Scherzo del destino sul Gasherbrum

Il crollo di un ponte su un crepaccio ha comportato l’annullamento della spedizione invernale di Simone Moro e Tamara Lunger.

L’obiettivo della spedizione era il concatenamento (mai riuscito né tentato nella stagione invernale) del Gasherbrum I e Gasherbrum II. L’impresa era riuscita, in estate, alla formidabile coppia Messner-Kammerlander.

La preparazione di Moro e Lunger è stata molto puntigliosa e particolareggiata. Per testare le reazioni alle gelide temperature, nei mesi scorsi i due si sono sottoposti ad allenamenti nella camera ipobarica, dove sono state riprodotte le condizioni estreme dell’alta quota invernale.

Il monitoraggio dei due durante tali test ha fatto pensare a una sorta di Grande Fratello degli Ottomila, con alcuni risvolti che potrebbero apparire più figli dell’imperante società mediatica che effettivamente collegati all’alpinismo. Il tutto è descritto nel primo articolo (di inizio dicembre 2019), qui sotto riportato.

“Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi” recita un antico proverbio popolare e sembra proprio adattarsi alla situazione. Nonostante la preparazione molto puntigliosa, il destino ha giocato un brutto scherzo a Moro-Lunger per colpa del crollo di un ponte sopra a un crepaccio.

La montagna resta imprevedibile e può rivelarsi drammatica anche per top climber come i protagonisti di questa vicenda, il cui svolgimento è stato ripreso nel secondo articolo, pubblicato nel gennaio 2020 (Carlo Crovella).

Simone Moro e Tamara Lunger

L’incidente e il successivo abbandono hanno suscitato amare polemiche. Non certo veementi come a dicembre 2019 in occasione dell’esperimento ipobarico, ma di sicuro abbastanza striscianti da essere comunque evidenti. Va affermato che eventuali diffidenza e antipatia per alcuni personaggi non autorizzano nessuno a fare satira malevola su una cronaca e su fatti di cui ancora, in sostanza, si sa molto poco. Fino a prova contraria nessuno di noi dovrebbe mettere in dubbio la parola di chi, per libera scelta, abbiamo seguito per mesi (dalla vicenda della camera ipobarica). O non è stata una libera scelta? Perché in tal caso la stupidità sarebbe solo nostra… e si chiamerebbe morbosità. La prestigiosa rivista americana Rock and Ice ha prontamente intervistato Simone Moro e le domande e le risposte sono il nocciolo del terzo articolo. Proprio questo articolo ha suscitato qualche perplessità in alcuni commentatori (che riportiamo in rosso come Note di Redazione). A questo punto sono in molti a chiedere una relazione più completa da parte dei protagonisti, che fughi ogni dubbio, perché una sintetica intervista in una lingua diversa dalla nostra non può essere precisa come un libro o almeno un documento ufficiale. Qualche responsabilità di queste incomprensioni potrebbe averla Michael Levy per non aver saputo riportare fedelmente la coerenza che un racconto, sia pure un po’ concitato, deve avere (la Redazione).


La camera ipobarica del centro TerraXcube di Bolzano

Il Grande Fratello degli Ottomila
di Franco Brevini
(pubblicato sul Corriere della Sera del 3 dicembre 2019)

L’hanno battezzato il Grande Fratello degli Ottomila. In realtà è solo una camera ipobarica, dove si possono simulare le situazioni estreme dell’alpinismo himalayano. «Sono agli arresti domiciliari in alta quota a Bolzano» scherza Simone Moro, l’alpinista bergamasco che si è sottoposto insieme a Tamara Lunger, già sua compagna di scalate, a un singolare esperimento in vista della prossima impresa: la salita e la traversata in invernale del Gasherbrum I 8068 m e del Gasherbrum II 8035 m. L’ascensione delle due cime riuscì nell’estate del 1984 a Reinhold Messner e Hans Kammerlander, ma da allora non è stata mai più ripetuta, malgrado reiterati tentativi.

