di Smaranda Chifu
(pubblicato su smarandachifu.com il 2 febbraio 2020)
Sì, sono iscritta al CAI. Anzi, vi dirò di peggio, ho iniziato ad andare in montagna grazie al CAI, è successo tutto come un incidente, di quelli dei film d’azione che poi rivedi a rallentatore. Mi hanno detto di andare a provare ad arrampicare in una palestra brianzola, ci sono andata tre volte, era divertente, ho conosciuto Uno, Uno era Michele istruttore di una scuola di alpinismo, che roba è una scuola di alpinismo?, no guarda facciamo cose fighe, andiamo sul Rosa (che c’ha ottocento cime e manco lo sapevo all’epoca e mi era sembrata una cosa bellissima invece ora semplicemente non me ne importa poi tanto, ma al CAI le cime piacciono come ai militari le medagliette, come ai bambini le stelline sul petto, come piace a me rincorrere vie impossibili che non portano da nessuna parte). Dai, iscriviti al corso, sì che figata, voglio venire anche io in cima (?) al Rosa, chi l’avrebbe mai detto che invece ora sorrido al collezionismo dei quattromila, mentre io ho in mente una fessura di cui non gliene frega nulla a nessuno, ma che non vedo l’ora di andare a fare. Sì, sono iscritta al CAI, faccio parte dell’organico di una scuola di alpinismo (la Mario dell’Oro di Carate Brianza), ogni tanto vorrei ucciderli tutti e ogni tanto mi mancano come l’aria, il più delle volte invece semplicemente mi sento a casa e mi rendo conto che ho trovato il mio posto, anzi, che il CAI ha trovato il suo posto nel mio cuore.
Ieri sono andata a fare ghiaccio il Val Febbraro. Anzi, nell’ordine, sono uscita a cena venerdì, mi sono svegliata con un’indigestione da trentenne in stato avanzato di degrado fisico, sono andata a sciare nel bianco dipinto di nebbia sabato, ho conosciuto una donna meravigliosa che con la sua voglia di sciare ha reso quella nebbia un posto stupendo, perché l’importante sono le persone, alla lunga lo capiscono tutti, ma capirlo prima ti risparmia un po’ di lividi nel cuore e ieri sono tornata a fare ghiaccio in Val Febbraro insieme a una decina di persone della mia scuola di alpinismo, una caianata di dimensioni spaziali. Ci mancava solo la sveglia alle tre, per partito preso del CAI. Perché non si parte mai dopo le tre, nel CAI, nemmeno se stai andando a mangiare la polenta. In montagna si va presto, punto. Ma stiamo solo andando a fare tre tiri a resinati con cento metri di dislivello di avvicinamento, non importa, tu ti alzi alle tre, fai l’avvicinamento con dietro trentacinque rinvii (i tiri hanno ciascuno venti metri e dieci resinati). Come dieci resinati in venti metri? Ma è più di IV? Ma lo sai che muori? Allora trentacinque rinvii e tre serie di friend, vecchi, più la coperta termica metti che devi bivaccare. Ma c’è il rifugio. Metti che devi bivaccare fuori dal rifugio? A volte li vorrei uccidere tutti. Invece mi sono proprio affezionata.
Inutile, il CAI è così, che poi cosa sfotto, che appena leggo nella stessa frase “VI, fessura leggermente strapiombante da proteggere” mi porto dietro nello zaino anche i sassi da incastrarci dentro.
Comunque dico “tornata” in Val Febbraro perché c’ero già stata, un anno fa circa, a fare il Salto del Nido, in una giornata mentre nevicava, con la cascata che era interamente coperta da un doppio strato di croste da pulire, di cui ho un ricordo amaro. Non delle croste eh, anche, ma perché mi sono resa conto ieri mentre l’ho rivista che nemmeno me la ricordavo bene. Adriano Selva, che non è proprio uno che se la cavi poco in montagna, era lì ieri a farla e si sono calati dopo due tiri perché sopra era una cascata sì ma di acqua, comunque l’ultimo tiro, quando si forma, è un bel IV+/V legnoso, ma mi hanno stupita i tiri sotto. Me li ricordavo verticali, duri. Non erano i tiri che mi ricordavo, mi ricordavo la persona che li aveva resi impossibili, mi ricordavo quanto mi fossi sentita inadeguata ma non era la cascata che mi ricordavo, era la giornata, la prepotenza, mi ricordavo la sensazione. Perché le giornate brutte in montagna ci sono eccome e no, non sono quelle in cui si torna a casa a mani vuote, ma anche questo l’ho capito col tempo. E invece i primi tiri, a guardarli ieri, magari tremando, li farei volentieri io, comunque il Salto del Nido è proprio una bellissima cascata, peccato quest’anno non sia formata. L’importante, comunque, sono le persone.
