è perduto per noi.
E Guido Rossa ne ha dato l’esempio. Guido Rossa nel sacrificio a cui andò incontro serenamente, deliberatamente, il 24 gennaio 1979 ha dato a tutti noi un esempio. E proprio veramente mancano anche a me le parole per ricordare l’altezza di quest’uomo e la profondità del pensiero che rivelava in questi documenti nei quali tra l’altro si insinuavano alle volte piccolissimi erroretti di ortografia che li rendono ancor più sbalorditivi e commoventi. Quest’uomo a quattordici anni era andato a lavorare, non aveva fatto scuole né medie né superiori ed ha creato qui un programma politico che un partito politico potrebbe far proprio.
Ora si legge purtroppo che in questi giorni altri due operai, dell’Alfa mi pare, corrono il rischio medesimo che corse Guido Rossa e speriamo che li sappiano tutelare e proteggere.
Ma si legge soprattutto la straordinaria sbalorditiva spiegazione del rischio che viene minacciato, e cioè che è l’accusa che venne mossa a Guido Rossa: un operaio non denuncia un altro operaio.
Bel modo davvero di sragionare, un operaio non denuncia un altro operaio, un banchiere non denuncia un altro banchiere, un industriale non denuncia un altro industriale, cane non mangia cane, lupo non morde lupo. Questa teoria ha in Italia un nome ben preciso, e purtroppo una lunga e dolorosa storia, e si chiama camorra, si chiama spirito di corpo, si chiama spirito di associazione, ma in qualunque maniera la si voglia chiamare è camorra. Cioè la copertura di delitti, attraverso uno stravolgimento patologico della solidarietà. Sia ben chiaro. È il famoso motto del patriottismo inglese Right or Wrong, is my Country (Giusto o sbagliato è la mia patria). E no! non ci stiamo a teorie di questo genere e sia ben chiaro non c’è patria che tenga, non c’è spirito di corpo, non c’è spirito di classe che tengano contro i valori della verità e della giustizia.
Guido Rossa con tutta la straordinaria vocazione comunitaria che aveva in sé, Guido Rossa aveva scoperto questo bene e per affermarlo è andato incontro alla morte.
3) Sai che vogliono ammazzarmi?
di Enrico Camanni
(da Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia, Laterza, 2016)
Un giorno d’inverno Gian Piero Motti incontra Guido Rossa: «Fissandomi a lungo con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo».
Guido Rossa è stato l’antesignano del Sessantotto alpinistico, anche se nessuno se n’è accorto. Era troppo avanti sui tempi. Aveva una decina d’anni più dei ragazzacci del Nuovo Mattino e la stessa età di Gary Hemming, l’americano, ma veniva da un mondo opposto. Arrivava dal profondo nord dell’Italia fascista e provinciale.
La storia di Rossa comincia il primo dicembre del 1934 a Cesio Maggiore, un paese della provincia di Belluno. Il padre Giuseppe, minatore, è costretto dalla silicosi a cercare un nuovo impiego a Torino e così il piccolo Guido, prima di compiere i due anni, si trova nella città delle grandi fabbriche e delle grandi montagne.
Cresce in tempo di guerra in una modesta famiglia veneta. Presto impara il dialetto piemontese. Guido è un ragazzo sensibile, di carattere, che affronta la vita a muso duro. Gli piace rischiare e misurarsi con se stesso. Fa il servizio militare negli alpini paracadutisti e incide sul metallo «noi siamo i migliori di una classe eletta». È affascinato dai gesti forti e cullato da tentazioni autoritarie.
Dopo le scuole elementari ha seguito i corsi professionali fino alla licenza inferiore ed è entrato in fabbrica a quattordici anni. Prima l’apprendistato in un’officina di cuscinetti a sfera, poi l’assunzione alla FIAT con mansioni di fresatore. È un operaio resistente, determinato, di poche parole. Ha mani d’oro e cervello fino. A Mirafiori respira l’aria alienante del lavoro a catena e non tarda a scoprire la durezza del sistema imprenditoriale. L’intransigenza giovanile comincia a fare i conti con un nemico organizzato e scaltro, contro il quale non valgono i gesti plateali. In fabbrica Guido diventa uomo.