Invece che fare scalate sulle cime più alte delle Alpi, per prepararsi al nuovo exploit in Karakorum, Simone e Tamara hanno deciso di ricorrere a un’avveniristica struttura tecnologica: la camera ipobarica TerraXcube di Eurac Research. Ubicata nel cuore del Noi Techpark, il polo tecnologico inaugurato un paio d’anni fa a Bolzano sull’area del più grande stabilimento per la produzione di alluminio in Italia, TerraXcube permette di raggiungere temperature tra i -40° e i +60°, mentre la pressione e la concentrazione d’ossigeno possono essere regolate per simulare gli 8000 metri delle cime più alte del pianeta.

Lì dentro i due scalatori per un mese seguiranno sotto il controllo dei ricercatori un protocollo per l’allenamento all’altitudine, che solitamente viene effettuato una volta raggiunta la zona himalayana, con un lungo andirivieni tra il campo base e i campi più alti. La possibilità di riprodurre esattamente le stesse condizioni che la camera ipobarica offre permetterà di acquisire preziose informazioni sugli effetti dell’ipossia sul corpo umano, sia durante la preparazione della scalata, sia al ritorno, quando Simone e Tamara rientreranno nella camera ipobarica TerraXcube per nuovi controlli.

Tmara e Simone durante il loro “soggiorno” di un mese nella camera ipobarica.

Non è la prima volta che in alpinismo viene effettuato un pre-acclimatamento. Lo praticano spesso le spedizioni commerciali che vendono gli Ottomila chiavi in mano. Riducendo i tempi di permanenza al campo base, i clienti che vi si sottopongono possono contare su uno sconto sulla tariffa. Naturalmente Simone Moro, un fuoriclasse dell’alpinismo himalayano nella sua stagione più dura (ha all’attivo quattro prime invernali di Ottomila) non deve dimostrare niente a nessuno. Eppure le polemiche intorno a questo inusuale metodo di allenamento si sono già accese e in effetti la questione è di grande interesse etico. Ogni mezzo artificiale con cui si tenti di modificare la prestazione di un atleta viene considerato doping e in Italia le camere ipobariche sono vietate in vista delle gare. Ma in alpinismo non c’è competizione, anche se una prima ascensione costituisce una vittoria per chi la porta a termine. Al massimo qualcuno potrebbe accusare Simone di barare con se stesso. Va detto che l’esperimento della TerraXcube non coinvolge sostanze chimiche, perché si limita a ricreare situazioni naturali. Recentemente sarebbe stato avallato anche da un convegno dell’UIAA, l’Unione internazionale delle associazioni alpinistiche. D’altronde in questo caso sia Simone che Tamara hanno precisato che si stanno rendendo disponibili a una ricerca scientifica, destinata ad allargare le nostre conoscenze sulla fisiologia umana.

Il famoso scalatore inglese Frederick Mummery voleva che l’alpinismo fosse praticato «by fair means», «con mezzi puliti». La formula si è riproposta ogni volta che la tecnologia ha offerto le sue facilitazioni: funivie, elicotteri, radio, corde fisse, per non parlare dell’impiego dei portatori. Cosa si accingono a fare i due alpinisti attualmente ospitati nella TerraXcube di Bolzano: un record alpinistico, una grande esplorazione, un’avventura personale? Alla fine solo loro potranno rispondere a questa domanda.

Dalla vetta del Gasherbrum II verso il Gasherbrum I. E’ segnato il percorso della salita e della traversata.

