di Ledo Stefanini
L’iniziativa editoriale del Corriere della Sera dedicata alla Storia dell’Alpinismo, a cura di Alessandro Gogna, con il 25° volume settimanale è giunta al termine, il che consente una valutazione della struttura culturale su cui si regge l’operazione. Innanzitutto, possiamo affermare che un’opera di tale vastità, può ambire a svolgere la funzione di summa storica dell’alpinismo come fenomeno planetario, e rappresenterà in futuro il principale riferimento di coloro che si occuperanno di questo tema caratterizzato da una sterminata varietà di connotazioni locali e temporali. Apprezzabile è indubbiamente l’acribia con cui il gruppo di collaboratori all’impresa ha curato le singole biografie alpinistiche dei vari personaggi che, in tempi e luoghi diversi, si sono distinti per le loro imprese. Il lettore trova nell’opera, divisi per fascicoli, i pionieri, le grandi realizzazioni sulle Occidentali e in Dolomiti, le Nord e le Invernali, il Sesto grado classico e il Settimo, le Alpi e la Patagonia, senza trascurare l’alpinismo sovietico, quello femminile, l’Himalaya e lo Yosemite.
Un’opera che implementa la grande Enciclopedia della Montagna pubblicata da De Agostini fra il 1975 e il 1977 in prima edizione. La differenza fra le due opere non è solo di carattere temporale, nel senso che molte trasformazioni sono avvenute, da allora, in campo alpinistico; ma anche nell’ampiezza dello spettro dei temi affrontati. Per essere più precisi, l’Enciclopedia della Montagna dedicava spazio a tutte le voci riferibili all’ambiente alpino, quindi all’alpinismo, in tutte le accezioni, ma anche allo sci, all’orografia, alla formazione delle valanghe, ecc. Per contro, come indicato dal titolo, l’opera diretta da Gogna è interamente dedicata all’alpinismo e solo a quello, cosa che riduce l’ampiezza di campo. Ma solo in apparenza. Quando gli intellettuali si occupavano di scuola e, in particolare dell’insegnamento della storia, la critica principale ai manuali era proprio l’articolo che veniva associato al sostantivo “storia”. Si avanzava con ricchezza di argomentazioni, che “la” storia non poteva essere solo quella dei grandi uomini e delle battaglie, in quanto alla storia dell’umanità contribuisce anche il cuoco di Napoleone. Non ci risulta che Bertold Brecht abbia mai praticato l’alpinismo; ma, comunque, ci piace indossarne i panni letterari per riportare le ingenue domande del praticante domenicale: «Chi costruì i campi base degli 8000? Dentro i libri ci sono i nomi dei conquistatori dei monti. Sono stati loro a portare i pesanti carichi?».
Ma questo è solo un aspetto secondario della questione. Il nocciolo vero è che è impossibile isolare l’alpinismo dal contesto storico dell’ambiente culturale in cui è inserito, che incuba la nascita e le forme del suo sviluppo. Le grandi domande schivate da questa – come da altre Storie dell’Alpinismo – sono il contesto culturale che ne ha determinato la nascita nell’Inghilterra della metà dell’800, perché ha assunto forme nettamente difformi presso il Paesi di lingua tedesca; perché si è presentato sotto un aspetto completamente nuovo in Germania, dopo la Grande Guerra; perché ancora nuovo nella California degli anni Sessanta, e così via. La verità è che l’alpinismo, in qualunque forma declinato, non può essere ridotto alle imprese; anzi il termine stesso di “impresa alpinistica” è privo di significato quando sia isolato dalla rete socio-culturale di cui è espressione. A partire dalla fine dell’800 molti autori si cimentarono con la storia delle scienze: la fisica, la chimica, la biologia, ecc. Solo dopo la guerra qualcuno si rese conto che la storia di ogni scienza non può essere strettamente interna: che non è possibile comprendere l’evoluzione della termodinamica e dell’elettromagnetismo se non in relazione alle altre scienze e alle condizioni economiche, industriali e culturali dell’ambiente che l’ha espressa. Per essere precisi, che la sintesi di Maxwell non scaturisce esclusivamente dalla superiori capacità intellettuali dello scienziato scozzese, ma anche dai modi di produzione industriale che connotano l’Inghilterra Vittoriana. E che non è puramente casuale il fatto che il saggio in cui Maxwell esponeva la sua sintesi dei fenomeni elettromagnetici sia lo stesso in cui Edward Whymper raggiungeva la vetta del Cervino. Così come all’esplosione dell’alpinismo tedesco negli anni Venti del XX secolo non è estraneo il disastro militare e politico della Grande Guerra.
