Il crollo di un ponte su un crepaccio ha comportato l’annullamento della spedizione invernale di Simone Moro e Tamara Lunger.
L’obiettivo della spedizione era il concatenamento (mai riuscito né tentato nella stagione invernale) del Gasherbrum I e Gasherbrum II. L’impresa era riuscita, in estate, alla formidabile coppia Messner-Kammerlander.
La preparazione di Moro e Lunger è stata molto puntigliosa e particolareggiata. Per testare le reazioni alle gelide temperature, nei mesi scorsi i due si sono sottoposti ad allenamenti nella camera ipobarica, dove sono state riprodotte le condizioni estreme dell’alta quota invernale.
Il monitoraggio dei due durante tali test ha fatto pensare a una sorta di Grande Fratello degli Ottomila, con alcuni risvolti che potrebbero apparire più figli dell’imperante società mediatica che effettivamente collegati all’alpinismo. Il tutto è descritto nel primo articolo (di inizio dicembre 2019), qui sotto riportato.
“Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi” recita un antico proverbio popolare e sembra proprio adattarsi alla situazione. Nonostante la preparazione molto puntigliosa, il destino ha giocato un brutto scherzo a Moro-Lunger per colpa del crollo di un ponte sopra a un crepaccio.
La montagna resta imprevedibile e può rivelarsi drammatica anche per top climber come i protagonisti di questa vicenda, il cui svolgimento è stato ripreso nel secondo articolo, pubblicato nel gennaio 2020 (Carlo Crovella).
L’incidente e il successivo abbandono hanno suscitato amare polemiche. Non certo veementi come a dicembre 2019 in occasione dell’esperimento ipobarico, ma di sicuro abbastanza striscianti da essere comunque evidenti. Va affermato che eventuali diffidenza e antipatia per alcuni personaggi non autorizzano nessuno a fare satira malevola su una cronaca e su fatti di cui ancora, in sostanza, si sa molto poco. Fino a prova contraria nessuno di noi dovrebbe mettere in dubbio la parola di chi, per libera scelta, abbiamo seguito per mesi (dalla vicenda della camera ipobarica). O non è stata una libera scelta? Perché in tal caso la stupidità sarebbe solo nostra… e si chiamerebbe morbosità. La prestigiosa rivista americana Rock and Ice ha prontamente intervistato Simone Moro e le domande e le risposte sono il nocciolo del terzo articolo. Proprio questo articolo ha suscitato qualche perplessità in alcuni commentatori (che riportiamo in rosso come Note di Redazione). A questo punto sono in molti a chiedere una relazione più completa da parte dei protagonisti, che fughi ogni dubbio, perché una sintetica intervista in una lingua diversa dalla nostra non può essere precisa come un libro o almeno un documento ufficiale. Qualche responsabilità di queste incomprensioni potrebbe averla Michael Levy per non aver saputo riportare fedelmente la coerenza che un racconto, sia pure un po’ concitato, deve avere (la Redazione).
Il Grande Fratello degli Ottomila
di Franco Brevini
(pubblicato sul Corriere della Sera del 3 dicembre 2019)
L’hanno battezzato il Grande Fratello degli Ottomila. In realtà è solo una camera ipobarica, dove si possono simulare le situazioni estreme dell’alpinismo himalayano. «Sono agli arresti domiciliari in alta quota a Bolzano» scherza Simone Moro, l’alpinista bergamasco che si è sottoposto insieme a Tamara Lunger, già sua compagna di scalate, a un singolare esperimento in vista della prossima impresa: la salita e la traversata in invernale del Gasherbrum I 8068 m e del Gasherbrum II 8035 m. L’ascensione delle due cime riuscì nell’estate del 1984 a Reinhold Messner e Hans Kammerlander, ma da allora non è stata mai più ripetuta, malgrado reiterati tentativi.