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La caduta sull’Himalaya
di Riccardo Bruno
(pubblicato sul Corriere della Sera del 21 gennaio 2020)Erano in cordata, Tamara Lunger aveva già superato il crepaccio. Appena Simone Moro è salito sul ponte di neve, gli è invece franato sotto i piedi. «Ho iniziato a precipitare, non mi fermavo, a testa in giù in un buco largo non più di 50 centimetri, era tutto buio, sotto un vuoto di almeno duecento metri. Sentivo gridare Tamara, capivo che rischiavo di tirare giù anche lei». Tamara, dopo il violento strappo, era stata trascinata quasi sul bordo del baratro. «La corda mi stringeva la mano, sono stati due minuti interminabili, non arrivava più sangue, non la sentivo più. Ho pensato: o la perdo, oppure finiamo tutte e due nel crepaccio e nessuno ci troverà più».

Tamara e Simone hanno lo straordinario privilegio di poter raccontare cosa gli è capitato sabato 18 gennaio a 5500 metri sul Gasherbrum I. Rispondono al telefono da Skardu, una delle porte d’ingresso degli Ottomila della catena himalayana del Karakorum. Dopo due giorni c’è buonumore, Tamara tocca troppi tasti del cellulare e Simone scherza: «È come Heidi, con la tecnologia ha qualche problema». Ma quando sale e l’aria diventa rarefatta è una fuoriclasse. «È stata lucidissima, bravissima, capace di soffrire – dice Simone – Ed è fortissima, è riuscita a tenere me che peso 70 chili, più altri venti chili di attrezzatura».

Ricordano come sono riusciti a uscirne vivi, solo con qualche ammaccatura. Ed è un racconto dove c’entra la buona sorte, ma anche e soprattutto la preparazione. «Mentre cadevo giù ho avuto l’istinto di prendere una vite da ghiaccio – ricostruisce Simone – L’ho piantata, mi sono appeso sperando che tenesse e con la stessa mano ho iniziato ad avvitarla. La corda era ancora tesa, sentivo Tamara che strillava, così ho messo un cordino che ha fatto da scaletta e ho iniziato a tirarmi su». Venti metri più alto Tamara può finalmente allentare la morsa. «Mi guardavo la mano, era bruttissima. Ho pensato che avrei potuto perderla, che in futuro avrei scalato con un moncherino. Piangevo, l’emozione era tanta, ma cercavo di ragionare, di restare tranquilla. Ho creato un primo ancoraggio usando l’altra mano e la bocca, stando attenta a non finire in un altro buco che c’era là vicino».

Intanto Simone si organizza per la risalita. «Ho tagliato lo spallaccio dello zaino, preso le piccozze, come un contorsionista in quello spazio ristretto ho tolto le ciaspole e messo i ramponi. E sono salito dal lato a strapiombo, perché quello più interno era pieno di lastre di ghiaccio, temevo che potessero cedere da un momento all’altro».

Simone Moro e Tamara Lunger nell’icefall. Foto: Matteo Zanga.

L’arrivo in cima è come una rinascita. «Ci siamo abbracciati – dice Simone – Poi ho guardato Tamara e le ho detto per sdrammatizzare: Brava! Corso di soccorso alpino superato». A quel punto hanno provato a recuperare anche lo zaino rimasto nel crepaccio. «Però si è incastrato – aggiunge Moro – ho pensato di scendere di nuovo e prenderlo, ma ho perso un rampone. Era un segnale, meglio non insistere».

Inizia a fare sera, Simone e Tamara decidono di tornare al campo base e nel frattempo avvertono i soccorsi. Il giorno dopo un elicottero dell’esercito pakistano li preleva e li porta a Skardu. Puntualizza Moro: «Tutto pagato con i miei soldi, perché c’è qualcuno che già dice che si butta il denaro dei contribuenti…».

L’intrico dei crepacci e dei seracchi dell’icefall visto con il drone. Foto: Matteo Zanga.

