di Ugo Manera
(relazione al Convegno-Dibattito CAI Cuneo del 13 febbraio 2007)
E’ il quesito che hanno posto l’associazione Le Alpi del Sole ed il Parco delle Alpi Marittime agli alpinisti, escursionisti e professionisti della montagna nel convegno- dibattito svoltosi presso la sede del CAI Cuneo il 13 febbraio 2007. L’iniziativa ha fatto seguito alla rimozione, voluta dal Parco, degli ancoraggi fissi su itinerari di arrampicata lungo rocce ove dimorano specie vegetali protette.
Domanda legittima da parte di chi è preposto alla tutela e conservazione di un parco naturale ed è meritorio il fatto che sia stata proposta promovendo un confronto con scalatori ed escursionisti da parte di chi potrebbe anche legiferare a tavolino imponendo regole e divieti.
Il quesito è breve ma gli argomenti che ne vengono investiti sono vari e toccano interessi che possono apparire in contrasto tra di loro per cui sembra difficile trovare dei compromessi soddisfacenti per tutte le parti interessate. Per salvaguardare e preservare nel tempo il territorio posto sotto la tutela del parco, occorrono inevitabilmente delle regole e delle limitazioni e gli scalatori, che ne sono tra principali frequentatori, sono per loro natura portati ad operare nella totale libertà essendo uno dei motori dell’alpinismo stesso la fuga dai vincoli che la vita normale impone ogni giorno.

Da una parte vi è chi opera, o crede di operare, in modo corretto per salvaguardare il territorio proteggendo sia le strutture che lo compongono sia ogni forma di vita animale e vegetale che su di esse prolifera. Dall’altra c’è chi ha necessità di usufruire con la massima libertà delle strutture rocciose, siano esse falesie di bassa quota che pareti di alta montagna.
Apparentemente gli interessi sembrano contrapposti ma è probabile che sotto alcuni aspetti coincidano e che invece di produrre insanabili conflitti possano sfociare in forme di collaborazione costruttiva. Per tendere a questo obiettivo io credo si debba lasciare cadere il radicalismo nell’affrontare la questione, ogni forma estremistica, in ogni campo, credo produca solo dei danni e non porti a nessun risultato positivo.
Se guardiamo agli esempi che abbiamo nel nostro paese, notiamo che gli ambientalisti estremi non vogliono scendere a nessun compromesso: no alle centrali, no alle pale eoliche perché deturpano il paesaggio, no agli inceneritori di rifiuti, no alle discariche, no agli impianti di telefonia mobile, no alla pulizia delle rive dei fiumi. Intanto gli stessi usano il telefonino, la televisione, auto sempre più grandi ed i rifiuti, almeno in alcune regioni, rimangono per strada o finiscono in discariche abusive. Tutti si ricordano della disastrosa alluvione del 1994 quando ammassi di alberi cresciuti negli alvei contribuirono alla distruzione di molti ponti del Tanaro.
Stesso discorso vale per gli animalisti sviscerati, così abbiamo città e monumenti imbrattati dal guano dei colombi e sovrappopolazioni di animali selvatici che, oltre a danni alle culture, finiscono di produrre danno alla stessa specie che si vuole iper proteggere.
Ma ritorniamo al nostro problema cominciando dalle pareti a bassa quota, le cosiddette “falesie” dall’italianizzazione della terminologia originaria francese. Su queste strutture, ove si pratica l’arrampicata sportiva, non c’è più un conflitto sull’etica legato all’uso dello “spit” o del fittone resinato che oggi sono universalmente accettati. Sulle grandi pareti invece è opportuna l’indicazione che le vie nuove vengano aperte salendo dal basso, che il trapano venga usato da chi è capace di aprire belle vie e non da chi fa solo danno sprecando aree di roccia per itinerari brutti e privi di interesse, che non si scavi la roccia per creare degli appigli artificiali. Ma tutto questo non lo si può imporre, dipende dal senso etico a dal grado di maturità dell’apritore.
Sulle falesie c’è il problema della nidificazione degli uccelli e (l’ho appreso nel corso del convegno) della salvaguardia di vegetali rari. Da un’altra parte c’è invece il diritto dello scalatore di usufruire della roccia per la sua attività sportiva. Per lo sport si creano stadi, piste e strutture galattiche, spesso con gravi danni all’ambiente; ne è esempio lo scempio in montagna derivato dallo sci di pista. Non vedo perché si debba negare l’arrampicata ove c’è della bella roccia sfruttabile. Esiste sicuramente un punto d’incontro che soddisfa tutti. Spesso regole e divieti nascono a tavolino sotto la spinta di chi ha più voce (sovente minoranze politicizzate e molto aggressive) mentre gli arrampicatori vengono quasi sempre ignorati perché poco rumorosi.
Innanzitutto è proprio vero che gli uccelli temono gli arrampicatori? Ai Mallos de Riglos e nelle Gorges de la Jonte ho arrampicato circondato da enormi avvoltoi che si facevano un baffo della mia presenza. Se è proprio così invece, allora si coinvolgano gli scalatori nella scelta dei luoghi da riservare ai volatili o ad altri animali ed il risultato sarà certamente positivo perché la salvaguardia dell’ambiente quasi sempre sta a cuore anche allo scalatore. A proposito di altri animali ed in altre zone, trovo ridicolo il divieto di scalare le cascate gelate della Val Troncea per non disturbare animali che cominciano a rappresentare il problema della sovrappopolazione.