Noi ieri siamo andati a fare i canali prima del Nido. Nel dividerci, Antonio ha preso le persone che non avevano mai provato a fare ghiaccio prima e sono andati a fare il Primo Canale del Nido, mentre io mi sono legata con Marchino (che c’ha 40 anni nonostante l’”ino”) e dietro di noi Carletto (che c’ha 50 anni nonostante l’”etto”) e Annalisa e siamo andati a farne una di fianco, a dirla tutta nemmeno abbiamo capito quale. Siamo finiti nel nostro canale, isolati, in questo clima surreale. Abbiamo fatto quattro tiri facili, nulla a che vedere con la bellezza del Nido, ma nulla nemmeno a che vedere con quel ricordo amaro. Tiri facili ma che un anno fa non li avrei comunque fatti da prima, invece ieri sì e ho pure chiesto a Marchino di lasciarmi anche l’ultimo tiro, un muretto con un’uscita verticale seppur corta. La giornata mi è sembrata una cura, in un momento in cui ne avevo bisogno. Capisco anche di cosa avevo bisogno, avevo bisogno della mia famiglia, di quelli che ti vogliono bene anche se metti dieci chiodi in dieci metri di III di ghiaccio. Avevo bisogno di ricordarmi che le cose non sono impossibili, le cose semplicemente si imparano.
Come un flash, in un momento di quelli che posso aver notato solo io, in un cambio mano sulla picca su un piccolo traverso, da prima, quando spontaneamente, come un riflesso condizionato, mi sono appoggiata la picca sulla spalla e mi sono spostata bene, calma, con un movimento che non avrei saputo fare prima, senza troppa paura, una frazione di secondo che è diventata eterna dentro di me, che mentre ho spostato la mano ho sorriso, un ricordo bello, improvvisamente più forte di quello di un anno fa.
Era febbraio 2018 quando sono andata a sbattere contro il CAI, in un corso di alpinismo, no guarda non ho mai scalato prima, so fare un otto, l’ho imparato in prima elementare, ah è un nodo, no scusa non sto capendo nulla, se ho mai fatto esperienze alpinistiche? Vado a camminare in montagna, cos’è una via? In che senso si scala anche su ghiaccio? Chi era Bonatti? Luna Nascente? La doppia nel vuoto dal Fungo in lacrime, con Ange, a sua volta in lacrime a vedermi così imbranata. Carletto, ieri con me su una cascata di ghiaccio, che mi aveva portata a fare la mia prima via in assoluto, da seconda. Le cose cambiano, le persone crescono, le famiglie restano. Diventando adulti abbiamo tutti bisogno della stessa cosa, di avere persone che superino la prova del tempo, che restino nella nostra vita.
Poi è tutto un film fatto di flash, di sezioni di memoria che a vederle ora mi fanno venire la vertigine. Il corso, la prima via a comando alternato, la seconda, la decima, la cinquantesima, il primo friend, la prima doppia di merda che mi si è incastrata, ogni parete nuova, la fine del corso e quel senso di vuoto, che non avevo proprio idea di come sarebbe andata dopo, se sarebbe andata proprio. La mia passione, una macchia d’olio che si espande sul filo dell’acqua, non capire proprio cosa potessi essere io e cosa potesse essere il CAI per me.
Quando nella scuola ci sono rimasta, me lo ricordo.
Quando ho preparato una lezione di storia dell’alpinismo e mi sono resa conto che erano tutte cose che un anno prima non conoscevo nemmeno io. E non vedo l’ora di conoscerne di nuove perché ho solo iniziato e anche tra dieci anni, avrò comunque sempre solo iniziato. Quando un allievo mi ha ringraziato in privato dicendomi che mai avrebbe pensato che una tediosa lezione di storia potesse essere interessante. Quando l’Alessia si è fidata a fare la sua prima doppia grazie a me, che se m’avesse vista appesa nel vuoto sul Fungo in lacrime magari ci avrebbe creduto di più, che è tutto un percorso, non nasce imparato nessuno. Quando ho passato mezz’ora sul tiro di fianco ad un’allieva in falesia per farle fare un 5c da prima ed era felice come una Pasqua, quando mi ha ringraziata e mi sono resa conto che ha imparato lei ma soprattutto, che ho imparato io.