Le visite mediche sono l’ultimo tassello dell’avventura. «C’era scritto ospedale ma è difficile consideralo tale. La macchina per fare le radiografie era del 1960. Nevicava all’interno, c’erano dieci gradi sottozero. Meno male che non avevamo nulla di rotto». Simone ha preso, come dice lui, «stangate ovunque», alla schiena e in faccia. Tamara ha finora recuperato la sensibilità di due dita («Spero di essere a posto in un paio di settimane»). La spedizione, la conquista in sequenza del Gasherbrum I e del Gasherbrum II, mai fatta da nessuno in inverno e una sola volta d’estate da Messner e Kammerlander, preparata meticolosamente anche con un addestramento in camera ipobarica, è stata annullata. Confessano di essere tristi, ma di aver imparato molte cose. Simone è comunque orgoglioso: «Premesso che abbiamo avuto una fortuna sfacciata, se siamo qui è grazie al rigore, alla preparazione, e allo zelo di portare sempre dietro tutto il materiale per l’autosoccorso». Tamara e più autocritica: «Siamo stati bravi ma qualche errorino si poteva evitare. Se avessi chiuso prima il mezzo barcaiolo (il nodo che frena la caduta, NdR) avremmo avuto meno problemi».

Rientreranno in Italia non prima della prossima settimana. Ha nevicato tanto, non ci sono voli per Islamabad e dopo quello che hanno passato non vogliono rischiare pure un viaggio in macchina. «Qui nessuno ha le gomme da neve, ogni giorno c’è qualche incidente. Meglio evitare».

Tamara Lunger e Simone Moro durante la spedizione e prima dell’incidente. Foto: Tamara Lunger.

La salita di Moro e Lunger con la scala che hanno usato per attraversare uno dei crepacci finali della seraccata. Foto: Matteo Zanga.
Le nostre ferite non sono gravi, ma con quelle non si può scalare” ha detto Moro “Io credo di poter ristabilirmi presto, ma per Tamara ci vorranno un bel due mesi perché possa riprendere”.

Rock and Ice ha intervistato Moro per avere informazioni sulle questioni più importanti relative all’incidente: cosa è successo, come ne sono venuti fuori e che cosa hanno imparato.

Domande e risposte con Simone Moro
intervista di Michael Levy
(pubblicata su Rock and Ice il 22 gennaio 2020)

Allora, per riassumere, qual era il vostro obiettivo in questa vostra spedizione invernale in Pakistan?
Volevamo salire il GI e il GII [Gasherbrum I e Gasherbrum II]. L’idea era di salirli in sequenza, con una traversata. La prima vetta che avevamo in progetto di salire era quella del GI; poi, scesi a quello che sarebbe stato il nostro C2 a 6400 m, se avessimo avuto ancora le forze, saremmo saliti al GII.
Io avevo già salito il GII d’inverno nel 2011, ma adesso avevamo la traversata come obiettivo principale. Il progetto dunque comprendeva due tappe.

Foto: Tamara Lunger.

Però la spedizione ha avuto fin da subito difficoltà maggiori del previsto.
Già nel 2011, quando ero con Denis Urubko e Cory Richards sulla prima invernale del Gasherbrum I, era complicata la risalita della seraccata per raggiungere il plateau superiore. Ma quello che abbiamo ritrovato tamara e io quest’inverno era un ghiacciaio tutto diverso, al confronto quello del 2011 era una passeggiata.

Pare che delle scosse di terremoto abbiano fratturato ancor più la superficie. Più crepacci e più impegnativi. Non penso che le scosse siano state le sole responsabili, penso infatti che sia soprattutto il riscaldamento globale a trasformare il percorso tra campo base e campo 1.

Abbiamo passato 18 giorni dal 1° gennaio al 18, incluse le giornate di riposo, provando a trovare una via tra i seracchi e i crepacci della seraccata. Nove sono state le giornate di lavoro: e in questi nove giorni siamo riusciti a salire solo 500 m. Insolito, no?

Cosa vi faceva salire così lentamente?
Eravamo solo in due, non abbiamo mai messo corde fisse. Nessun portatore ad aiutarci. Dovevamo trovare la via e salire nel più classico dei modi.