Compito dello storico è mettere in luce i più o meno sottili legami che uniscono le manifestazioni culturali che caratterizzano un’epoca e un Paese. Ogni espressione alpinistica non è solo “impresa”; ma espressione di una poetica culturale. Alla fine del secolo scorso alcuni tra i più avanzati filosofi della scienza coniarono il concetto di “incommensurabilità” che esprime il concetto della non confrontabilità delle varie teorie, anche quando hanno per oggetto lo stesso campo fenomenico. La chimica di Lavoisier non è inferiore alla chimica di Pauli: ogni teoria è valida nel proprio ambito. Analogamente, nell’alpinismo non c’è nessuna linea rossa che segni una sorta di teleologia, una tendenza assegnata verso “magnifiche sorti e progressive”. Così come I promessi sposi furono incubatrice di molti “manzoniani che tirano quattro paghe per il lesso”, tali furono le imprese che seguirono a quelle che non aprirono solo una via; ma una nuova poetica alpinistica, alla quale concorrevano mutamenti tecnologici oltre che culturali. L’invernale alla Soldà in Marmolada di Hermann Buhl e Kuno Rainer nel marzo del 1950, diede l’avvio ad una lunghissima serie di imprese analoghe. È illusorio pensare che di queste si possa trovare ragione solo all’interno della “repubblica degli alpinisti”. L’alpinismo, in qualunque modo lo si voglia intendere, è una manifestazione culturale di un gruppo sociale. Che si tratti dei gentlemen vittoriani, inventori dello sport, della nobiltà mitteleuropea, dei giovani privi di prospettive dopo la Grande Guerra, dei disoccupati inglesi o dei seguaci americani di Jack Kerouac degli anni Settanta, sempre il loro alpinismo è espressione di una cultura di gruppo. Qualche volta, ma non sempre, è espressione di disagio sociale che assume le forme della contestazione culturale, e si manifesta attraverso la “conquista dell’inutile”. I regimi totalitari hanno cercato di intestarsi anche questa manifestazione di affermazione personale, indirizzandola al proprio vantaggio politico; ma ciò ha riguardato tutte le manifestazioni artistiche. La creazione dei miti è affare complesso come dimostrano gli approfonditi studi storici sulla costruzione delle immagini popolari di grandi scienziati (Albert Einstein in primo luogo) o romanzieri o musicisti.
Un postulato sotterraneo ma diffuso è che per la storia dell’alpinismo valga una sorta di Principio Antropico, in base al quale l’evoluzione storica è diretta al raggiungimento del fine ultimo rappresentato dalla forma che l’alpinismo ha qui e ora, seppure nelle forme differenziate attualmente imperanti. Su di esso si fonda la convinzione che le innumerevoli forme dell’alpinismo del passato non fossero che prodromi della sintesi alpinistica attuale, codificata nei modi e nelle forme da chi dispone del potere di farlo. Da cui discende la convinzione che quello esaltato e fissato nelle riviste e nei festival sia il solo degno del nome: una forma di pensiero che rende reale l’ottimistico assunto di Pangloss: il migliore degli alpinismi possibile.
Non condivido assolutamente le considerazioni espresse in questo testo, anche se alcuni risvolti sono interessanti e arguti.
La scelta strategica nell’impostazione della Collana è la sua peculiarità e il suo carettere innovativo. Ripercorrere cronologicamente la successione degli eventi alpinistici, dai gentelman vittoriani fino ai nostri giorni, non sarebbe stato altro che riproporre, con data 2022-23, testi che sono già stati diffusi diversi decenni fa (penso allopera di G.P. Motti, a cavallo fra ’70 e ’80).
Viceversa questa innovativa impostazione (per “temi” autonomie non per sviluppo cronologico complessivo) ha permesso di andare a perlustrare risvolti delle vicende alpinistiche che non sono noti (o, quanto meno, non sono noti a tutti) come l’alpinismo russo, la tradizione slava, l’evoluzione dei materiali.
Anche temi già affrontati nel recente passato (a volte dagli stessi autori, alte volte no) qui sono stati oggetto di analisi molto più approfondite e peculiari. Penso ad argomenti quali “guide e clienti, “l’era dei senza guide”, “la scuola di Monaco”. lo stesso vale per ile diverse sfaccettature riferite al grande tema degli 8000.
Infine una citazione particolare merita il volume dedicato allo sci e snowboard estremi, davvero senza precedenti come completezza e profondità di analisi.