Il CAI e una scuola di alpinismo in particolare per me non è un posto dove rimanere a vita, è un posto dal quale partire, navigare, fare giri immensi e poi tornare, con un racconto, con qualcosa da dare, da restituire, a ricordare. Perché comunque per quanta strada, sempre in salita, ci sia ancora da fare, io ogni volta che metto piede in quel posto e tra quelle persone me lo ricordo che non sapevo nemmeno fare l’otto e mi rivedo nei loro occhi, che mi hanno vista imparare a farmi un barcaiolo, a sbagliare sosta, sbagliare tiro, sbagliare manovra, sbagliare approccio, sbagliare e basta. Che mi hanno vista felice come una bambina, che in me ci hanno creduto un po’, che quando sono andata in giro a tirare la coperta corta mi hanno chiesto com’è andata, con la voce della mamma che vorrebbe dire una parola in più e si limita a respirare profondamente e ricordarti di fare attenzione, una scuola di alpinismo è un porto. Ma questo l’ho capito dopo, che i porti sono porti e il mare è mare e nel mare bisogna saper navigare, i porti servono per rifornirsi e avere un posto in cui tornare. Le persone che mi hanno vista crescere, che lo fanno tutt’ora, io che una sosta su ghiaccio mia non l’avevo mai fatta e ieri mi sono curata, ne ho fatte ben tre, ci ho quasi preso il vizio, erano belle, le ho fotografate perché erano davvero belle, ci si è appeso serenamente il Marchino che mi ha lasciato le sue picche e s’è tenuto quelle vecchie dell’Antonio, che comunque l’Antonio le aveva usate per fare il Mostro in Val d’Avers, il Mostro, io sto zitta che è meglio, con dieci chiodi Black Diamond su dieci metri di saltelli di ghiaccio.
Sì, sono iscritta al CAI, faccio parte di una scuola bellissima piena di personaggi folcloristici e di casi umani. Nella mia scuola di alpinismo, come in tutte le scuole, c’è di tutto, c’è quello che saltava i fossi per la lunga ma per davvero, c’è quello che s’è appeso sui bong e oggi non ne vuole più sapere (giustamente), quello che ha aperto vie in tutto l’arco alpino e forse s’è saziato ma comunque ti stampa in faccia il 6c, di scaldo, con l’umidità e le scarpe di avvicinamento se vuole, ci sono quelli che sciano e su roccia non vanno, quelli che il V grado sono le colonne di Ercole e oltre c’è l’ignoto, non si va, è vietato, quelli che farebbero qualsiasi canale marcio delle Orobie, con sveglia alle tre, rigorosamente. Quelli che non scalano proprio ma se non ci fossero non saremmo in grado di trovarci il culo con due mani perché organizzano, sistemano, tengono tutto insieme. Nella mia scuola di alpinismo ci siamo offesi a turno tutti, abbiamo discusso, abbiamo fatto ognuno di testa propria, a turno, ma ognuno ha dato qualcosa agli altri. Ognuno ha il suo posto e il suo ruolo, non so ancora quale sia il mio ma pian piano ho capito qual è il ruolo della mia scuola per me.
E continuo a imparare, lato mio, alla mamma ho smesso di dire con chi esco e dove vado e che ora torno, su cosa mi calo e quante protezioni metto. Ma che belle le famiglie. Ma che belle le soste su ghiaccio, che belle le persone e i casi umani, che bello insegnare qualcosa, togliere un po’ di paura, trasformare l’impossibile in impegnativo, credere in qualcuno soprattutto quando non lo fa lui, spendersi, regalarsi senza mai svuotarsi.
Comunque non mi alzo mai alle tre, se non strettamente indispensabile.
Comunque a volte porto poco materiale dietro per arroganza e tracotanza e se non mi serve nulla di ciò che non ho portato penso, come un’adolescente orgogliosa, “tzè, avevo ragione io!” e godo come un riccio e mi sento proprio un’adolescente, orgogliosa e scema.
Comunque ho il rifiuto di quasi tutte le normali e delle cime famose per partito preso e piacere dell’opposizione.
Comunque metà della gente che c’è nella mia scuola di alpinismo mi darebbe la merda facile. E l’altra metà me l’ha già data.
E comunque ho fatto un’altra cascata!
Chi sono
Ho sempre pensato che i racconti fossero ciò che di più bello possiamo avere, perché a differenza dei ricordi, i racconti trasportano persone e luoghi, trasmettono qualcosa, ispirano e rimangono, mentre i ricordi sono solo una pelle morta delle cose. Sono una persona fortunata, sono piena di racconti.
Ho 29 anni, mi chiamo Smaranda (non è uno scherzo, nè un nickname), vivo in Brianza dopo aver vissuto in parecchi paesi diversi, non stavo mai ferma da bambina e non riesco a farlo nemmeno ora, quando sono felice sono felice più degli altri e quando qualcosa va male, sono triste il doppio.
Ho iniziato a vivere la montagna circa cinque anni fa, per quattro anni è stata solo escursionismo. Poi è successo qualcosa, un paio di incontri, una fiammella accesa nel momento giusto ed è diventata enorme, di più, è diventata cordata, è diventata roccia, è diventata polvere sotto gli sci, una cresta affilata o una tenda nel bosco, un modo per esprimermi, al meglio e anche al peggio, è diventata un ritornello, una costante, un modo per crescere.
E’ diventata un racconto.
Bello, il racconto.
Anche perché è totalmente contro l’idea che possa esistere un modello didattico del Cai e che tutti lo debbano osservare rigidamente.
Da Ragusa al Brennero.