di Marcello Cominetti
(pubblicato su marcellocominetti.blogspot.com il 1 aprile 2024)
Al di là del bene fisico che fa camminare su un sentiero di montagna, ho sempre riscontrato che, mentre si è immersi nello sforzo monotono del mettere un piede davanti all’altro, arrivano, come se lo avessimo pensato in anticipo, pensieri positivi e idee.
Lo stesso accade durante le gite scialpinistiche, dove lo sforzo e il movimento durante l’ascesa non si discostano molto da quello che si fa quando si cammina.
Sono entrambe attività che mi succede di svolgere piuttosto spesso, per il mio lavoro di guida alpina o per il mio piacere personale. Non importa quanto questo tipo di attività duri in termini di tempo, ma importa che la partenza sia voluta anche quando la pigrizia suggerirebbe di stendersi sul divano, attività che considero remunerativa al recupero, solo se ci si è stancati prima. Altrimenti la sera avremo un senso di inutilità del vivere che però non è ciò di cui vorrei parlare ora.
I pensieri che si materializzano nella nostra mente mentre camminiamo possono essere di vario tipo, ma ultimamente ce n’è uno che mi ricorre in testa da molte gite, quindi voglio scriverne perché non si sa mai che magari non venga più a visitarmi piacevolmente la mente. In verità, si tratta di pensamenti che ho da decenni, ovvero da quando mio figlio maggiore Tommaso aveva pochi mesi di vita e con sua madre eravamo nella costante ricerca confusa di qualcosa che lo facesse stare bene. Siccome a noi giovani genitori piaceva stare all’aria aperta, anche lui si ritrovava costretto a stare fuori con noi, convinti che fosse una buona occasione per assimilare dalla natura insegnamenti che di molto oltrepassano il semplice, ma indispensabile, respirare aria buona.
Tommaso aveva meno di un anno ma camminava già o comunque si arrangiava a gattonare laddove l’irregolarità del terreno non gli garantiva sufficiente equilibrio. Tra gattonaggio e camminata in posizione eretta o quasi, riusciva a spingersi anche su facili roccette, cespugli, greti di ruscelli e montagnette erbose, grazie al fatto che la nostra sorveglianza non era poi così stretta.
Gli piaceva essere lanciato in aria o sul letto da distanze sempre maggiori, cosa che divertiva anche me, ma un giorno si ruppe un braccio cadendo malamente tra dei cuscini. Glielo ingessarono e non ne fu per nulla felice, tanto che nessuno poteva toccargli il gesso, pena l’essere preso a urla di disprezzo.
I lanci per aria, però, continuavano, perché ci piacevano e ci facevano fare grandi risate.
Realizzai che durante il lancio per aria del bambino, come di qualsiasi altro oggetto, c’è un istante in cui il corpo si ferma nell’aria prima di iniziare a precipitare nuovamente verso il basso. E’ un momento che dura una frazione di secondo, ma si può considerare, pur nella sua brevità, come un momento in cui si è immobili nell’aria. Situazione particolare in cui anche i fluidi del corpo, sensazioni comprese, hanno un cambio netto di direzione o un arresto come di riflessione.
Me ne accorsi perché captai negli occhi di mio figlio come un lampo di meraviglia misto a stupore e saggezza. Quando lo riafferrai sotto le ascelle eravamo felici come sempre, ma notai che qualcosa era successa.
Vedere il mondo da lassù di quell’istante immobile ha sicuramente avuto un suo effetto, che a me è sembrato di universale assorbimento di tutto ciò che ci stava attorno, compreso il senso di sicurezza infuso in mio figlio dalle mie mani che lo riafferravano prima che si schiantasse a terra.
Ho sempre giocato in questo modo con i miei figli perché sono sempre stato certo di riprenderli al volo anche se avrei potuto sbagliare. Sono stato conscio di entrambe le situazioni ma evidentemente la prima ha sempre prevalso sulla seconda, altrimenti avrei evitato.
Penso anche che una manovra simile possa trasmettere in un bambino piccolo una sicurezza interiore che dal genitore transita come per osmosi ai propri figli. Certi genitori non farebbero mai un gioco simile per paura che il pargolo caschi a terra facendosi male, ma questa è un ipotesi che non mi ha mai sfiorato. Non suggerisco a nessuno di farlo se già non gli era venuto in mente naturalmente.
D’altronde, nella vita quante volte capita di dover prendere decisioni che possono avere anche conseguenze estremamente negative? Si tratta della vita stessa e del fatto che nulla arriva gratis, bisogna sempre mettersi in gioco se si vuole ottenere qualcosa a cui si tiene.
Mi sembra che i ragazzi che da piccoli sono stati lanciati in aria dai genitori abbiano qualcosa che li distingue dagli altri. Non lo noto solo nei miei figli, ma anche negli altri che hanno, oppure no, subìto simili trattamenti.
Non potevano opporsi di certo, ma penso che sia stato bene così. Anche mio padre mi lanciava in aria da piccolo. Forse sono caduto.
Grazie per questi frammenti di vita vissuta!
Ho riso alla prima foto con il lancio del bimbo, perché anch’io mi sono sempre divertita, sia a essere lanciata che a lanciare.
Anch’io penso che la fermezza espressa nel gesto sia trasmessa al bimbo, che acquisisce così fiducia nell’altro e gli permette di provare qualcosa di diverso.
Riflessioni interessanti, che servono anche al compiacimento, per chi le fa, di aver fatto una cosa giusta. Stupore negli occhi del figlio certamente, saggezza forse quella che il padre vuole riconoscersi. Comunque un’esperienza esaltante per un bimbo, che nel giro di un niente vive la sensazione di librarsi in volo nel cielo, l’istante di staticità in cui vede ed è “padrone del mondo”, la discesa con il misto di paura dello schianto annullata dalle braccia protese a salvarlo e la certezza (dopo la prima volta) di essere prigioniero di un gesto d’amore, di un rifugio su cui poter contare.
Paolo, le tue parole più sagge delle mie. Grazie.
Ho sempre lanciato in aria il primo figlio, Matteo, e il secondo, Tomaso. Divertiva loro che emettevano strilli di eccitazione e di gioia e anche me; non mi ha mai neanche sfiorato l’idea che potesse schiantarsi a terra. Una volta conobbi una specie di mostro che diceva ai figli di buttarsi e poi non li prendeva – magari da non grandi altezze – e diceva che così avrebbero imparato a non fidarsi di nessuno…
Anche io trovo che se si cammina o si sale con gli sci la monotonia del movimento fa nascere idee che attendevano di essere evocate. Non mi capita mai arrampicando, per ragioni che credo ovvie.
Credo che ci siano fior studi psicologici e comportamentali sul “lancio dei figli”, per spiegare perché siano in gran maggioranza gli uomini a farlo e del significato della cosa…ma tanto non li conosco 🙂
Nelle mie figlie però riscontro differenze notevoli, benché abbiano goduto entrambe di un mucchio di lanci, quindi non so quanto possa essere valida la teoria espressa nelle ultime righe
Grazie papà per avermi presa sempre in tempo!