Iniezioni di denaro pubblico per stazioni, nei casi più assurdi, che non arrivano nemmeno a mille metri di quota. Ma anche investimenti in comprensori sciistici già chiusi in passato proprio per la mancanza di precipitazioni. La politica italiana, da Nord a Sud, fa finta che i cambiamenti climatici non esistano e impiega soldi per progetti che definire “discutibili” è poco. Mentre i costi per produrre la neve artificiale sono in crescita. Ecco i casi più eclatanti.
Investimenti per lo sci con zero neve
di Alberto Marzocchi (a.marzocchi@ilfattoquotidiano.it)
(pubblicato su ilfattoquotidiano.it del 10 marzo 2023)
Una lingua bianca che, vista da valle, si inerpica a fatica tra abetaie e prati già brulli, giallo-marrone, fino alla stazione di arrivo della seggiovia. Salvo rare eccezioni, è la fotografia dei comprensori sciistici italiani: chi ha aperto, lo ha potuto fare soltanto grazie alla neve programmata (o artificiale). Perché quella dal cielo, per il secondo anno consecutivo, non è arrivata (sugli Appennini tosco-emiliani, per esempio, la stagione è cominciata da metà gennaio). Ma non c’è solo la siccità a colpire la montagna, dove in certe zone l’acqua è finita e la si deve far arrivare con i camion. Ci sono anche le temperature record, che ad alta quota crescono più del doppio rispetto alla media: a Breuil-Cervinia, a Livigno, all’Aprica, sull’Abetone, a Santa Caterina, le colonnine hanno registrato un incremento tra i 3 i 4 gradi in 50 anni. In decine di altre località montane, la crescita è stata tra i 2 i 3 gradi.
Eppure la politica – Stato, Regioni, comunità montane – continua a investire milioni di euro in località a bassa quota dove, in pratica, l’attività dello sci alpino (e dello snowboard) già oggi non ha futuro, se non grazie a una sorta di “accanimento terapeutico”. Tradotto: grazie a costanti iniezioni di denaro pubblico. Che, in prospettiva, dovranno farsi via via più consistenti, se alla siccità si sommano i costi, in crescita, per la produzione di neve (due anni fa servivano circa 2 euro per un metro cubo, oggi tra i 3 e i 7 euro). I casi più assurdi coinvolgono località che hanno già conosciuto, nei decenni scorsi, esperienze fallimentari. Dove, cioè, a causa delle modeste altitudini, della mancanza di precipitazioni o dell’esposizione, seggiovie e piste sono state abbandonate. Succede da Nord a Sud. Vediamo i casi più clamorosi.
L’Overlook Hotel e gli impianti a 1100 metri sopra il lago
Soltanto undici anni fa la Regione Lombardia aveva previsto un piano di rilancio per Valle Brembana (Bergamo) e Valsassina (Lecco) dal valore di 40 milioni di euro. A fronte delle mutate condizioni, lo scorso anno il documento è stato aggiornato e si è deciso di scendere a 16 milioni di euro. Nell’investimento rientrano i Piani di Artavaggio, località tra il Lecchese e la Val Taleggio, meta turistica di riferimento per gli sciatori della provincia e di Milano negli anni Settanta e Ottanta. A causa della scarsità di neve, nei primi anni Duemila gli impianti in quota (circa 1600 metri) vennero abbandonati e smantellati. Da allora i Piani di Artavaggio si sono trasformati in una destinazione per ciaspolatori, sciatori con le pelli ed escursionisti. Ora, però, la Regione punta a costruire una nuova seggiovia (l’impianto di innevamento è stato ultimato lo scorso anno) che dovrebbe usufruire, tra le altre cose, dei soldi del Pnrr. L’operazione – si fatica a comprenderne le ragioni – è stata venduta come “complementare” agli interventi per le Olimpiadi di Milano-Cortina. Testimone dei tempi andati – e monito per quelli futuri – tra i prati si staglia l’ex Albergo degli sciatori: un ecomostro in stile Overlook Hotel ma in scala ridotta, di cinque piani, costruito nel 1975 e chiuso da 20 anni. Il proprietario lo ha messo in vendita – “svendita”, per usare le sue parole – per 2 milioni di euro. Qualcuno lo ha voluto? No, è ancora lì, con le finestre sbarrate.
A poco più di 50 chilometri, per la precisione nel Triangolo lariano, tra i due rami del lago di Como, è previsto un progetto di “rilancio turistico” che ha dell’incredibile. Il ministero dell’Interno ha stanziato tre milioni di euro al Comune di Bellagio, a cui si aggiungono un milione dalla Regione Lombardia e uno dalla comunità montana locale, per tapis-roulant, impianti di risalita e cannoni sparaneve per il Monte San Primo. Tutto bellissimo, se non fosse che le piste si svilupperebbero tra i 1100 e i 1300 metri sul livello del mare. Anche qui, come nel caso dei Piani di Artavaggio, esistevano impianti a fune, poi abbandonati per la mancanza di neve. Ora circa 30 associazioni si sono riunite nel comitato “Salviamo il Monte San Primo” per chiedere alle istituzioni di stralciare – o quanto meno, rivedere – il disegno, affinché i finanziamenti vengano destinati per “interventi di salvaguardia della naturalità dei luoghi e per agevolare una fruizione dolce – si legge in un documento rivolto ai politici locali – insieme a progetti paesaggistici che conservino l’ambiente montano in maniera sostenibile“.