Il dirigente torinese della CISL Mario Gheddo lo ricorda in cima a una fresatrice Keller alta come una casa di due piani:
“Era un uomo aperto ai valori della libertà e ai diritti del lavoro. Era capace di un odio feroce verso i licenziamenti Fiat o verso l’anticomunismo degli Agnelli, ma non si comportava né da capo né da estremista. Alle presse era uno dei pochi operai non specializzati… Quell’estate ordinammo il fermo della produzione perché il sistema di condizionamento non funzionava e si lavorava con un caldo bestiale. Lui fu tra i primi a fermarsi”.
Gheddo ha un altro ricordo di Rossa ventenne, questa volta in montagna:
“Ci incontrammo sulla via Dubosc alla Parete dei Militi. Lui era con una ragazza, Giuliana, che non voleva saperne di salire la gran placca. Per convincerla è salito e sceso bel po’ di volte, tranquillo, senza esitazioni. Sapeva essere molto persuasivo…”.
In parete Guido comanda già a diciassette anni, quando con Giacomo Menegatti scala le due mitiche vie di Comici in Lavaredo: Nord della Cima Grande e Spigolo Giallo. Per il prudente ambiente torinese si tratta di due salite proibite ma Rossa e Menegatti, spregiudicati e dissacratori, non si lasciano intimidire. Anzi. Al ritorno raccontano di scherzi grevi in parete e di orinate all’indirizzo del compagno.
Dopo la morte di Giusto Gervasutti nell’estate del 1946, l’alpinismo subalpino soffre di pesantezza: miti, inibizioni, clima austero da caserma. Nell’impasse Rossa marca il punto di rottura, contestando e rilanciando l’arrampicata torinese. Senza prendersi troppo sul serio dà la scossa al riverito Alpinismo. Lui è già un moderno che preferisce la parete alla vetta. Arrampica d’istinto ed è sempre pronto a partire. Cesare Barbi ricorda «un arrampicatore eccezionale, che sale senza la minima esitazione, di slancio».
Racconta Franco Ribetti:
“Siamo andati al campeggio dell’Uget in Val Veny e ci siamo scatenati. Guido aveva già salito la cresta sud dell’Aiguille Noire sul Monte Bianco, ma io volevo ripeterla con Federico De Maestri. Allora lui ci ha preceduti senza corda e in sette ore e mezza eravamo in cima, e per cena al campeggio”.
Alla Rocca Sbarua, che in piemontese vuol dire “spavento”, Rossa fa i primi buchi con il punteruolo per salire il muro delle Placche Gialle:
“Aveva inventato dei rudimentali chiodi a espansione – racconta Dino Rabbi – costituiti da particolari bulloncini con testa a brugola presi in Fiat e da una placchetta artigianale bloccata dal moschettone: tolto quello rimaneva solo il bullone. Alberto Marchionni ha cercato di ripetere la via e si è trovato una sfilza di tondini senza placchette!”.
Ancora alla Sbarua lascia di stucco gli alpinisti della domenica salendo slegato la via di Gervasutti in giacca e cravatta, con le scarpe di para. «Vai a un matrimonio?» gli chiedono. «No, vado alla Gerva» risponde serissimo. A Guido piace scandalizzare. Adora sbriciolare i tabù. Viaggia su una moto tenuta insieme dal fil di ferro e ornata di teschi e ossa incrociate. «Si atteggia un poco a pirata – scrive Armando Biancardi – sempre pronto a scendere all’arrembaggio. E ha il becco, e le spalle, di portarsi ovunque, arrampicate estreme incluse, un impermeabile con relativo cappellaccio, di non so quanti chili, rigido, ingombrante, in dotazione sui pescherecci». Leo Ravelli l’ha visto a cavallo di un crocefisso in Valle Stretta e di una mucca in Val Lemina, come al rodeo. L’obiettivo di Rossa è canzonare i vecchi miti. Un anno, non si sa perché, partecipa al corso di formazione per Istruttori Nazionali del CAI. Sul terreno è quasi perfetto, ma al colloquio con il grande Cassin dichiara alla commissione: «A me delle scuole non frega niente».
