Val di Mello 1975-2000 – terza parte

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Le ere di Mello
di Massimo Sala

«Alberto… cazzo, sali, non siamo mica qui per divertirci!» (frase udita alla base dell’Alkekengi durante l’Età media della Val di Mello).
Certo che dai tempi in cui si rimproverava ai “rigidones” di vivere l’alpinismo in modo troppo eroico e sofferente l’aria è cambiata parecchio. E parecchio in peggio! La Val di Mello è sempre stata un gran bel posto, sia dal punto di vista paesaggistico sia per l’immensa varietà antropologica dei tipi che la bazzicano. Dopo venticinque anni di frequentazione assidua posso affermare con sicurezza che non esiste un altro osservatorio così interessante in tutto l’arco alpino. Lo sviluppo del frequentatore alpinista merita di essere seguito attentamente.

Età primaria
L’età primaria della Valle va fatta coincidere con la seconda metà degli anni Settanta. Un meritevole piccolo gruppo di leader si preoccupa del marketing del nuovo prodotto e provvede a rendere di pubblico dominio che è finito l’Alpinismo e comincia il Gioco arrampicata. Grande vento di rinnovamento nell’ambiente alpinistico. Ricerca di luoghi dove l’arrampicata si possa liberare dalle pastoie dell’alpinismo eroico, fatto di scarponi, rifugi, canti e polemiche sulla chiodatura delle vie. Quindi, finalmente valli soleggiate, prati dove piantare le tende e trascorrere elettrizzanti serate stravaccati a cantare e… fare polemica sulla chiodatura delle vie. Basta con gli scarponi, con il casco che “sbilancia sugli strapiombi”, finalmente l’arrampicata è libera di esprimersi.

Jim Bridwell alle prese con una fessura della Valle. Foto: Uli Wiesmeier.

Il segnale è rapidamente recepito da una consistente massa di praticanti per nulla disposti a ripetere gli errori del passato, ma determinata soprattutto a giocare sulle placche al sole e ad avere pochi contatti con il gruppo dei leader. I quali appunto, avanguardia ideale del Nuovo Mattino, passano l’età primaria a misurare la cresta nei rispettivi pollai di giorno e a sfinirsi con memorabili ciucche serali, che finiscono inevitabilmente in discussioni sull’etica della chiodatura. Nonostante tutto, una fase divertente, in assonanza con la situazione sociale generale di quegli anni, che in Val di Mello inizia un bel gruppo di persone ai piaceri del lanciarsi su una placca sfrigolante, senza chiodi, per provare la piacevole sensazione che prova il suicida un secondo dopo essersi lanciato dal parapetto del ponte. In questo periodo gli arrampicatori si dividono in due grandi categorie di merito: i “Famosi”, “Quelli Che Vorrebbero Esserlo” (che, a seconda del risultato, tutti i lettori conoscono) e i “Compagni Di Cordata Dei Famosi”, meglio conosciuti come “Sopravvissuti”, ovvero quelli spinti davanti sui passaggi duri delle vie in apertura, che provano esperienze simili a quelle derivanti dall’assunzione di Lsd, e che oggi perlopiù osservano lo sviluppo dell’alpinismo stando accuratamente defilati.

Il ristoro “LunaNascente”

Età media
Un periodo di breve durata, che vede la selezione darwiniana del gruppo dei “Famosi” e di “Quelli Che Avrebbero Voluto Esserlo” e la separazione in microunità (dette anche Corti), ciascuna presa dalla realizzazione della “Via più bella della Valle”. Ogni microunità è dotata di un microleader il cui rapporto con i compagni ricorda quello dei signori feudali, spesso comprensivo dello ius pri-mae noctis.

Periodo di massimo interesse sociologico, non fosse per il problema rappresentato dalla massa di “Vie più belle” (se ne contano a centinaia) che intasano le pareti della Valle, salite negli stili (etici) più diversi. La situazione collassa quando le necessità pubblicitarie finiscono con il produrre una serie di libelli (guide) che hanno per filo conduttore il principio secondo cui «vi presento una raccolta delle vie migliori della valle, ma sia chiaro che le vie dell’autore sono più migliori delle altre!».

Una ripetizione moderna di Cochise. Foto: Uli Wiesmeier.

L’ex baita di Ivan Guerini divenuta sede del gruppo di guide alpine “Il Gigiat”. Foto: Jacopo Merizzi.

L’impressionante lama sospesa della “Foglia” del Qualido. Luca Maspes sale in solitaria La spada nella roccia, ambito obiettivo risolto dai cugini Fazzini e da Norberto Riva nel 1989. Foto: Andrea Innocenti.

Bar Monica. Foto: Uli Wiesmeier.

Rivoluzione industriale
Cioè oggi. Non potendo più rischiare il suicidio a ogni apertura di via, i “Famosi” e “Quelli Che Vorrebbero Esserlo”, in una fase iniziale si dedicano ai mezzucci, ovvero al ricorso a strumenti artigianali per apparire più bravi degli altri (si ricordano a titolo di esempio i mezzi buchi di spit usati per la progressione in apertura e subito demoliti per i ripetitori e l’uso del Predellino Watusso che permette la chiodatura dal basso a distanze impensate). Successivamente ha il sopravvento la tecnologia, e l’avvento del trapano risolve la competizione a una faccenda di pura disponibilità economica per dotarsi delle batterie di alimentazione di maggior durata. Anche il tema delle discussioni serali cambia. Ora il bar Monica sembra la succursale di una piccola impresa edile qualsiasi dove, sul modello dei vecchi bar sport di paese in cui si discetta con competenza sugli assetti dei telai della Ferrari, si accendono dibattiti ad alto contenuto tecnico sulle prestazioni dei rispettivi trapani e sulla qualità dei tasselli a espansione. Tralasciamo qui per comodità di esposizione i patetici tentativi di qualcuno che cerca di spiegare, obnubilato dai fumi dell’alcool, che salire con il trapano equivale, in placca, ad avere tre piedi invece di due. I soliti Luddisti contrari alla tecnologia.

Jim Bridwell in sosta sulle placche del Pesgunfi. Foto: Uli Wiesmeier.