Andiamo un po’ più in alto, sulle pareti dell’alta montagna; qui mi pare non ci sia il conflitto con la fauna o la flora. L’alpinista però, tracciando vie di arrampicata e ripetendole successivamente, provoca delle modifiche, anche se piccole, alla struttura naturale (roccia) che ci ha lasciato l’evoluzione geologica. Le modifiche si traducono principalmente nei residui che gli scalatori lasciano in parete: chiodi da roccia e spezzoni di corda per le vie di stampo classico, spit, fix e catene alle soste per vie aperte nell’ottica della moderna arrampicata sportiva. Il problema di tali residui che, almeno in parte, sono indispensabili per la scalata, investe innanzitutto il senso etico dello scalatore ma non può essere ignorato da chi ha la responsabilità di un parco alpino e che deve cercare di limitare al massimo ogni modifica all’ambiente naturale, anche la meno appariscente.
Si è provato in alcuni casi ad obbligare lo scalatore ad asportare salendo tutto ciò che era stato usato nella scalata, e questo va bene per vie che contano pochissime ripetizioni (sulle numerose vie che ho aperto in montagna ho sempre tolto tutti i chiodi impiegati salvo quelli che si sarebbero sicuramente rotti nell’estrazione) ma non va più bene sulle vie che diventano classiche e contano moltissime ripetizioni: la continua infissione ed estrazione dei chiodi, ad esempio, provocherebbe il danneggiamento delle fessure naturali o il loro intasamento con spezzoni di chiodi rotti. E’ ben vero che oggi esistono protezioni amovibili (blocchetti ad incastro e friend) ma queste non hanno un impiego universale ed in molti casi una buona sicurezza la si ottiene solo con ottimi chiodi da roccia.
Quale è la soluzione ottimale allora? A questa ricerca bisogna premettere che la sicurezza assoluta nell’alpinismo non esiste, chi non vuol prendersi nessun rischio è meglio si dedichi ad un’altra attività, è doveroso però per lo scalatore puntare al massimo della sicurezza possibile, per sé e per gli altri. Cerchiamo allora di scoprire come si può puntare a questo obiettivo senza snaturare l’essenza stessa dell’alpinismo che è avventura e rispetto della tradizione, il tutto condito con un pizzico di romanticismo.

Lascerei da parte la componente eroica che a mio avviso appartiene ormai al passato anche se è vero che in molti casi si continua a rischiare fortemente la vita, non più per scelta eroica inevitabile, ma bensì per inesperienza o leggerezza oppure per una forma professionistica che per farti balzare alla ribalta pubblica, indispensabile per certe forme di professionismo, richiede (sembra) l’esibizione del rischio estremo come componente qualificante.
Sulle pareti alpine vi sono tracciate innumerevoli vie di scalata, aperte in stile classico (senza praticare fori nella roccia) o di arrampicata sportiva moderna aperte con l’uso del trapano e di protezioni fisse. Tra le prime si collocano le cosiddette classiche, ossia quelle che contano numerosissime ripetizioni ed è su queste ultime che sorgono i più vivaci contrasti: c’è chi vorrebbe venissero attrezzate, almeno in parte, con protezioni fisse e chi invece vorrebbe lasciarle tali e quali, come sono state aperte dai primi salitori. Tra le vie classiche farei ancora una distinzione tra le vie di roccia di medio sviluppo e di difficoltà non estrema, (è il caso delle vie classiche del Corno Stella) e le gradi vie di elevatissimo impegno come ad esempio lo sperone Walker alle Grandes Jorasses o la Solleder al Civetta. Per queste ultime, che continuano ad esser a vario titolo un banco di prova per bravi alpinisti, io sono contrario ad ogni forma di attrezzatura fissa ed auspico anche un limite alla chiodatura tradizionale lasciata in parete da parte dei ripetitori. Per la prime invece ritengo utile intervanire asportando il materiale improprio che si è accumulato negli anni sostituendolo con opportune protezioni fisse rispettando il più possibile il numero di ancoraggi usato dai primi salitori. Le vie diventerebbero più pulite, più sicure e spesso più severe di come lo sono diventate grazie ai residui lasciati dagli innumerevoli ripetitori.
Le vie classiche che ho esemplificato offrono tante cose: bella arrampicata, divertimento, piacere per l’ambiente e tant’altro, ma non ti possono più offrire la grande avventura. Per chi ama questa componente (direi primaria nell’alpinismo) vi sono innumerevoli tracciati molti dei quali mai ripetuti, basta avere voglia di uscire dal gregge. Inutile cercare l’avventura originale su vie tipo la Campia al Corno Stella, lì non c’è più.
Concludo invitando chi assale le pareti armato di trapano a rispettare chi lo ha preceduto, evitando di annullare le vecchie vie ed a non sprecare aree di roccia attrezzando itinerari brutti e banali.