Sale quasi tutti i grandi itinerari delle Alpi occidentali e si spingerebbe oltre se ne avesse il tempo. Le domeniche e le brevi ferie estive sono gli unici giorni buoni per la montagna, e la Lambretta è un lusso da signori. Per questo Rossa scala più di trenta volte la Parete dei Militi, un muro di calcare friabile che non porta da nessuna parte ma si trova a due passi dalla ferrovia di Bardonecchia. Comunque nel 1963 vive le emozioni e le angosce della grande avventura extraeuropea con la spedizione del CAI Uget di Torino. Va tutto storto. Tentando i settemila metri del Langtang Lirung nell’Himalaya del Nepal, Giorgio Rossi e Cesare Volante restano sepolti da una valanga di ghiaccio. Guido è molto legato a Giorgio e la sua morte lo segna in profondità. È l’inizio di una profonda revisione critica circa il modo di intendere e vivere l’alpinismo.
Intanto ha sposato la genovese Silvia Carrara ed è nato Fabio. Nel 1961 lui trova un posto all’Oscar Sinigaglia di Cornigliano e si trasferisce da lei in Liguria. In fabbrica è addetto alla manutenzione degli strumenti di alta precisione, un lavoro che gli si addice. Gira bene: nuovi affetti, nuova città, nuova vita. Poi, in dicembre, la tragedia. Il piccolo Fabio resta soffocato da una fuga di gas e l’ambulanza che si fa strada nel convulso traffico genovese arriva troppo tardi all’ospedale. Per Guido è un colpo durissimo, il motivo della crisi che inciderà profondamente sulle sue scelte di vita. Sempre più lucide e consapevoli si fanno strada l’attenzione al sociale e la passione per i deboli, con la stessa urgenza che a vent’anni l’aveva portato a cavalcare le montagne.
Mentre in fabbrica matura l’ideologia della lotta operaia, le altre passioni perdono sostanza. Rossa è interprete sensibile dei cambiamenti degli anni Sessanta, nel suo stile risoluto e appartato. Ogni credo, compreso l’alpinismo, deve fare i conti con una nuova scala di valori. Nel dicembre del 1962 nasce Sabina, la secondogenita; lui adora i bambini e le dedica quasi tutti i fine settimana. Nel tempo libero estende gli interessi alla fotografia, alla pittura e alla scultura. Nelle domeniche invernali gira per i borghi liguri fotografando chiese, ponti e tramonti. S’interessa anche a Genova, con i suoi vicoli e le sue povertà, e mette insieme una proiezione di diapositive che dai tagli delle antiche case sconfina nella protesta proletaria. Fa scandalo tra i benpensanti della città.
Rossa è l’autodidatta che ama dar vita alla materia grezza, il non credente che regala un Nazareno di ferro contorto all’amico comunista Ottavio Bastrenta. Legge molto e di tutto. Quando scopre Herbert Marcuse se ne innamora e lo propina ai compagni di cordata nei lunghi viaggi verso la montagna. Tra il 15 febbraio e il 4 marzo 1970 scrive a Bastrenta una straordinaria lettera di trenta pagine che dall’alpinismo si apre alla vita e alla politica, proponendo un manifesto democratico anticapitalista:
“L’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano nell’ambiente alpinistico sono tra le squallide cose che mi lasciano scendere senza rimpianto la famosa «lizza» della mia stagione alpina. Da ormai parecchi anni, mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e ingiustizie, un mondo dove un abitante su tre vive in uno stato di fame cronica, due su tre sono sottoalimentati e dove su sessanta milioni di morti all’anno, quaranta milioni muoiono di fame! Per questo, penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro…
Ma probabilmente queste prediche le rivolgo soprattutto a me stesso; perché, anche se fin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me il motivo dominante, sinora ho speso pochissime delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso… Penso che sia giunto il momento di opporre alla società stabilita il “grande rifiuto”. Si deve sottrarre l’uomo all’apparato che soddisfacendone i bisogni ne perpetua la servitù…”.