Adesso
Allo stato attuale sembra manifestarsi un fenomeno di ripensamento, che prende le forme del revival dei Magnifici Settanta e induce a rivalutare le esperienze passate andando alla ricerca dei reduci (da esibire quali trofei e accanto ai quali farsi fotografare in pose amichevoli, magari con il trapano a terra e il piede poggiato sopra, come dopo un buon safari). In Valle è rimasta la possibilità di trascorrere le domeniche a osservare l’evolvere della situazione, magari nascosti dietro qualche pianta o ribaltati nei prati, sicuri che si salvi lo spazio per chi ancora si diverte di più ad andare a tremolare su vie di terzo grado come Patabang piuttosto che allungare le corde, ripetutamente saltando tra un chiodo e l’altro. Soprattutto nella certezza che anche i “Famosi”, riusciti ad assurgere a mito, te li ritrovi improvvisamente umani sul sesto grado, quello che era “il limite delle possibilità umane”, di qualche placca in aderenza sufficientemente sprotetta. In conclusione, come diceva qualcuno, «non ti curar di lor…».

Massimo Sala

Massimo Sala è nato a Monza (MI) il 14 settembre 1961. Sindacalista. Ha iniziato l’attività in Val di Mello nel 1977/78.
In Valle, lontano dalle false luci della ribalta, il Saletta è un personaggio che ha vissuto tutte le fasi della storia dell’arrampicata. Placchista dotato di grande talento, ha ripetuto quasi tutte le classiche salite della zona e le placche più sprotette, proseguendo di domenica in domenica la sua analisi ai mutamenti che l’arrampicata moderna sta portando. Viene spesso in Valle anche quando il tempo è brutto, giusto per fuggire dalla metropoli e, come dice lui, «abboffarsi di salamelle alla brace e altre cosucce».

La parete est del Qualido ospita le vie più lunghe e impegnative, aperte con diversi stili: dall’arrampicata estrema d’artificiale, alla libera protetta. Foto: Andrea Gallo.

Una Valle senza rimpianti
di Sonja Brambati e Paolo Vitali

Paradossalmente abbiamo realizzato appieno quanto belle fossero le nostre montagne durante numerosi viaggi nei più remoti angoli del mondo.

Dopo giorni e giorni di cammino su interminabili morene sempre uguali, senza vegetazione alcuna, con torrenti fangosi la cui acqua ci toccava pure bere, un flash appariva chiaro in mente: una valle soliva, rigogliosa di vegetazione d’alto fusto, verdi pascoli lambiti da acque limpide di uno spumeggiante torrente, a chiudere l’orizzonte imponenti pareti di perfetto granito… un sogno ad occhi aperti? No, semplicemente ricordi della Val di Mello dopo un mese di Baltoro!

Josechu Jimeno

Abbiamo vissuto la Val di Mello in tutti i suoi aspetti: le allegre scampagnate, il campeggio da morosi, le giornate di baita con i pastori locali, le cascate di ghiaccio, l’arrampicata: dalle classiche alle moderne, dai blocchi alle big-wall, dalla friction run-out alle vie protette a fix dall’alto, e da ognuno di questi aspetti abbiamo ricavato grandi soddisfazioni, sicuramente complice l’eccezionale ambiente naturale. Oggi andiamo in Valle un po’ meno spesso: non condividiamo quei nostalgici elitari che rimpiangono la Valle dei loro giorni, «quando c’era poca gente… quando le vie erano protette solo naturalmente ecc.». Anche a noi infastidisce la folla, ma basta evitare i periodi di maggiore affluenza, o semplicemente incamminarsi nelle laterali senza rifugi (Val del Ferro, Val Qualido, Val Torrone) per ritrovare completa quiete. La Valle è talmente bella che tutti, crediamo, abbiano il diritto di goderne, naturalmente con responsabilità per l’ambiente naturale. Sarebbe anche auspicabile una certa sensibilità da parte delle istituzioni, per sopperire laddove questo rispetto venisse a mancare.

Durante l’apertura del Canalino. Foto: Archivio Luca Maspes.
Torrente Mello

Oggi, nonostante alcuni sciocchi e anacronistici tentativi di sabotaggio delle vie moderne (vedi la rottura degli spit) convivono in Valle praticamente tutti gli stili di arrampicata: dai boulder dell’ultimissima generazione all’artificiale new-wave, passando per le classiche da proteggere, alle salite moderne protette dal basso a fix e con difficoltà obbligate elevate. Basterebbe un minimo di apertura mentale per capire che tutti questi stili possono benissimo convivere nello stesso ambiente, ognuno può scegliere quello che più gli è congeniale, accettando che altri facciano cose diverse (magari troppo difficili per noi). Un po’ di tolleranza e umiltà, per permettere che ognuno possa vivere la propria Valle. In definitiva un invito a visitare questo angolo di Alpi che nulla ha da rimpiangere a ben più noti e acclamati luoghi oltreoceano, anche se ciò ci costringerà a ricercare la quiete più in alto o in angoli più nascosti.

Paolo Vitali chioda dal basso un tiro della lunghissima Melat al Qualido. Foto: Archivio Paolo Vitali.
Sonja Brambati e Paolo Vitali

Sonja Brambati è nata a Como il 21 aprile 1961. Ha iniziato l’attività in Val di Mello nel 1985. Paolo Vitali è nato a Lecco il 4 agosto 1964. Consulente informatico. Vitali è probabilmente l’arrampicatore che ha aperto più itinerari, quasi tutti con la moglie Sonja Brambati, inseguendo perlopiù l’arrampicata libera e moderna sulle tracce del Sassismo. Ha introdotto l’uso sistematico dello spit e ha scoperto le big wall del Qualido in chiave moderna, tracciandovi ben 7 vie. Oggi arrampica ancora a tempo pieno usando il trapano. Preferisce roccia pulita, chiodi solidi per divertirsi e soste sicure.

Colori e luci autunnali sulle sponde del Qualido. Foto: Andrea Gallo.