Invece che fare scalate sulle cime più alte delle Alpi, per prepararsi al nuovo exploit in Karakorum, Simone e Tamara hanno deciso di ricorrere a un’avveniristica struttura tecnologica: la camera ipobarica TerraXcube di Eurac Research. Ubicata nel cuore del Noi Techpark, il polo tecnologico inaugurato un paio d’anni fa a Bolzano sull’area del più grande stabilimento per la produzione di alluminio in Italia, TerraXcube permette di raggiungere temperature tra i -40° e i +60°, mentre la pressione e la concentrazione d’ossigeno possono essere regolate per simulare gli 8000 metri delle cime più alte del pianeta.
Lì dentro i due scalatori per un mese seguiranno sotto il controllo dei ricercatori un protocollo per l’allenamento all’altitudine, che solitamente viene effettuato una volta raggiunta la zona himalayana, con un lungo andirivieni tra il campo base e i campi più alti. La possibilità di riprodurre esattamente le stesse condizioni che la camera ipobarica offre permetterà di acquisire preziose informazioni sugli effetti dell’ipossia sul corpo umano, sia durante la preparazione della scalata, sia al ritorno, quando Simone e Tamara rientreranno nella camera ipobarica TerraXcube per nuovi controlli.
Non è la prima volta che in alpinismo viene effettuato un pre-acclimatamento. Lo praticano spesso le spedizioni commerciali che vendono gli Ottomila chiavi in mano. Riducendo i tempi di permanenza al campo base, i clienti che vi si sottopongono possono contare su uno sconto sulla tariffa. Naturalmente Simone Moro, un fuoriclasse dell’alpinismo himalayano nella sua stagione più dura (ha all’attivo quattro prime invernali di Ottomila) non deve dimostrare niente a nessuno. Eppure le polemiche intorno a questo inusuale metodo di allenamento si sono già accese e in effetti la questione è di grande interesse etico. Ogni mezzo artificiale con cui si tenti di modificare la prestazione di un atleta viene considerato doping e in Italia le camere ipobariche sono vietate in vista delle gare. Ma in alpinismo non c’è competizione, anche se una prima ascensione costituisce una vittoria per chi la porta a termine. Al massimo qualcuno potrebbe accusare Simone di barare con se stesso. Va detto che l’esperimento della TerraXcube non coinvolge sostanze chimiche, perché si limita a ricreare situazioni naturali. Recentemente sarebbe stato avallato anche da un convegno dell’UIAA, l’Unione internazionale delle associazioni alpinistiche. D’altronde in questo caso sia Simone che Tamara hanno precisato che si stanno rendendo disponibili a una ricerca scientifica, destinata ad allargare le nostre conoscenze sulla fisiologia umana.
Il famoso scalatore inglese Frederick Mummery voleva che l’alpinismo fosse praticato «by fair means», «con mezzi puliti». La formula si è riproposta ogni volta che la tecnologia ha offerto le sue facilitazioni: funivie, elicotteri, radio, corde fisse, per non parlare dell’impiego dei portatori. Cosa si accingono a fare i due alpinisti attualmente ospitati nella TerraXcube di Bolzano: un record alpinistico, una grande esplorazione, un’avventura personale? Alla fine solo loro potranno rispondere a questa domanda.
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di Riccardo Bruno
(pubblicato sul Corriere della Sera del 21 gennaio 2020)Erano in cordata, Tamara Lunger aveva già superato il crepaccio. Appena Simone Moro è salito sul ponte di neve, gli è invece franato sotto i piedi. «Ho iniziato a precipitare, non mi fermavo, a testa in giù in un buco largo non più di 50 centimetri, era tutto buio, sotto un vuoto di almeno duecento metri. Sentivo gridare Tamara, capivo che rischiavo di tirare giù anche lei». Tamara, dopo il violento strappo, era stata trascinata quasi sul bordo del baratro. «La corda mi stringeva la mano, sono stati due minuti interminabili, non arrivava più sangue, non la sentivo più. Ho pensato: o la perdo, oppure finiamo tutte e due nel crepaccio e nessuno ci troverà più».