A trentasei anni il suo credo socialista si fonda su un’esplicita fede nell’uomo:
“In quanto all’«uomo nuovo» o a migliorare l’uomo, personalmente ho già una grande fiducia in quello attuale e penso che basterebbe poterlo inserire in una società aperta a tutti i valori, a tutte le concretezze umane, all’originalità di tutte le coscienze…”.
L’ultima parte della lettera è autobiografica:
“Da poco mi hanno eletto con regolari votazioni «delegato di reparto», come previsto dall’ultimo contratto. Inizia qui e probabilmente finisce la mia carriera di sindacalista. Avrei voluto rimanerne fuori ma mi hanno messo alle strette, dicono che parlarne solo non basta! E fin dal primo giorno sono partito all’attacco, tanto per tre o quattro anni non potranno buttarmi fuori”.
Poteva diventare un dirigente del sindacato, ne aveva i titoli e le capacità, se non fosse stato convinto che solo condividendo la vita quotidiana dell’operaio si potesse giungere alla comprensione e alla vera condivisione. Ottavio Bastrenta precisa:
“Guido operaio, Guido alpinista, conquista la sua credibilità con l’azione, ove emergono le sue caratteristiche e doti migliori e ove più appare solido, lucido, coerente. I suoi compagni di lavoro e di lotta sindacale e politica, come i suoi compagni di cordata, hanno sin dall’inizio piena fiducia in lui, una fiducia che lui non deluderà mai. Ma Guido sentiva e credeva che questa “autentificazione” al ruolo di rappresentante dei lavoratori non poteva essere data una volta per tutte, ma doveva essere sempre verificata e rinnovata dalla prassi operaia”.
Rossa impara un nuovo mestiere. Non è un politico avvezzo ai giochi del compromesso, ma sa ascoltare e tenere il posto. Prende di rado la parola, e per questo risulta più credibile. Alle assemblee annota ogni intervento per studiarlo nei minimi dettagli. I primi tempi, nel furore esaltante delle lotte che tra il 1968 e il 1969 frantumano l’immagine paternalistica di “mamma Italsider”, viene fuori con espressioni radicali tipo «quando uno è sfruttato e indossa la tuta ha sempre ragione» (dalla testimonianza di Giorgio Occhi, operaio e delegato); più avanti, con intelligenza politica, riesce a entrare nei delicati ingranaggi delle trattative. Si confronta con tutti e cresce nella convinzione che la nuova stagione del sindacato sia fondata sull’unità tra orientamenti diversi. Uomo di dialogo e di ricerca, è ansioso di conoscere le storie parallele alla sua.
Lui che in montagna era stato anarchico e provocatore, sposa le tesi della corrente riformista di Enrico Berlinguer. Per sciogliere l’apparente contraddizione, alcuni anni fa ho chiesto lumi a Piero Villaggio, alpinista e matematico di razza, recentemente scomparso. Villaggio sciolse i miei dubbi con queste parole:
“Rossa era un pragmatico. Diceva: ‘Ci sono dei momenti storici in cui serve compattezza’. Era un marxista nel senso che vedeva i problemi nel loro divenire storico, ma senza rigide ideologie.
La spavalderia di Guido era nobiltà. Sempre ironico con se stesso e con gli altri, era troppo intelligente per fare il furbo. Non si prendeva troppo sul serio, era schivo, mascherava gli affetti e i sentimenti. In qualche modo tratteneva la sua umanità. Ma nei momenti del bisogno venivano fuori le sue attenzioni, come nei bivacchi: ‘Hai messo il maglione?’. ‘Hai tirato su il colletto?’. Era un primo di cordata naturale, però diceva «comincia tu» e poi restava dietro per tutta la salita”.