Un pezzo di airlite per le mie Superga, per favore!
di Roberto Hassan Fioravanti

La sera prendevo lo zaino e l’aprivo, l’odore della corda e dei moschettoni che si diffondeva per la stanza prometteva una serata avventurosa. Forse era il caso di dare una controllata alle ghiere dei moschettoni. Tutte funzionavano alla perfezione. Allora, un’occhiata ai nodi di cordini e fettucce, tutti a posto, non si erano allentati. Sarebbe stato forse il caso di serrare ancora un po’ i nodi? Ma sì! Poi l’imbragatura: solida, non si poteva definire altrimenti.

Si “rimpiccioliscono” gli obiettivi: dalle grandi pareti a singoli passaggi sui massi intorno al Remenno. Foto: Uli Wiesmeier.

In fondo allo zaino c’era la corda, era ancora abbastanza nuova, odorava ancora di scaffale. Il Favolla mi aveva spiegato come dovevo fare per controllare la corda, bisognava passarla tutta da un capo all’altro facendo attenzione a sentire se all’interno si erano formati dei “buchi”. Poteva succedere se ci camminavi sopra, ecco perché bisognava farlo, la calza esterna restava intatta e l’anima si feriva, «così tu non ti accorgi di niente ma se cadi si spezza e finisci giù come una pera». Era stato eloquente! Allora doppio controllo, da un capo all’altro e ritorno, era ancora intatta. Sarebbe stato il caso di lavarla?

Durante una ripetizione della temuta Via di Hassan, alla Stella Marina. Foto: Luca Maspes.

La corda l’avevo usata due volte allo Zucco dell’Angelone e una volta all’Antimedale dove col Favolla avevo fatto Frecce perdute, tutta da secondo. Il Favolla mi aveva promesso di portarmi in Val di Mello a fare una via di placca. Avremmo usato la mia corda.

La placca di granito doveva proprio essere il massimo della arrampicata, tutto equilibrio sui piedi, movimenti delicati, spostamenti di peso, ma soprattutto tiri di ottanta metri con un solo chiodo piantato a metà della lunghezza che se dovevi partire da primo forse non ti conveniva farci sosta sopra ma continuare oltre e salire in conserva. E se arrivi un po’ sopra al chiodo e ti senti stanco e vuoi fare un resting a cosa ti attacchi? Io mi sarei attaccato alla corda, da secondo non ci sarebbero stati grossi problemi a risalire sulla placca, la corda un po’ tesa e sarei passato quasi ovunque, camminando.

1986: un giovane Hassan, appena terminata la sua innovativa creazione. Foto: Archivio Roberto Fioravanti.

In ogni caso dovevo sbrigarmi a risuolare le Superga con l’airlite per domenica, sembrava che anche Ivan Guerini le avesse risuolate.
Solo il terzo negozio di forniture per calzolai aveva l’airlite. «Un pezzo di airlite per le mie Superga, per favore!», indicai le scarpe che avevo ai piedi, praticamente nuove, sguardo perplesso di un commesso che evidentemente non arrampicava e non sapeva come l’airlite ti tiene su appiccicandosi alle placche della Val di Mello come una sanguisuga affamata. «Mi dia anche una confezione di colla». Tornai a casa, il lavoro mi aspettava!

Richard Colombo ripete Il sogno di Tarzan, 7b, uno dei passaggi più tentati all’epoca d’oro del Sassismo e risolto da Cristian Gianatti nel 1992. Foto: Andrea Gallo.

Era inverno. I passi scricchiolavano sopra la neve crostosa per il freddo. Il silenzio nella valle era ovattato.
Eravamo arrivati con un autobus rumoroso, ci avevano detto che si poteva dormire in una baita all’inizio della valle. La baita del Gigiat. Avevamo provato ad accendere la stufa ma era umida e c’era poca legna. Lo sgocciolio battente della neve che si scioglieva sul tetto cominciava a lottare con le conseguenze del tramonto, le nostre parole diventavano nuvole di condensa sempre più lunghe. Si decise di andare a letto.

Il Sasso della Polenta, uno dei tanti massi posti all’entrata della Valle. Foto: Uli Wiesmeier.

Silenziosi, camminavamo nell’assordante luce del mattino, un mattino impallidito da una fitta coltre di nuvole. E noi lì sotto, ansimanti, gli scarponi di cuoio di mio padre zuppi, sudati, freddi. Il Risveglio di Kundalini, il nostro trampolino di lancio verso la gloria, stava maestoso sopra di noi e presto l’avremmo percorso. Avremmo attaccato i nostri moschettoni a tutti i chiodi, i pochi chiodi che delineavano la linea di salita. Saremmo saliti con sicurezza, incastrando le mani nella Serpe fuggente, poi saremmo saliti fin sotto il grande tetto, e da lì lungo gli ultimi tiri alla grande cengia. Cominciò a nevicare verso sera quando lentamente scendevamo verso San Martino per riprendere il bus. Silenziosi, lividi, sconfortati, guardavamo in basso: tutt’intorno, nella luce sempre più lieve, rimanevano solo i contorni neri a delimitare le forme. Quel martedì non andammo al CAI.

Richard Colombo ripete Il sogno di Tarzan, 7b, uno dei passaggi più tentati all’epoca d’oro del Sassismo e risolto da Cristian Gianatti nel 1992. Foto: Andrea Gallo.

Fire, la nuova frontiera dell’arrampicata in valle era stata raggiunta.
Dopo le Superga con l’airlite, dopo le «Ebì» modificate in punta per riuscire a calzarle tre numeri in meno, dopo le Brixia, le Scarpa, le Asolo, le Dolomite, Dio ha creato la Spagna e gli spagnoli. Dal canto loro hanno creato la mescola spagnola. Erano belle nuove con il bordino rosso che seguiva gli occhielli, la pelle scamosciata, la gomma nera, raspata, le stringhe di nylon rosso, elastiche. Che odore! L’odore della gomma nuova aveva quasi l’odore dell’aria della Valle, l’essenza stessa dell’avventura.

Il gioco-arrampicata prosegue sui massi della Valle. Foto: Andrea Gallo.