Con così tanti enormi crepacci si può capire perché andavamo così piano, nella totale incertezza del percorso. E vai a sinistra, e vai a destra, e giù in doppia, poi risali su… tante volte dovevamo ritornare indietro e provare in un altro modo. Non c’era un modo veloce di trovare un itinerario sicuro.

Qualche volta siamo saliti 150 metri per poi riscendere in soli dieci minuti, una volta chiaro qual era la strada. L’ultimo giorno prima dell’incidente eravamo arrivati davvero vicini alla parte superiore dell’icefall.

Foto: Tamara Lunger.

Quindi l’incidente: cosa è successo?
E’ stato il 18 gennaio. Avevamo trovato il modo di superare gli ultimi grandi crepacci. Avevamo in prestito dall’esercito pakistano una scala di tre metri. l’esercito ha un avamposto fisso proprio al campo base. Loro le scale le usano regolarmente nei loro trasferimenti da un avamposto all’altro.

Così mi sono caricato la scala sulle spalle per 5,2 km (misurati sul GPS) fino alla fine della seraccata. La piazzai per superare il crepaccio finale e così lo attraversammo. Erano circa le 15.

Dopo aver passato il crepaccio, eravamo molto contenti ma sempre cauti. Sapevamo che la parte più difficile era probabilmente dietro di noi, ma sapevamo anche che sotto i nostri piedi ci potevano essere altri crepacci. Così rimanemmo legati, ciascuno di noi, oltre al proprio materiale, aveva tutto il necessario per l’auto-soccorso agganciato all’imbragatura: jumar, tibloc, prusik. E’ molto importante che lo ripetiamo: eravamo davvero sul chi vive.

Circa alle 15.30 eravamo molto vicini alla fine della sezione pericolosa. Pensavamo di continuare ancora un’ora e poi sistemare il campo 1. Avevamo cibo e roba per andare avanti almeno due giorni. Il nostro obiettivo era di bivaccare al campo 1 e il giorno dopo andare a mettere il campo 2 a 6400 m. Stavamo molto meglio dei primi giorni e ci muovevamo assai più veloci.

C’era però un altro crepaccio da traversare. Tamara era davanti. Per via dell’abbondante neve fresca, ai piedi avevamo le ciaspole, quindi eravamo senza ramponi. Tra l’altro le ciaspole, nell’attraversamento dei crepacci, funzionano bene perché favoriscono la distribuzione del peso.

Foto: Tamara Lunger.

Tamara con cautela passò su un ponte di neve sospeso sul crepaccio e continuò poi fino a una posizione sicura, a 20 metri da me, l’intera lunghezza della nostra corda da 7 mm.

Per la prima volta in tutta la spedizione non seguii esattamente le sue orme. Lo feci intenzionalmente, perché avevo visto una frattura aprirsi tra le tracce lasciate da lei. Le dissi che sarei passato leggermente più a sinistra, lei mi rispose che mi avrebbe fatto sicura. Nell’esatto momento in cui stava inserendo la corda nel moschettone del suo imbrago, io mossi il mio primo passo: immediatamente tutto crollò sotto ai miei piedi. Stavo cadendo.

Mi aspettavo che la corda si tendesse per trattenermi, ma non succedeva. La caduta era veloce, sbattei con il sedere duramente e mi ritrovai a capovolgermi e a cadere testa all’ingiù. Il crepaccio era molto stretto.

La ragione per cui la caduta continuava era che Tamara aveva perso l’equilibrio ed era trascinata verso il bordo del crepaccio, con la mano stretta nella morsa di un anello di corda. Più o meno come un tizio che è trascinato dal suo cane!

Foto: Matteo Zanga.