Il caso Friuli-Venezia Giulia
La Regione guidata da Massimiliano Fedriga merita un capitolo a parte. Dalle Alpi e Prealpi Carniche fino alle Giulie, sono previsti (o già finanziati) lavori a bassa e bassissima quota, addirittura sotto i mille metri di altitudine. Il caso più emblematico è quello di Tarvisio. La variante al piano urbanistico comunale ha messo nero su bianco la realizzazione di una pista, lungo il Monte Florianca, che arriva fino alla Piana dell’Angelo. Vale a dire, a 780 metri di quota. Lì c’è il ristorante Al vecchio skilift, di proprietà del vicepresidente del Consiglio regionale, il leghista Stefano Mazzolini. Il costo si aggira intorno ai 2,5 milioni di euro. Per creare il tracciato sarà necessario abbattere un fitto bosco di circa 5-6 ettari.
“In Friuli-Venezia Giulia abbiamo due ordini di problemi – spiega Massimo Moretuzzo, candidato presidente per il centrosinistra alle elezioni del 2-3 aprile, da sempre attento ai problemi legati all’ambiente – il primo è che la maggioranza di destra in Consiglio regionale è fondamentalmente negazionista rispetto ai cambiamenti climatici. Abbiamo avuto un consigliere (Stefano Turchet, Lega, ndr) secondo cui l’attività dell’uomo influirebbe sul surriscaldamento globale ‘come uno starnuto in una tempesta’. O Mazzolini, secondo cui il ghiacciaio della Marmolada si è staccato perché era ‘segnato’, tipo una piastrella. Ho chiesto a Fedriga di condannare queste dichiarazioni, ma non ha mai risposto. Il secondo problema – continua Moretuzzo – riguarda la distribuzione sconsiderata di soldi nelle aree montane da parte della maggioranza, che è arrivata a finanziare la costruzione di impianti di risalita a bassa quota. Si tratta di una gestione sbagliata e poco lungimirante delle risorse pubbliche che, secondo me, risponde più a obiettivi di consenso elettorale piuttosto che all’interesse della collettività”.
A Sella Nevea, sempre sulle Alpi Giulie, c’è un altro caso degno di nota. Tra i 1600 e i 1170 metri di altitudine, negli anni Ottanta, era stata realizzata una pista, sul versante esposto al sole sottostante il Foronon del Buinz, chiamata Slalom, servita da uno skilift. Nonostante l’innevamento artificiale, introdotto negli anni ’90, la pista apriva e chiudeva a seconda delle condizioni meteorologiche, tanto che nel 2006 l’impianto a fune venne smantellato definitivamente e la pista lasciata a se stessa. Ma ora la Regione vuole portare le lancette del tempo indietro di 40 anni e riaprire il tracciato, che sarà servito, stando alla variante al piano urbanistico comunale, da una seggiovia a quattro posti. Domenica 12 Cai, Fridays For Future,Legambiente e Mountain Wilderness si ritrovano in zona sotto lo slogan “basta nuovi impianti”.
Ma a fare scuola – qui bisogna tenersi forte – è il comprensorio Pradibosco. Ci troviamo nella Carnia, alla magra altitudine di 1200 metri sul livello del mare. Qui il primo impianto, costruito nel 1975, è rimasto attivo fino al 2008. Chiuso per otto anni, è stato ristrutturato con una spesa di tre milioni di euro, finanziata dalla comunità montana locale, nel 2016; ma tempesta Vaia e mancanza di gestore hanno fatto sì che entrasse in funzione solo cinque anni dopo la fine dei lavori. Un progetto così fuori dal tempo da diventare, fin da subito, “caso di studio” di BeyondSnow, il piano dell’organismo indipendente internazionale Eurac che punta ad aiutare le stazioni sciistiche e le comunità che orbitano loro intorno a superare la propria dipendenza dalla neve. Insomma, come dice un vecchio proverbio: nessun fiocco di neve cade mai nel posto sbagliato. Lo stesso non si può dire, a quanto pare, per il denaro pubblico.
La fine del modello sci-centrico
Ma i casi di investimenti discutibili, come detto, coinvolgono tutto l’arco alpino e gli Appennini. In Piemonte, per esempio, c’è il comprensorio di Garessio (Cuneo), che un po’ è in funzione e un po’ no. Al di là delle vicissitudini che ha attraversato nel corso degli anni, nel 2023 ha aperto solo a partire dal 28 di gennaio (gli impianti sono a una quota relativamente bassa, dai 1300 ai 2000) e la località risente della vicinanza dal mare. Quest’anno è entrata in funzione una seggiovia, ferma da sette anni, grazie al contributo regionale di 1,5 milioni di euro. Un po’ più a nord-est, in provincia di Biella, c’è la stazione di Bielmonte. Anche qui siamo a un’altitudine scarsa (tra i 1200 e i 1610) e con numerose piste esposte a sud (dunque maggiormente riscaldate dal sole). Nel 2021, nella zona del Monte Cerchio, è stato realizzato un invaso da 10mila litri d’acqua (non moltissimo) per la neve programmata. Per l’accanimento terapeutico destinato alla stazione di sci, Legambiente ha assegnato a Bielmonte la “bandiera nera”.