La sera le indossavo per modellarle alla forma del mio piede, ma tutte le volte che le toglievo scoprivo che erano state loro a modellare il mio piede alla loro geometria. Lo sapevo, quello con le scarpette è un duello per tenaci e quando hai vinto hai perso perché le scarpette perfettamente modellate alla forma del tuo piede sono oramai consumate, da buttare. A questo punto solo pochi sanno risuolarle senza che diventino delle ciabatte, così ricomincia la lotta con un nuovo paio. Ero già rassegnato. Quando si tratta di stare in equilibrio un quarto d’ora a piantare uno spit le scarpe che indossi assumono un ruolo molto importante. È essenziale che siano comode, del proprio numero o mezzo numero in più. La suola deve essere morbida per garantire l’aderenza e questo è anche il difetto della suola, che è aderente. Tutti i granelli di granito che si sfaldano dalla roccia, la terra depositata dal vento, il muschio e i licheni che sono sotto il tuo passaggio non trovano di meglio da fare che appiccicarsi alle suole come le mosche che si appiccicavano a quei nastri gialli che mia nonna usava in cucina. Anche per questa ragione ho sempre indossato i pantaloni lunghi, ci strofinavi sopra le suole e i detriti meno ostinati se ne andavano. La mescola spagnola ha reso possibili i percorsi in aperta placca chiodati dal basso, più che i tiri estremi in strapiombo.

Simone Pedeferri. Foto: Matteo Crottogini.

Confesso che sono un cagasotto e ‘sta storia degli spit piantati dal basso mi ha solo consentito di fare le cose che avrei voluto fare senza averne il coraggio. Quindi, a un certo punto della mia carriera arrampicatoria, deluso dagli scornamenti costanti sulle placche della Valle e suggestionato dagli exploit di Piola e dei fratelli Remy, ho semplicemente applicato una semplice equazione. Impugnando un tampone e un martello ho cominciato a salire a destra e a manca sforacchiando lungo il mio percorso. Credo con questa logica di aver piantato i primi spit in valle. In un periodo in cui spittare al Sasso Remenno conferiva un’aura da disgraziato-eletto-provocatore-figlio-del-Sessantotto, spittare in valle era un gesto vagamente iconoclastico, da sfregiatore di placche. Gli immacolati scivoli granitici dopo il mio passaggio apparivano punk ricoperti di borchie, una bella soddisfazione!

1984: arrivano in Valle i primi spit, e ogni posto è buono per collaudarli. Foto: Archivio Roberto Fioravanti.

Quando a opera completa scendi a valle e guardi in alto puoi ammirare il tuo lavoro e quella fila di piastrine scintillanti ti appaiono come un libro appena finito, con i suoi capitoli e le frasi sottolineate. Pochi hanno chiodato dal basso col tampone, poi si è cominciato a usare il trapano o a spittare dall’alto calandosi sul percorso che si sceglieva. Il sistema era semplice, principalmente si trattava di avere due polpacci così, un po’ di spirito di avventura e soprattutto un compagno di cordata mooolto paziente. Quando hai questi supporti puoi partire, innanzitutto tampone a sinistra e martello a destra, se non sei mancino. Si sale e quando si arriva in una buona posizione di fermata si può cominciare, o meglio si sale e quando guardando in basso ci si sente inquieti si comincia a bucare, in barba ai polpacci. La parte più brutta è proprio cominciare, quando in equilibrio precario devi prendere in mano tampone e martello e cominciare a battere, allora la bussola dello spit diventa il tuo terzo punto di appoggio ma a ogni colpo il tampone rimbalza sulla placca e il martello rincula. Dopo circa cinque minuti, finalmente la boccola ha aperto la sua strada e quando è dentro un centimetro si trasforma in un ancoraggio su cui, con tutte le dovute precauzioni, ti puoi aggrappare per lasciare defluire il sangue dai polpacci. Ancora due brutti momenti ti aspettano: togliere la bussola dal buco per liberarla dalle scorie e svitare il tampone sostituendolo alla piastrina. I polpacci fumano. Sotto i piedi senti un cristallino conficcato nella gomma che fa scivolare il piede mentre il tuo assicuratore sbadiglia e le farfalle svolazzano ignare. Ecco perché mi è piaciuto tanto salire così. Per le farfalle, le nuvole, per il rumore delle cascate e il verde delle gemme.

Stefan Glowacz al ristoro Luna Nascente

Poi a un certo punto tutto si è rotto. Si è ingrandito il parcheggio, sono stati messi dei cartelli che spiegavano che una baita era una baita. Ed è stata distrutta la mulattiera che ancora si ricordava dei miei primi passi nella Valle (tutte quelle menate per gli spit sono diventate ridicole di fronte a un simile scempio). Ma forse i cantieri sono stati la conseguenza delle vie che abbiamo aperto, sempre più abbordabili, sempre più frequentabili. Le baite abbandonate dai pastori si sono trasformate in casette da vacanza. Una cava è comparsa all’ingresso della Valle, con la sua magnifica gru gialla quasi a sentinella incombente su quelli che passano sotto. Muri in cemento armato contengono e imbrigliano il torrente.

Oggi arrampico prevalentemente sui blocchi da dove non si vede il parcheggio. Quello che vi chiedo è di non andare in Valle, o se proprio dovete andarci provate a essere silenziosi e guardate il torrente che continua a scorrere almeno per un attimo. Comunque cercatemi, arrampicheremo assieme.

Roberto Hassan Fioravanti

Roberto Hassan Fioravanti è nato a Milano il 7 luglio 1967. Fotografo, agente, arrampicatore. Ha iniziato l’attività in Val di Mello nel 1983.
In Valle da giovanissimo è stato uno dei primi ad aprire vie dal basso utilizzando gli spit, spingendosi sulle placche considerate più ripide e difficili, come la sua temuta via alla Stella Marina. Soprannominato Hassan, è ricomparso in zona, ma questa volta per dedicarsi al bouldering estremo, sua attuale passione in cui ha raggiunto i più alti livelli.

Valerio Folco collauda l’artificiale new age importato dalle pareti di Yosemite. Con questo stile Fabio Spatola ha tracciato diversi itinerari big wall sulle pareti più alte della zona. Foto: Andrea Gallo.