Tamara e Simone hanno lo straordinario privilegio di poter raccontare cosa gli è capitato sabato 18 gennaio a 5500 metri sul Gasherbrum I. Rispondono al telefono da Skardu, una delle porte d’ingresso degli Ottomila della catena himalayana del Karakorum. Dopo due giorni c’è buonumore, Tamara tocca troppi tasti del cellulare e Simone scherza: «È come Heidi, con la tecnologia ha qualche problema». Ma quando sale e l’aria diventa rarefatta è una fuoriclasse. «È stata lucidissima, bravissima, capace di soffrire – dice Simone – Ed è fortissima, è riuscita a tenere me che peso 70 chili, più altri venti chili di attrezzatura».
Ricordano come sono riusciti a uscirne vivi, solo con qualche ammaccatura. Ed è un racconto dove c’entra la buona sorte, ma anche e soprattutto la preparazione. «Mentre cadevo giù ho avuto l’istinto di prendere una vite da ghiaccio – ricostruisce Simone – L’ho piantata, mi sono appeso sperando che tenesse e con la stessa mano ho iniziato ad avvitarla. La corda era ancora tesa, sentivo Tamara che strillava, così ho messo un cordino che ha fatto da scaletta e ho iniziato a tirarmi su». Venti metri più alto Tamara può finalmente allentare la morsa. «Mi guardavo la mano, era bruttissima. Ho pensato che avrei potuto perderla, che in futuro avrei scalato con un moncherino. Piangevo, l’emozione era tanta, ma cercavo di ragionare, di restare tranquilla. Ho creato un primo ancoraggio usando l’altra mano e la bocca, stando attenta a non finire in un altro buco che c’era là vicino».
Intanto Simone si organizza per la risalita. «Ho tagliato lo spallaccio dello zaino, preso le piccozze, come un contorsionista in quello spazio ristretto ho tolto le ciaspole e messo i ramponi. E sono salito dal lato a strapiombo, perché quello più interno era pieno di lastre di ghiaccio, temevo che potessero cedere da un momento all’altro».
L’arrivo in cima è come una rinascita. «Ci siamo abbracciati – dice Simone – Poi ho guardato Tamara e le ho detto per sdrammatizzare: Brava! Corso di soccorso alpino superato». A quel punto hanno provato a recuperare anche lo zaino rimasto nel crepaccio. «Però si è incastrato – aggiunge Moro – ho pensato di scendere di nuovo e prenderlo, ma ho perso un rampone. Era un segnale, meglio non insistere».
Inizia a fare sera, Simone e Tamara decidono di tornare al campo base e nel frattempo avvertono i soccorsi. Il giorno dopo un elicottero dell’esercito pakistano li preleva e li porta a Skardu. Puntualizza Moro: «Tutto pagato con i miei soldi, perché c’è qualcuno che già dice che si butta il denaro dei contribuenti…».
Le visite mediche sono l’ultimo tassello dell’avventura. «C’era scritto ospedale ma è difficile consideralo tale. La macchina per fare le radiografie era del 1960. Nevicava all’interno, c’erano dieci gradi sottozero. Meno male che non avevamo nulla di rotto». Simone ha preso, come dice lui, «stangate ovunque», alla schiena e in faccia. Tamara ha finora recuperato la sensibilità di due dita («Spero di essere a posto in un paio di settimane»). La spedizione, la conquista in sequenza del Gasherbrum I e del Gasherbrum II, mai fatta da nessuno in inverno e una sola volta d’estate da Messner e Kammerlander, preparata meticolosamente anche con un addestramento in camera ipobarica, è stata annullata. Confessano di essere tristi, ma di aver imparato molte cose. Simone è comunque orgoglioso: «Premesso che abbiamo avuto una fortuna sfacciata, se siamo qui è grazie al rigore, alla preparazione, e allo zelo di portare sempre dietro tutto il materiale per l’autosoccorso». Tamara e più autocritica: «Siamo stati bravi ma qualche errorino si poteva evitare. Se avessi chiuso prima il mezzo barcaiolo (il nodo che frena la caduta, NdR) avremmo avuto meno problemi».
Rientreranno in Italia non prima della prossima settimana. Ha nevicato tanto, non ci sono voli per Islamabad e dopo quello che hanno passato non vogliono rischiare pure un viaggio in macchina. «Qui nessuno ha le gomme da neve, ogni giorno c’è qualche incidente. Meglio evitare».