Lungo l’arco alpino, poi, vanno segnalati i seguenti casi: Bolbeno (Trentino), 6 milioni di euro per il raddoppio delle piste e una seggiovia a una quota che va dai 570 ai 663 metri sul livello del mare; il comprensorio di Kaberlaba, Asiago (Vicenza), che ha un impianto privato (skilift) che verrà demolito (tra i 1000 e i 1150 metri) per lasciare spazio a uno nuovo, al quale si aggiungerà una seggiovia quadriposto e l’impianto di innevamento artificiale per un costo complessivo di 4 milioni di euro; Alpe di Nevegal (Belluno), 1050-1675 metri di quota, sul quale si dovrebbe fare un investimento monstre da 50 milioni di euro (funivia, un nuovo impianto a fune e un albergo) ma non è chiaro chi metterà i soldi. Negli anni scorsi il pubblico ci ha messo 7 milioni di euro, eppure – notizia di questa settimana – l’asta per la gestione degli impianti è andata deserta (e non è la prima volta). Così, ora, dalle parti di Belluno ci si domanda se sia il caso continuare o, al contrario, di chiudere qui l’esperienza.
“Si tratta di iniezioni di denaro pubblico che, oltre a non avere un futuro, non aiutano le comunità e le persone che cercano di sviluppare attività più in linea coi cambiamenti climatici – racconta Vanda Bonardo, naturalista e responsabile Alpi di Legambiente, che ha coordinato la stesura del dossier NeveDiversa – questi investimenti andrebbero fatti per promuovere le buone pratiche, come le cooperative di comunità, grazie alle quali si fa un’impresa maggiormente articolata e che meglio si adatta alle peculiarità, di volta in volta diverse, delle varie zone montane. È chiaro che la transizione, per chi vive in montagna, non sarà indolore, però è altrettanto chiaro che il modello sci-centrico non funzioni più“.
La Guerra sull’Appennino
Di tutti gli esempi di “accanimento terapeutico” sugli Appennini, il più significativo è quello di Corno alle Scale. Ci troviamo nel Comune di Lizzano in Belvedere (Bologna), tra i 1418 e i 1945 metri sul livello del mare, e qui da anni è in corso uno scontro tra ambientalisti, da una parte, e istituzioni, imprenditori e società che gestisce gli impianti, dall’altra, per la costruzione di una nuova seggiovia (Polla-Scaffaiolo) in un luogo protetto (Rete Natura 2000), e di una funivia che collegherebbe Corno alle Scale con Doganaccia, in suolo toscano. Il comprensorio bolognese – famoso perché tra gli anni Ottanta e Novanta vi si allenava Alberto Tomba – ha alcune caratteristiche che non vanno trascurate. La prima, evidente, è che piste e impianti non raggiungono i 2000 metri. Non a caso, quest’anno, a causa della mancanza di precipitazioni e delle alte temperature che non hanno permesso di preparare la stazione con la neve artificiale, il comprensorio ha aperto soltanto il 21 di gennaio. La seconda caratteristica da tenere in considerazione è che l’acquedotto comunale, in una zona già di per sé secca, è un colabrodo, dato che disperde l’80% di acqua (nella zona, la scorsa estate, 50 Comuni sono stati riforniti con le autobotti).
Contro i due progetti si stanno battendo le associazioni ambientaliste. Tanto per rendere l’idea del clima – pardon – della situazione di tensione, al momento c’è un ricorso al Tar contro il primo progetto, ma anche un procedimento giudiziario a carico di attivisti per alcune scritte contro la seggiovia nei comuni di Lizzano e Gaggio Montano. E anche vicende poco chiare, su cui stanno indagando inquirenti e forze dell’ordine, come la manomissione di nove cannoni sparaneve a inizio gennaio, rimpiazzati prontamente dalla società che gestisce gli impianti, il cui presidente, Flavio Roda, è anche presidente della Federazione italiana sport invernali. Sia come sia, per la nuova seggiovia sono stati stanziati, finora, 6 milioni di euro (ma i costi dovrebbero lievitare); per la funivia, invece, governo, Regione Toscana e Regione Emilia-Romagna hanno messo sul piatto 15,7 milioni di euro. Monte Cimone, Corno alle Scale e Abetone, in questo modo, diventerebbero un unico comprensorio. “La neve non è più un dono del cielo. Essa cade esattamente nei posti contrassegnati dalle stazioni invernali”. Viene da pensare che nemmeno l’analogia del filosofo valga più.