Sto progettando una guidina gastronomica per bivacchi su amaca
di Fabio Spatola

Tutto è iniziato per caso. Se ricordo bene era il 1983 o 1984 e Mario, un amico climber – vent’anni fa si diceva arrampicatore, ma fa lo stesso – mi raccontò qualcosa sulla Valle dell’Orco in Piemonte e sulla Val di Mello in Lombardia: «Due punti molto importanti nella storia dell’arrampicata italiana», diceva…

Non molto tempo dopo mi capitò fra le mani la mitica guidina Val di Mello, 9000 metri sopra i prati. Già dopo poche righe capii che i contenuti del libro si distinguevano dalla solita relazione modello club alpino, lotta con l’alpe, ecc. Quello che più colpiva, erano le sfumature tragicomiche o semifiabesche che Merizzi e Masa tessevano tra una relazione e l’altra. Uno stile – almeno per me – nuovo e delicato, come l’equilibrio in placca, che lasciava spazio alla fantasia. O meglio, che giocava con gli eventi reali in modo paradossale e intenso, but with a bit of humor

Copperhead pronti per l’artificiale moderno. Foto: Andrea Gallo.
Il nucleo di baite di Cascina Piana. Foto: Uli Wiesmeier.

Ma chi più di altri mi ha saputo parlare dell’atmosfera magica e profonda della valle sono stati Gianni e Paolo Covelli. Solo molti anni più tardi ho scoperto che nell’episodio del Saggio Faggio, presso la parete del Pappagallo, erano presenti anche loro (narrato nella guidina sopra citata). I numerosi racconti di Gianni, ma soprattutto gli inviti spontanei e calorosi di Paolo a provare l’esperienza di arrampicare sulle pareti del Precipizio o dello Scoglio delle Metamorfosi; o anche di seguire il sentiero di fondovalle a due passi dal torrente… «e poi dovresti vedere la baita della Pioda: è in un posto fantastico!… e il Bosco delle Fate, pieno di faggi… e la Val Livincina e…». Tutto questo, e forse altro che ormai ho dimenticato, costituì l’avvio di un viaggio ancora aperto. Quello che seguì si può riassumere in poche righe: prime esperienze sulle vie classiche, ormai arci-note, Kunda e Luna (la trovo così bella da averla ripetuta una ventina di volte circa, quasi sempre con nuovi compagni di corda), Vortice di fiabe, Patabang, Polimago, Oceano e altre ancora… Mentre si percorreva il sentiero di fondovalle per raggiungere le vie, brillava alto il Martello del Qualido, con l’aria di chi, mostrando il suo fascino, sa catturare l’attenzione e la fantasia di chi l’osserva… Ma era ancora presto e si trattava della sensazione di un attimo… Sempre per caso, una sera, durante una proiezione di diapo di Gian Carlo Grassi, si decide con Paolo di riprendere un tentativo iniziato con Silvio e abbandonato da tempo… Detto e fatto! Mellodramma è nata così, ed è cresciuta con il contributo di Gianni e di qualche grassa marmotta finita in pentola all’Hotel Qualido. Tra i ricordi più intensi quello dell’indimenticabile Tarci Fazzini, al lavoro sulla Spada nella roccia: una tra le più belle del Qualido; lo si vedeva alla nostra sinistra poco più in alto di noi. Tra i più insopportabili rammento ancora un bivacco su amache a rete (provare per credere). Nuovamente per caso, la via ha acquistato un pizzico di notorietà. Un paio di simpaticissimi e fortissimi climber spagnoli (Josechu Jimeno e Juan Luis Monge) alcuni anni fa, tentano la prima ripetizione portandola quasi a termine, ma questo basta a far acquisire un alone di mistero sulle reali difficoltà della via e il resto è storia passata. Il Precipizio degli Asteroidi, uno dei simboli della valle, ha avuto la “cortesia” di ospitare un altro scherzetto giocato ai suoi strapiombi, di nome Il suono del Mellotron. La fortuna e un inverno mite ci regalano una delle più lunghe dormite su amaca che rammenti… Alcuni anni più tardi, soggiogati da Antiche Mellodie, decidiamo di svernare sulla parete della Meridiana in bassa Val Torrone. L’impressione dell’enorme soffitto è ancora nello stomaco, mentre quello della squisita torta di mele e cioccolato preparata da Pascal e divorata in pochi secondi è rimasto solo nella mente (Pascal ha quasi promesso che per il nuovo progetto alla Botte ne sfornerà un paio di… dozzine). Tra l’altro, leggendo recentemente Su Alto, ho appreso con piacere che una cordata di arrampicatori austriaci ha effettuato la seconda salita in quattro giorni. Last but not least, Melloscrollo. Aperta sulla parete della Mongolfiera, incrocia la mitica Vuoto senza ritorno del vecchio Tarci. Ma quest’ultima è principalmente frutto dell’intuito di Dante, Giò Ongaro e Pala nonché dell’ineguagliabile assistenza di Arno…

Il celebre bar Monica, consueto punto di ritrovo e “relax” di San Martino. Foto: Andrea Gallo.
Condominio di portaledge sotto il grande tetto della Meridiana del Torrone, durante la prima salita di Antiche Mellodie. Foto: Archivio Rodelli.
Marzio Nardi alle prese con il passaggio d’uscita di Vacca Giavacca, la prima via di 8a dell’area del Remenno, liberata da Pigoni nel 1987. Foto: Andrea Gallo.