Alla fine del 1978 Rossa partecipa all’annuale riunione del Club Alpino Accademico al Monte Cappuccini di Torino. Ci sono i vecchi amici, Guido è gioviale ma a un certo punto spara a bruciapelo: «Tsas ch’a veulo feme fòra? (Sai che vogliono farmi fuori?)». Franco Ribetti cade dalle nuvole e chiede spiegazioni, allora lui aggiunge in piemontese: «Sì, mi hanno minacciato di brutto. Va a finire che ho rinunciato a far carriera per il sindacato, e adesso quegli altri mi fanno fuori».
La storia risale al 25 ottobre, quando Guido ha scoperto Francesco Berardi, operaio come lui, distribuire in fabbrica un ciclostilato clandestino delle Brigate Rosse. Non ci ha pensato due volte e l’ha denunciato dicendo a se stesso: “sempre voltarci dall’altra parte, altrimenti siamo complici”.
La colonna genovese delle BR si dibatte da tempo tra due ossessioni: il Partito Comunista e la grande industria. L’obiettivo è entrare nelle fabbriche in trasformazione – l’Ansaldo, l’Italsider, i Cantieri navali – per sensibilizzare gli operai alla causa della lotta armata rivoluzionaria, ma il PCI controlla capillarmente il campo. Il 17 novembre 1977 hanno gambizzato il comunista Carlo Castellano, un tecnico dell’Ansaldo considerato complice dell’azienda. Poi l’azione si è allargata all’Italsider fino a quando Berardi, il “postino delle BR”, non è stato smascherato.
Rossa racconta quello che ha visto al Consiglio di fabbrica, ripete l’accusa al Servizio di vigilanza e poi al magistrato. La sera stessa Berardi è arrestato e confessa. Per il sindacato di fabbrica si tratta di una situazione nuova, eccezionale: Berardi è pur sempre un operaio, per di più ingenuo e idealista. La base comunista si dichiara solidale nella lotta al terrorismo, ma è una base corporativa e le frange estremiste sono affascinate dallo slogan “Né con lo Stato né con le BR”. Qualcuno parla di spiata, nasce una discussione ambigua, saltano gli schemi collaudati e Guido resta solo.
Va a testimoniare il 30 ottobre 1978 al processo per direttissima. A quel punto è già nel mirino delle Brigate Rosse ma non si lamenta, non è nel suo stile. Non gli è mai piaciuto fare la vittima. Prende qualche precauzione – una pistola, senza convinzione, su consiglio della polizia – e rifiuta l’orario di sicurezza suggerito dalla direzione del reparto. Riceve numerose minacce anonime, ma le nasconde per non allarmare la famiglia. Si confida alla compagna di montagna e politica Rita Corsi:
«Credo che stia per succedermi qualcosa», dice.
«Cambia macchina, cambia orari», lo consiglia lei.
«Non serve, Rita, se ti vogliono beccare ti beccano».
Il 24 gennaio 1979, alle sei e trenta del mattino, Guido Rossa esce come al solito per andare al lavoro, sale in automobile e viene “giustiziato” sotto casa con l’imputazione di “spia”: quattro colpi alle gambe e un colpo al cuore.
La figlia Sabina ricorda:
“Uscii per andare a scuola, passai accanto alla macchina di mio padre, ma non la vidi, non vidi il suo corpo riverso sul volante. Ancora oggi quello rimane il mio cruccio più grande. Se ne accorse lo spazzino”.