[(1) Il testo in inglese è: <<In the moment that she was putting the rope through the carabiner on her harness, at that moment I simultaneously took my first step—and immediately everything under my feet broke.>>. Da come sono descritti la posizione di Tamara e il “volo” che poi fece strattonata dalla caduta di Simone, sembra proprio che lei non avesse attrezzato alcuna sosta. Perché nel momento dello strappo non stava mettendo la corda in un moschettone di sosta bensì in un moschettone al suo imbrago. Logico quindi che non potesse trattenere Simone in nessun caso. NdR].

Per la combinazione del mio peso e il modo così istantaneo in cui tutto è successo era impossibile che mi potesse tenere. E’ da notare che le sue racchette da neve le impedivano di piantarsi con i piedi da qualche parte, anzi facevano effetto sci. Stava letteralmente volando e atterrò giusto mezzo metro prima del bordo. Il mio volo fu dunque di 20 metri, quasi tutti a testa in giù, sbattendo qua e à sulle pareti. Ho picchiato forte anche la schiena, meno male che avevo addosso uno zaino di 20 kg, è stato lui a salvarmi. Pensavo d’essermi rotto la schiena.

Finalmente la velocità rallentò. Tamara era sull’orlo di scivolare dentro ma mi stava tenendo. Agganciato all’imbrago avevo una vite da ghiaccio. Tentai di prenderlo, ma non riuscivo per via dello spazio in cui ero incastrato. Riuscii a prendere la vite ma senza il moschettone cui era agganciata. Cominciai ad avvitarla nel ghiaccio, all’altezza dei miei fianchi. In pochi secondi l’avevo all’altezza delle spalle, perché stavo ancora scivolando in basso. Le diedi due o tre giri, la vite era dentro per il 3%, 97% fuori, mi tenni alla vite con la mano. Riuscii a farla entrare ancora un poco e finalmente riuscii a prendere il moschettone e agganciarmi. Potevo tirare un sospiro di sollievo, ma non era certo finita.

L’ingresso al Plateau nella parte alta dell’icefall del ghiacciao dei Gasherbrum, circa nella zona dove Simone Moro è caduto in un crepaccio nascosto. La foto è di Carlos Garranzo (dal suo profilo Alpinismo y Montana).

Dunque, tu 20 metri in basso nel crepaccio, Tamara bloccata sull’orlo. Cosa è successo dopo?
Ero al buio, sentivo Tamara urlare di dolore, aveva la mano prigioniera della corda. Lei gridava “Simone, taglia la corda, taglia la corda…”. Ma io mi dicevo “Cazzo, se taglio la corda per me è la fine”. In realtà non avevo sentito la seconda parte delle sue urla “… se sei sul fondo del crepo”.

[(2) Il testo in inglese è:  <<She said, ‘Simone cut the rope, cut the rope…’ But I said to myself, like, ‘Fuck, no, if I cut the rope I die!’ It turns out I couldn’t heard the second part of Tamara’s sentence: …. ‘if you are at the bottom.’>>. Non è chiaro il senso, perché se effettivamente Moro fosse appoggiato da qualche parte “al fondo” oppure su un ponte di ghiaccio, la corda non sarebbe stata tesa. NdR].

Mi feci un anello di cordino in modo da poter salire un poco e sgravare la corda. Così Tamara poté finalmente respirare, liberare la mano e alla fine organizzare il mio recupero.

Tamara Lunger arriva a testa bassa nel punto in cui la incontrano coloro che dal campo base sono andati incontro a lei e a Simone Moro, del quale si vede solo la luce della frontale. Foto: Matteo Zanga.

Così fissò la corda, facendo la manovra corretta che bisogna fare in questi casi. Ma la fece con una mano sola! Con una sola mano non poteva approntare un normale set da recupero, così mi dovetti inventare un modo per uscirne da solo. Decidemmo che lei mi avrebbe assicurato col mezzo barcaiolo mentre io cercavo di risalire arrampicando.