Tra i ricordi indelebili il risotto di gamberetti di mezzanotte (sto progettando una guidina gastronomica per bivacchi su amaca) preceduto dal montaggio di portaledge insolitamente complesso (due ore, no limits). Questo è tutto, o quasi, per quel che riguarda le mie arrampicate in Valle; è ovviamente una grossa bugia, mancano tutti i tentativi vani e le volte andate buche, ma per questi ci vorrebbe un numero speciale di questa rivista. Questi eventi rimarranno delle esperienze indimenticabili. Ma altrettanto lo sono quelle vissute in compagnia di personaggi che con l’arrampicata hanno avuto a che fare solo indirettamente. Alcuni tra questi abitano e vivono a San Martino Valmasino, ultimo paesino della valle, altri poco distante… Ricordarli tutti è impossibile: chi non conosca Monica, Franca, Giorgio e il bar Meeting point of the climber farebbe meglio a nascondersi o a fargli una visitina… Qui potrebbe capitarvi di incontrare Paolo, il mitico giocatore di scacchi sempre in lotta con il rissoso, irascibile… carissimo Paolo Cucchi; Ansélm, l’inventore del Parampolo, Antonello, gestore del rifugio Allievi-Bonacossa, il Moro… e allora gli sarebbe difficile uscire sobrio. Se le gambe reggono si può attraversare la piazzetta, dare un’occhiata al negozio di Mimmo e girare a sinistra, dove imboccata una viuzza e, fatti pochi passi, ci si troverà di fronte a una casetta non più grande di un orologio a cucù. Ci abita Luca, in arte Rampikino. Il “sito” è uno dei porti di mare tra i più frequentati da alpinisti famosi, clochard, climber, freakettoni, bevitori incalliti e talvolta top-girl (per gli inviti ufficiali a party e meeting di ogni tipo rivolgersi a Gianni, mai abbastanza lodato per la sua disponibilità e la sua abilità di chef)… Ecco, questa ed altro è per me la Val di Mello, con la sua natura, le sue genti e le sue pareti.

P.S. – II mio amico quattrozampe nella fotografia si chiama Shanz e ultimamente è l’unico compagno di corda veramente fedele che abbia voglia di seguirmi.

Fabio Spatola

Fabio Spatola è nato a Tradate (VA) il 20 aprile 1964. Disgaggiatore. Ha iniziato l’attività in Val di Mello nel 1985.
In Valle amante delle big wall ed entusiasta ricercatore di linee strapiombanti, Fabio ha firmato alcune delle più grandi pareti della Valle con i suoi nomi più geniali: da Mellodramma sul Qualido a Melloscrollo della Mongolfiera, da Antiche Mellodie alla Meridiana a Suono del Mellotron sul Precipizio. Una via ogni uno o due anni, basta e avanza! Oggi Fabio compare spesso in Valle per stare con gli amici e studiare il prossimo lungo viaggio in parete.

Mauro Bubu Bole prova gli strapiombi del Pesgunfi. Foto: Andrea Gallo.

Il Sasso della concentrazione
di Daniele Pigoni

Avevo 17 anni quando cominciai ad arrampicare. E non ricordo di aver notato in cielo particolari segni da cui risultasse che quel giorno avrebbe influenzato in modo radicale la mia vita.

Venni infatti praticamente trascinato da due amici più informati e motivati di me in uno dei tanti corsi estivi del CAI. Ma la scomoda imbragatura avuta in prestito e il freddo polare di alcune uscite avevano reso traumatiche le prime esperienze con il vuoto, posizionando l’arrampicata all’ultimo posto della lista delle mie attività. Inaspettatamente, ritornai in Valle verso la fine dell’estate, con più calma e in un ambiente decisamente meno ostile, anzi, innegabilmente affascinante. Fu una premonizione più che un pensiero lucido: intuivo che in quei posti e attraverso quell’attività (che non sapevo ancora come chiamare) avrei trovato uno strumento indispensabile alla mia ricerca personale, così come solo più tardi si sarebbe definita.

Daniele Pigoni e Paolo Cucchi, giovanissimi, alle prime esperienze in Valle. Foto: Archivio Daniele Pigoni.
Sasso Minato. Foto: Andrea Gallo.
Daniele Pigoni sulla sua più difficile creazione, Spirit Walker, 8c ancora irripetuto, al masso di Goldrake. Foto: Archivio Daniele Pigoni.
In attesa del bel tempo, girovagando tra i massi. Foto: Uli Wiesmeier.
Foto: Uli Wiesmeier.
Foto: Uli Wiesmeier.

All’inizio, la ricerca di un modello ad hoc forniva un’eccellente e naturale scorciatoia. Senza bisogno di troppe elaborazioni o di particolare creatività, ma stando bene attenti alle notizie che arrivavano dall’America e dal resto del mondo, era facile sentirsi un Jim Collins o un John Bachar. Certo, la nostra baita in Val di Mello non era Camp 4, né il Precipizio era El Capitan però c’era il sole, qualche donna e un sacco di vie da salire in compagnia di persone che condividevano lo stesso confortevole e rassicurante microcosmo. Poi, dopo aver seguito e abbandonato le tracce altrui, ciascuno ha iniziato a suo modo una ricerca personale e più remunerativa. Oltre che, sicuramente, più faticosa; penso allo scioglimento di legami forti, all’abbandono dei posti amati, alla presa di coscienza di se stessi e dei propri limiti. Dopo una fase di esilarante esterofilia, in compagnia perlopiù del Vigne (Massimo Bruseghini, NdR), sono tornato al Sasso di Remenno che, più della Valle vera e propria, è stato il mio laboratorio preferito. Per la mia capacità di concentrazione e il mio modo di percepire la realtà, è lì che ho potuto esprimermi al massimo, e non solo concentrandomi sul mio gesto (che è quello che è). Questa ricerca mi ha accompagnato nella realizzazione di alcune belle vie, per esempio Vacca Giavacca o Ya Ozna. Dopo l’ultima via, la più dura, è riaffiorato un intuito, una sensazione: un ciclo era completato. Era ora di cambiare.

Daniele Pigoni

Daniele Pigoni è nato a Sondrio il 10 ottobre 1965. Restauratore. Ha iniziato l’attività in Val di Mello nel 1982.
In Valle, della generazione del post-Sassismo, è stato uno dei primi arrampicatori a dedicarsi al lato sportivo dell’arrampicata, riuscendo nei primi anni Novanta a spingere le difficoltà fino all’8c di Spirit Walker, al Sasso Remenno. Pur non avendo partecipato alla vera e propria bagarre di aperture sulle placche melliche, è stato in parte influenzato dalla filosofia dell’arrampicata d’oltreoceano. Si mantiene ancora su alti livelli in arrampicata sportiva, seppur svolgendo un’attività meno intensa di un tempo.