L’esecutore dell’omicidio, Vincenzo Guagliardo, sosterrà che doveva trattarsi di un semplice ferimento intimidatorio e che il colpo mortale era stato un’iniziativa personale di Riccardo Dura. Ancora oggi la dinamica dei fatti non è chiara e un velo di indeterminatezza coprirà per sempre gli anni più cupi della democrazia. Lo stesso Dura rimarrà ucciso nel 1980 in un conflitto a fuoco con i carabinieri di Dalla Chiesa; Berardi si impiccherà nel carcere di Cuneo, travolto da un meccanismo disumano; il suo avvocato difensore, Edoardo Arnaldi, si sparerà con una Mauser all’arrivo della polizia.
Comunque l’assassinio di Rossa è un suicidio per le Brigate Rosse.
Duecentocinquantamila persone scendono a Genova in piazza De Ferrari, sotto la pioggia, per manifestare rabbia, dolore e solidarietà. Guido diventa l’eroe di tutti, le BR appaiono come il nemico cui né lo Stato né il Partito sono riusciti a rispondere con coerenza. In piazza ci sono gli operai che piangono un compagno, c’è il sindacato con Lama in prima fila che fa pubblica autocritica («se il gesto di Rossa non fosse rimasto isolato, se nel momento più arduo fossimo stati come un solo testimone…»), c’è Pertini, commosso, che fa segno di tacere col dito alzato. Scriverà Enrico Fenzi, l’ispiratore pentito delle BR genovesi:
“Qualcosa aveva finito di spezzarsi, senza rimedio: era finito, per molti di quegli operai, un sogno vago e tenace. La confusa, mitica speranza che le Brigate Rosse avevano alimentato, soffiando sulla vecchia brace dell’idea rivoluzionaria, si era spenta. E gli operai, in quella piazza, quella mattina, piangevano la morte di uno dei loro, una parte viva del loro essere, e insieme piangevano in quella morte la fine di un equivoco al quale s’erano tenuti stretti per tanto tempo”.
All’epoca gli alpinisti non si accorsero di nulla perché Guido gli era scappato via da tanto tempo. Non era più uno dei loro, anche se amava sempre le montagne.
4) Guido Rossa
di Carlo Moriondo
(da Stampa Sera del 26 gennaio 1979, poi da Rivista mensile del Club Alpino Italiano n. 5-6 1979, pp. 222-223)
Uno dei motivi che avevano trattenuto per qualche tempo Guido Rossa dall’assumere impegni di lavoro a Genova era stato il fatto di trasferirsi in una città dove le montagne erano relativamente lontane, perlomeno assai meno vicine che a Torino. Le «montagne vere», intendiamo, quelle che Rossa, scalatore, era abituato a frequentare, in modo particolare nella Valle d’Aosta. «Diventerò esperto di tuffi. Forse farò lunghe traversate a nuoto…» diceva agli amici. Poi si era deciso, anche perché l’attività professionale intensa, a Torino, e gli anni che passavano gli avrebbero impedito comunque di ripetere le eccezionali ascensioni che avevano caratterizzato la sua amicizia per le Alpi. In queste aveva trovato una ragione di più per esplicare la sua umanità profonda. È questo il lato distintivo del suo carattere che gli amici di tante ascensioni vogliono che si ponga in rilievo. In un momento in cui l’alpinismo al limite supremo sembra alienarsi del tutto dal fattore uomo per diventare fatto tecnico meccanico, Guido Rossa resta un esempio luminoso di quanto possa fare un uomo tra gli uomini nelle difficoltà supreme della montagna. Lo ricordiamo in un’occasione particolare. Due alpinisti torinesi, sul finire del dicembre 1953, erano andati a solennizzare il Natale sul Cervino, e vi erano stati bloccati dalla bufera. Giorni di angoscia, tutti li credevano perduti. Si chiamavano Malvassora e Alderighi, erano del Club Alpino, esperti: ma si erano cacciati in una trappola. Rossa si trovava allora a Courmayeur in vacanza, non aveva che 19 anni. Il prof. Luria