Di problemi ero pieno. Ero in un posto strettissimo, largo circa 50 centimetri. Era molto buio. Avevo tutto il materiale ma era dentro lo zaino. Cercai di liberarmene, ma non ce la feci, era troppo stretto. Per fortuna avevo con me un coltellino. Tagliai uno spallaccio dello zaino, così finalmente mi fu possibile ruotare lo zaino sopra la testa e averlo davanti. Riuscii a prendere le due piccozze.

Ma avevo ancora le ciaspole ai piedi! Meno male che ho un allenamento anche di arrampicata sportiva, quindi sono abbastanza flessibile. Riuscii a togliermele e ad appenderle alla vite da ghiaccio. Poi mi misi i ramponi. Solo una delle due piccozze era tecnica (l’altra l’avevo lasciata al crepaccio precedente per ancorare la scala), così Tamara mi calò una seconda piccozza tecnica tramite l’altra corda che avevamo.

La felicità di Simone per essere riuscito a scamparla. Foto: Matteo Zanga.

Estrassi dallo zaino anche la lampada frontale e il walkie talkie, quindi fissai lo zaino alla vite e cominciai a salire verso l’alto. Era ghiaccio strapiombante e molto duro. Era così stretto che non riuscivo neanche a piccozzare come si deve. Tirai un respiro profondo, cercai di mettere a fuoco. Fu davvero duro uscire da là, ma in qualche modo lo feci.

[(3) Il testo in inglese è: <<… finally I started to climb out—but it was overhanging. And very hard ice. It was so narrow that I didn’t even have the possibility to really swing the ice axes.>>. Si può affermare che un crepaccio possa essere molto stretto e allo stesso tempo strapiombante da entrambi i lati (cioè a campana)? Più aderente alla realtà è ciò che Moro dice nell’intervista (in italiano) ad Alessandro Filippini: <<Uno dei due lati del crepaccio era verticale, l’altro però aveva lastroni che potevano staccarsi e tagliare la corda. Così potevo provare a salire solamente sul primo.>>.NdR].

Se quando ero caduto erano le 15.30, erano quasi le 17.30 quando riemersi. Trovai Tamara che piangeva dal dolore alla mano, ma anche di felicità. La prima cosa che le ho detto: “Ok, Lei ha superato l’esame di auto-soccorso!”. Aveva fatto tutto bene, nel modo giusto.

Decidemmo di scendere immediatamente al campo base, così doloranti come eravamo. Meglio subito che la mattina dopo, sicuramente ancora più doloranti dopo l’inattività notturna.

[(4) Il testo inglese è:  <<I was able to take my snowshoes off and hang them on the ice screw.>>. Qualcuno si è chiesto: ma se aveva lasciato le ciaspole attaccate alla vite da ghiaccio è stato costretto a scendere senza quegli attrezzi lungo la parte più pericolosa dell’icefall, e di notte? O è sceso di nuovo nel crepaccio per recuperarle? La risposta la dà lo stesso Moro in un’intervista ad Alessandro Filippini: <<Non conservo mai niente, ma quella vite da ghiaccio me la terrò… Lo zaino invece ho provato invano a tirarlo fuori: si incastrava continuamente e alla fine abbiamo dovuto lasciarlo là.>>. Se ha recuperato la vite da ghiaccio e ha provato a issare lo zaino è di certo perché si è ricalato. NdR].

Dunque alla fine niente di eroico. Ma abbiamo dovuto imparare alla svelta come fare per uscirne.

La smorfia di dolore di Tamara mentre viene medicata al campo base. Foto: Matteo Zanga.

Cosa siete riusciti a portare a casa da questa tragedia mancata per un soffio?
Ci sono stati molti piccoli errori, per esempio non ho seguito fedelmente le sue orme (sebbene la rottura del ponte avrebbe potuto verificarsi anche nell’altro caso). Ma credo che la grande lezione imparata sia stato che è molto importante avere tutto il materiale con noi ed essere sempre pronti a eventi di questo genere. Meno male che avevamo tutto il necessario, pronto per l’uso.

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