Ghiaccio all’Alpe Pioda. Foto: Andrea Gallo.
Ghiaccio all’Alpe Pioda. Foto: Andrea Gallo.
Jim Bridwell impara l’aderenza mellica. Foto: Uli Wiesmeier.
Pierangelo Kima Marchetti. Foto: Archivio Pierangelo Marchetti.

To drink, to smoke but maybe to love
di Luka Rampikino Maspes

Dieci anni fa questa scritta comparve su una maglietta dedicata agli arrampicatori di questa valle, e mai termine fu più azzeccato! Un casino di idee e di contrasti mi fanno pensare alla Valle.

Caos e confusione, ma per me anche una lezione di vita irripetibile nei contenuti, magari “sbagliata” se ci si limita a osservarla dall’esterno, dal mondo del “bon ton” e del lavoro-famiglia-posizione. Uno stile da vivere senza risparmio e non un luogo dove si arrampica e basta. Allora, dove iniziano i ricordi di questa “mia” Val di Mello? Da quando mi diedero quel soprannome da pistolino esaltato che poi Jacopone cercò di adattare alla crescita tentando di cambiarlo in Rampikone. Era una fase della mia vita in cui nient’altro sognavo se non quelle invitanti ma ostili placche compatte. Erano luoghi pericolosi, talora drammatici, dove a volte era dato scoprire che il confine tra vita e morte (o smembramento), era solo questione dei magici poteri delle suole e della “birra” che avevi in corpo. A quell’età – sedici anni – si sa che tutto è gioco. E qui, come disse qualcuno, divenne gioco-arrampicata, mischiato a un senso del rischio che faceva parte del più apprezzato vademecum di “come andare in Valle”. Rischiavi tanto, comunque sempre l’indispensabile, e tornavi a casa sano e intatto. Tutto sommato, posso affermare che “mi è andata di culo”, così come ad altri avventurieri qui in Valle. I Sassisti continuavano a predicare e noi (pochi) giovani ci lanciavamo in folli emulazioni cercando di porre in evidenza – alla fine della giornata “da sballo” – non la massima prestazione fisica bensì la somma dei chiodi che avevamo moschettonato per ripetere una via. Come sempre erano pochi, e non solo perché ne avevamo realmente pochi a disposizione! In Valle un fatto è certo: se non osi non sarai nessuno, e nessuno dei suoi frequentatori abituali si ricorderà di te. La filosofia dell’exploit mellico ha sempre ricercato un pizzico di spregiudicatezza e una dose di genialità (che il fardello ereditato dall’era Woodstock-Sassismo aiuta ancor oggi a conservare). Tutto all’eccesso, tutto senza mezzi termini: dal bere prima di una scalata a fumare come turchi subito dopo.

Foto: Andrea Gallo.
L’arrampicata su cascate di ghiaccio costituisce un’interpretazione invernale della Val di Mello, anche se durante le giornate di sole è possibile un ritorno alla roccia. Foto: Giuseppe Miotti.

Ho vissuto il mito delle rocce valligiane per un tempo pressoché infinito. Ma oggi qualcosa è cambiato, e quei liscioni di ghiandone hanno perso per me parte del loro significato. Tante fughe all’estero e molti flash back di guglie vertiginose e pilastri infiniti a settemila chilometri di distanza mi hanno fatto comprendere che non esiste solo il granito che circonda casa mia.

Benché negli ultimi anni abbia praticamente smesso di arrampicare in Valle, il mio pensiero è legato soprattutto ai tanti compagni di paure e di “vita in Valle”. Tanti personaggi dalle più svariate sembianze: lo sconvolto fumatore, amante delle soste nei numerosi boschetti sospesi; il compagno milanese già sveglio a orari da rifugio per portare a termine le sue dieci ore di ingaggio quotidiano (anche la mattina di Capodanno); i climber noti e meno noti, che se ne arrivavano con la lista di ascensioni programmate e dopo tre ore te li ritrovavi al bar con le orecchie basse e il fatidico “programma” buttato nel cestino insieme alla carta del gelato. Non dimenticherò mai neanche i veri placchisti, quelli che nel cestino buttano invece tutti i discorsi di travo-allenamento-pannello perché sanno benissimo che sulla grande percentuale del salibile qui in Valle, tutto ciò che oggi viene scritto e consigliato all’atleta arrampicatore serve ben poco! Già, qui la roccia non è “allenante”, è chiodata poco, l’arrampicata è monotona… ma allora dove nasceva la scintilla che mi aveva spinto qui, quella che mi fece poi prendere dimora in una casetta dalla quale basta gettar lo sguardo fuori dai vetri per perdersi? Forse sta scritto nelle pagine del dizionario di Mellolandia:

I primi timidi tentativi di Paolo Masa. Foto: Jacopo Merizzi.
La candela sospesa di Samurai, salita da Luca Biagini è forse la più difficile della zona. Foto: Archivio Luca Biagini.

“A” come aderenza: è il tipo di arrampicata che segna il 90% delle vie in Valle. Molti la detestano perché non ci sono appigli di ugual forma dei freddi bunker. Per chi l’ama davvero, l’aderenza è semplicemente il miglior modo per ampliare i propri orizzonti mentali e scoprire che mettere i piedi nel posto giusto ha ancora la sua importanza. La capacità di concentrazione diventa “il freddo specchio della tua emotività interiore”.

“B” come bar: luogo dell’attesa mattutina del pre-scalata e del pettegolezzo pomeridiano del post-scalata (perfetto anche per le giornate di non-scalata). Vi si forniscono le migliori indicazioni su dove andare a colmare il vuoto nello stomaco e miscelarsi ai numerosi clan per trascorrere le ore più piccole e dannose della notte.

Luca Maspes

“C” come Cuba Libre: la bevanda più gettonata dell’ultima estate. Di anno in anno cambiano le preferenze, ma non la sostanza. I valtellinesi Genepy, Erba Iva e Braulio sembrano soccombere alle prelibatezze liquide dei locali più “a la mode” del momento.