ricorda di avere incontrato Rossa a Courmayeur nel negozio di Toni Gobbi (altro grande scomparso, in una sciagura banale). Parlarono di quei due amici bloccati lassù. La bufera imperversava ancora su tutta la Valle d’Aosta, ma Rossa non ne tenne conto. Disse soltanto: «Franco, proviamo a salvarli. Se va, va!» e partì all’istante per il Breuil, dove collaborò sostanzialmente, in condizioni proibitive, alle ricerche di Malvassora e Alderighi. Questi frattanto si erano spostati sul versante svizzero e vennero poi salvati da Jean Pellissier con un’altra guida. Fu quello il primo di una lunga serie di interventi effettuati da Rossa nel campo del soccorso alpino. Ricorda a questo proposito il direttore dell’organizzazione, Bruno Toniolo: «Guido fu tra coloro che contribuirono ad aiutarmi a fondare il Soccorso Alpino nella provincia di Torino nel lontano 1956. In precedenza faceva già parte della squadra di pronto soccorso del Cai Uget, fin dal 1954. Ha partecipato attivamente a tutte le operazioni di soccorso in montagna, non solo nella sua zona, ma anche in Valle d’Aosta. Ha fatto parte del consiglio di delegazione, esprimendo sempre idee nuove al fine di migliorare e potenziare il nostro soccorso». Nel giugno 1958 ha contribuito attivamente ad organizzare sul Monte Rosa, con base al Col d’O- len, il primo corso nazionale di istruttori di Soccorso Alpino. Quando, per ragioni di lavoro, si trasferì a Genova, ha voluto continuare quest’opera collaborando con la squadra «Alpi Liguri». Proprio in occasione del corso per istruttori del Soccorso Alpino al Col d’Olen avvenne un episodio che il prof. Luria ricorda: «Guido era stato alpino e paracadutista. Non conosceva paura. Un giorno, durante il rientro da un’esercitazione sul ghiacciaio del Lys, prese l’iniziativa, assieme a Giorgio Rossi e a Giacomo Menegatti, di calarsi con la barella portaferiti lungo un imbuto di ghiaccio su una parete rocciosa. Quando vidi quella manovra ‘da cardiopalma’ era troppo tardi. Mi limitai ad attenderli alla base, e li strapazzai adeguatamente, dicendo che con ‘quei sistemi mi avrebbero dato un supplemento di lavoro come medico’. Guido Rossa mi rispose, con naturalezza: ‘Devi capire che se ci avvertissero che c’è un alpinista bloccato in un posto simile, bisogna che noi siamo in grado di andare a recuperarlo’. Davanti ad una risposta di questo tipo, data con estrema semplicità, mi sentii disarmato e dovetti limitarmi ad ammirare la sua purezza di spirito, la sua generosità senza limiti. Che dimostrò poi anche nella fatale spedizione al Nepal, nel ’63, durante la quale perirono gli alpinisti torinesi Cesare Volante, e quel Giorgio Rossi che era con lui al Col d’Olen…».
Un elenco delle imprese alpinistiche realizzate da Guido Rossa sarebbe troppo lungo. Citiamo soltanto le maggiori: tre volte la cresta sud dell’Aiguille Noire, sul Monte Bianco, di cui due salite solitarie; poi la parete ovest, lungo la paurosa via Ratti; parete nord del Lyskamm Orientale; parete nord-ovest del Gran Paradiso (via Crétier); Dente del Gigante, parete sud; Grépon, parete est; Cervino invernale lungo la cresta del Leone; Dufour, in sci, dalla capanna Bétemps, in inverno; trentadue volte sulla Parete dei Militi (Valle Stretta di Bardonecchia): un primato assoluto. Nelle Dolomiti, ricordiamo che quando affrontò la via Comici alla Grande di Lavaredo e lo Spigolo Giallo della Piccola, non aveva che diciassette anni. Un curriculum da fare invidia a molti. Avrebbe dato ancora moltissimo all’alpinismo, con la solita generosità, intendendolo come palestra di virtù umane. Le pallottole delle Brigate rosse hanno stroncato un uomo leale e giusto.