“D” come divertimento: cioè la somma delle prime tre lettere sopracitate.

“E” come esplorare: è il bello di trovarsi fuori dalle rotte più battute del turismo alpinistico estivo. Esci da casa nelle varie stagioni e ti ritrovi in un bosco cespuglioso, in una fessura o su una colata ghiacciata dove forse qualcuno non è mai passato prima.

“F” come… quella che pensate. Da innumerevoli anni al secondo posto (spesso al primo) nella classifica di preferenza dei locali stagnanti nella Valle. Ci si lamenta della troppa gente e invece sotto sotto ci sta il sogno di ricevere un’invasione di carovane di donne provenienti dalle costiere romagnole, con tanta voglia di conoscere questi montanari burberi e fissati sulle rocce…

“G” come genitori: mi lasciarono fuggire dalla città per una passione che sarebbe divenuta la mia fonte di vita.

“H” come «Ho visto il Gigiat». Basta fermarsi nelle piazze dei paesi e chiedere agli anziani che cosa ne pensano di questa storia. L’importante è non ridere.

“I” come inverno: la stagione più silenziosa, ma anche quella che può regalare le forti emozioni del ghiaccio. Come cancellare le interminabili giornate trascorse nella conca dell’Alpe Pioda e sui più instabili nastri gelati delle rocce valligiane?

All’interno del nuovo Centro Polifunzionale della Montagna, ideale base per i frequentatori della zona. Foto: Uli Wiesmeier.

“L” come litigare: io mi diverto, di tanto in tanto, quando scopro che la Valle non viene più considerata terra d’avventura bensì una grande palestra artificiale. Poi mi ricordo che la Valle non è mia e ci rido su.

“M” come massi: anche la corda per qualche giovane è andata in pensione, facendo tornare alla ribalta l’attività ginnica e giocosa dell’andar per blocchi, fare bouldering, sassismo o giù di lì. E strano che a tutto si debba dare un nome: bastano due appigli e quattro da non usare per dire che hai fatto il passaggio “pinco pallino”.

Col trapano le placche diventano terreno di gioco dei più moderni apritori. Foto: Jacopo Merizzi.

“N” come non lo so: è la risposta che ti dai quando ti chiedi se il piede terrà o il cristallo ti abbandonerà al tuo inesorabile destino. Perciò consiglio un doveroso apprendistato prima di esagerare con i propri obiettivi.

“O” come ospiti: ne arrivano a bizzeffe, e se preferiscono subito un aperitivo alle interminabili discussioni sul climbing sono generalmente ben accetti. Fra le più acclamate entrée ricordo quella di Bubu, grande strapiombista ma anche grande estimatore del Braulio (un litro on sight); quella di Jim Bridwell, il leggendario californiano che dopo un bel po’ di rosso si sdraiò a parlare con il mio cane in lingue delle più diverse; Beat Kammerlander al quale venne ricordato ciò che rispose in un’intervista all’inopportuna domanda: «Tu fumes?». «Ecco, non siamo un covo di drogati e alcoolizzati, ma le vie di mezzo non ci piacciono».

“P” come pericolo: la Valle è un luogo che tanti hanno marchiato come “engagée” ma qualcuno si è accorto che mantenere le vie in certi canoni di insicurezza può salvare tanti arrampicatori sprovveduti.

Luca Maspes “ingabbiato”. Foto: Uli Wiesmeier.

“Q” come quanto è difficile? Due i gradi di valutazione, sali o non sali.

“R” come rivoluzione: nonostante il quarto di secolo trascorso, un po’ del caldo vento Sassista sopravvive ancora negli animi più affezionati a ciò che le ondate di pensiero dell’epoca portarono.

“S” come spit (ovviamente): benché il Duemila sia iniziato, la Valle è uno degli ultimi baluardi dell’arrampicata pulita. Non perché non ci siano le placchette da moschettonare, ma perché sopravvivono ancora i personaggi che vorrebbero “liberare l’avventura” e vedere le loro vie pulite e distanti dalle mitragliate dei rumorosi e meccanici trapani.

Luca Maspes slegato su Spanna, 7a, al masso di Goldrake. Foto: Andrea Gallo.

“T” come Tarcisio: quell’ormai mitico ragazzo venuto da Premana, che di cognome faceva Fazzini, è rimasto un punto di riferimento nel modo di gestire l’alpinismo e l’arrampicata con le “A” maiuscole. Il passo successivo al Sassismo era compiuto. Peccato che Tarci ora non sia più con noi, e che io non sia riuscito ad aprire una via con lui.

“U” come unica: un lavoretto della natura fatto come si deve questa benedetta Valle. Spero in cuor mio che i cavatori, le code di turisti da pic-nic e i campeggiatori selvaggi si accorgano non troppo tardi di quello che ho appena detto.

“V” come Valle: non è curioso che centinaia di persone non dicano “la Val di Mello” ma semplicemente “la Valle”?

“Z” come…

L’ultima lettera è quella che ancora non riesco a decifrare. Sono venuto qui per arrampicare o semplicemente per fare una bella vita fra montagne di carta, personaggi incredibili e giardini incantati? Per rispondere ci vorranno anni ancora…

Luca Rampikino Maspes

Luka Rampikino Maspes è nato a Sondrio il 5 agosto 1972. Guida alpina. Ha iniziato l’attività in Val di Mello nel 1987.
In Valle è stato un arrampicatore tutto terreni. Prima di dedicarsi all’alpinismo extraeuropeo, ancora giovane, ha ripetuto le vie più difficili. Ha gustato lo stile “suicida” del periodo e aperto una decina di itinerari sia a spit, sia tradizionali, dedicandosi anche alle solitarie più impegnative (prima solitaria della Spada nella roccia al Qualido), al bouldering e alla scoperta delle cascate di ghiaccio e vie di misto. Oggi prosegue con il suo alpinismo a tempo pieno.

Sguardo invernale dalle cascate di ghiaccio dell’Alpe Pioda. Foto: Andrea Gallo.
Jim Bridwell
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